Machiavelli e l’ideale politico e pedagogico di de Sanctis.
Einstein sosteneva, con la sua tipica, arguta ironia, che è più facile spaccare l’atomo che distruggere un pregiudizio.
Questo motto di spirito potrebbe essere la chiave ermeneutica della storiografia machiavelliana (e purtroppo non solo machiavelliana) per cui, nonostante i grandissimi sforzi compiuti, c’è ancora chi etichetta l’autore de Il Principe come una sorta di scrittore maledetto, che ha inquinato per sempre la moralità con l’introduzione del più spietato politicismo. Perfino la nostra lingua ha, per secoli, adottato il termine machiavello o l’aggettivo machiavellico in senso dispregiativo, come si trova perfino nel napoletano “machiaviello” per indicare, in questo caso specifico, un marchingegno astuto quanto truffaldino.
Lasciamo da parte l’antimachiavellismo degli anni immediatamente posteriori alla morte del segretario fiorentino che, per tanti aspetti, trovano un oggettivo riscontro storico ed una giustificazione, se non filosofica, essa stessa politica. Ma è già abbastanza arduo dover accogliere l’idea che, se si fa eccezione di Giambattista Vico, in qualche modo del Bodin, e di pochi altri, bisogna attendere l’Ottocento per avere una prima chiara riconsiderazione dell’importanza della concezione machiavelliana dell’etica e della politica.
Bisogna aspettare il contributo di Fichte e il suo Saggio sul Machiavelli del 1807 nel quale, come ricorda anche il Meinecke, il grande filosofo scorge l’importanza del realismo politico del Machiavelli che non si contrappone necessariamente all’etica. E bisogna aspettare il Romanticismo italiano, basti pensare a Foscolo, pur fra i tanti limiti interpretativi ed una certa comprensibile propensione alla retorica patriottica.
Ma è senza alcun dubbio con Francesco De Sanctis che si opera una vera e propria svolta interpretativa e si pongono le basi di quella che, ancor oggi, fortunatamente, è la lettura più accreditata e intelligente dell’opera machiavelliana e che ci permette di eliminare dal nostro orizzonte, almeno teoretico, ogni residuo moralistico, per esempio ancora presente in qualche inintelligente interpretazione di cultura anglosassone.
Tutto ciò è evidente se si rileggono con attenzione le conferenze che De Sanctis tenne sul Machiavelli ripubblicate molto opportunamente dalla casa editrice Mephite nella collana “I Cacciaguida”, ideata e diretta da Toni Iermano.
Il grande critico irpino, con nettezza e decisione, afferma che fino ad allora la cosiddetta questione del Machiavelli è semplicemente stata una questione mal posta. Mal posta, tranne che in qualche raro caso, soprattutto non italiano, dall’intera tradizione critica, nella quale si possono accomunare sia i detrattori che gli estimatori del Segretario fiorentino.
Benedetto Croce, anni dopo, farà sua completamente la posizione di De Sanctis, e, su quelle fondamenta, edificherà l’intero edificio interpretativo che lo condurrà ad identificare Machiavelli con la fondazione della filosofia politica moderna.
Ma qual è, dunque, questa questione? L’antico dilemma circa la moralità o l’immoralità del Machiavelli circa, per essere meno banali, la possibilità di fondare una filosofia morale sulle ricerche machiavelliane. Ed è questione effettivamente mal posta perché, ne Il Principe, come negli altri scritti, Machiavelli non si pone nella prospettiva, per così dire, asettica del filosofo da tavolino che intende ricercare principii, proporre definizioni, possibilmente edificanti, che seguano il corso dell’opinione pubblica. Intende, invece, come è evidente da quasi ogni sua pagina, indagare la “realtà effettuale” e possibilmente comprenderne le ragioni più intime, le connessioni più stringenti. Cerca di cogliere il proprio della dinamica storica nella storia stessa, immergendosi nella realtà per capirne fino in fondo i meccanismi, quali che siano.
Ed è da questo punto di vista che egli è effettivamente lo “scopritore” dell’autonomia della politica come categoria autonoma dello spirito, o, come diremo oggi, come elemento fondativo del processo storico. E la politica ha per così dire le sue leggi, alle quali sole deve rispondere, che spesso sono dure, addirittura feroci. Chi volesse negare questo, tanto varrebbe che negasse la realtà, la nostra vita quotidiana, l’intera storia dell’umanità, così come l’abbiamo conosciuta.
E’ dunque immorale chi guarda in faccia alla realtà senza finzioni ed ipocrisie, senza fanatiche aspirazioni utopistiche? Machiavelli senz’altro no, perché l’orizzonte in cui si muoveva era quello della ricerca di uno Stato forte e ordinato ma sottoposto alla legge e, attraverso e mediante questa sottomissione, garante della libertà di tutti. Machiavelli prefigurava, pur senza esagerarne la portata, un’Italia unificata dal Principe, ma non per mera volontà di potenza, ma solo perché un’Italia unita sarebbe stata forte abbastanza da poter essere anche libera perché indipendente. Il Principe, dunque, come strumento necessario, per quei tempi, perché si attuasse la libertà nella realtà effettuale e non solo nei sogni dei profeti disarmati; il principe come unico strumento di affermazione della moralità concreta, come antidoto alla “corruttela” e alla meschinità dell’uomo qualunque, dell’uomo del Guicciardini, come lo definiva appunto De Sanctis.
Fondamentali, ancora illuminanti per le nostre interpretazioni della storia recente, le pagine desanctisiane dedicate alla modernità del Segretario fiorentino, ossia all’uomo nuovo che egli delinea seppellendo definitivamente il Medioevo e aprendo così all’Età moderna. Quel Medioevo che aveva prodotto la corruttela di fondo che si poteva riscontrare nell’epoca nuova perché aveva affievolito quel senso forte ed alto della dignità individuale, della libertà come valore assoluto.
De Sanctis cita infatti questo lungo passo dei Discorsi quanto mai chiaro ed esplicito:
“La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha di poi posto il sommo bene nell’umiltà, nell’abiezione, nel dispregio delle cose umane, e non nella grandezza dell’animo, nella forza del corpo e in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la nostra religione richiede che abbi in te fortezza, vuole che tu sii atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere adunque pare che abbia renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scellerati, i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l’universalità degli uomini per andare in Paradiso, pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle. E benché paia che si sia effeminato il mondo e disarmato il cielo, nasce più senza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno interpretato la nostra religione secondo l’ozio e non secondo la virtù. Perché se considerassimo come e permette l’esaltazione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi l’amiamo e onoriamo, e prepariamoci ad esser tali che noi la possiamo difendere. Fanno dunque queste educazioni e sì false interpretazioni che (…) ne’ popoli non si vede amore alla libertà.”
L’Italia di don Abbondio, potremmo dire, contro l’Italia di fra’ Cristoforo.
Quale che sia il valore da dare all’interpretazione complessiva di De Sanctis, e scontata definitivamente la critica di quanti giustamente ma ormai ossessivamente ci spiegano che il Medioevo fu fenomeno più ampio e complesso di quello che si è soliti immaginare, non vi è alcun dubbio che nell’animo e nel pensiero di Machiavelli, come nei suoi seguaci dell’Ottocento e del Novecento, l’amore per la libertà fosse vivo e centrale e divenisse il punto di riferimento essenziale. Ideale di libertà al quale andava sottomesso, come unico strumento affinché esso si realizzasse concretamente, il realismo politico, quel crudo senso della realtà, della forza, che talvolta ancora possono stupire il lettore inconsapevole.
L’esaltazione della forza nei confronti dell’eccessiva umiltà e della pigrizia morale non ha nulla a che vedere, come è chiaro dal passo machiavelliano e da tutti gli altri scritti del pensatore fiorentino, con l’esaltazione della violenza che tanti militanti del totalitarismo compirono nel nostro Novecento. Dar forza agli umili, si potrebbe dire, per combattere gli scellerati, è il punto di vista di Machiavelli, di Vico, di De Sanctis, di Croce dopo di lui. Il contrario esatto di ciò che i piccoli e grandi tiranni del secolo passato e i loro pseudofilosofi di elezione, hanno sostenuto talvolta manipolando e strumentalizzando Il Principe di Machiavelli.
Scrive infatti De Sanctis:
“Noi dunque abbiamo abbozzata una parte di questo edificio moderno, alla sommità del quale trovasi lo Stato civile, indipendente, emancipato, autonomo, ed alla base l’individuo con l’immutabilità e l’immortalità dello spirito produttore e creativo; base attiva da cui deve sorgere tutto l’edificio moderno. Qual è il nome di questo edificio? E’ la società. Che cosa rappresenta nel mondo di Machiavelli? La nazione.”
Si delinea così sempre più netto il disegno interpretativo di De Sanctis che corrisponde, poi, a ciò che era stata e sarà la sua utopia politica, utopia operante e concreta, effettuale appunto, per dirla ancora con Machiavelli. L’idea che la libertà italiana si doveva costruire attorno all’unità nazionale ed attraverso una riforma innanzitutto morale e quindi politica della condizione sociale dell’intero paese, vorremmo dire di ogni singolo cittadino come individuo. Non che la religione, sia detto per evitare equivoci, sia stata o sia per questi uomini in sé e per sé un ostacolo. Ma certamente un certo modo, largamente diffuso, anzi sicuramente dominante, di concepirne la tradizione.
Non è un caso che Croce, nel saggio “Ciò che il Machiavelli fece e ciò che lasciò da fare”, scritto nel 1950 e dunque negli ultimi anni della sua vita (morì due anni dopo), tornando su quello che per tanti aspetti fu un suo autore, un suo punto di riferimento costante, e quasi a voler lasciare una sorta di sintesi del suo pensiero per i futuri interpreti che volessero svolgerlo, scrivesse: “Nel Machiavelli è ammirevole la chiarezza, la fermezza e il vigore con cui sono espressi i principii fondamentali della vita etico-politica. Questi sono tre: 1) che la libertà è la solo forma di Stato degna dell’uomo; 2) che la religione è la forza dello Stato; 3) che la politica è la legge dell’azione che vuole raggiungere il suo fine.”
Ma la continuità interpretativa fra De Sanctis e Croce risulta chiara ed evidente in quello che potremmo chiamare lo spirito risorgimentale che, sia pure, naturalmente, con toni e accenti diversi, è a fondamento della lettura di Machiavelli.
Per De Sanctis, come si è visto, l’autore de Il Principe è per alcuni aspetti l’iniziatore della politica nazionale, quella per la quale secoli dopo l’Italia compirà quello che per tanti aspetti è il suo gesto politico più grande, quello per cui, dopo secoli di decadenza (decadenza, naturalmente, etico-politica) troverà un moto di dignità e conquisterà l’indipendenza e la libertà costruendo uno Stato nuovo e moderno.
Queste parole conclusive di De Sanctis danno il senso della sua posizione non solo ermeneutica ma anche politica: sono il compendio del suo pensiero e della sua azione, sempre intimamente congiunti, come è nel caso dei veri filosofi e dei veri uomini politici.
“Quest’uomo, scrive riferendosi, naturalmente, al Machiavelli, il creatore de’ tempi moderni, è stato pure un grande utopista. Egli immaginò di far con la scienza ciò che avea voluto fare il Savonarola con l’entusiasmo, e dimenticò che l’entusiasmo può produrre qualche cosa di immediato, mentre la scienza ha conseguenze lontane: il pensiero solitario deve percorrere la sua lunga via. Ecco l’utopia di Machiavelli. Immaginò: Diamo al popolo italiano istituzioni politiche, diamogli un capo e ne faremo la nazione. Ma non vide che le istituzioni stesse sono effetti, non cause. Che bisognava ricreare il popolo, ricreare il pensiero, ricreare insomma l’uomo, l’uomo romano che egli sognava; o meglio, egli faceva tutto questo; ma non per i contemporanei.”
Ora, poco importa, a questo punto del nostro discorso, soffermarsi ancora sull’interpretazione di Machiavelli. Conta forse di più mettere in luce questa costante preoccupazione desanctisiana che è anche la sua utopia. Ciò che De Sanctis ha affermato di Machiavelli, è forse possibile affermare per lui. Ossia che la sua scienza politica diventa utopia etico-politica, allorché egli è convinto che se non si modifica con il lavoro, con l’azione, con la continua critica, l’anima di un popolo, l’uomo stesso, diremmo oggi il cittadino, non c’è nessuna istituzione o dottrina politica o legge economica che, da sole, possano creare libertà e giustizia, promuovere la civiltà.
Congedandosi dai suoi ascoltatori De Sanctis affermava:
“Ma ai giovani si consegnano gli ultimi risultati coi programmi e colle tesi, e non imparano a ricercare la scienza con lavorio produttivo: fra noi non c’è quel laboratorio in cui professore e discepolo si seppelliscono per generar la scienza. Che basta imparare? Bisogna creare; ed è questo che per la nuova generazione io voglio desiderare; giacché ormai siamo la vecchia generazione. Io mi rivolgo, continua, specialmente ai giovani e dico loro: questa generazione vecchia vi ha dato l’unità e la libertà, ma guardatevi dal prendere abbagli; questo non è il rinnovamento d’Italia; è la conquista degli strumenti; i quali se rimangono irruginiti nelle vostre mani, è meglio gettarli via. Avete gli strumenti del lavoro; ma, come diceva Machiavelli alla famiglia dei Medici, il resto lo farete voi.”
E’ qui tutto intero sintetizzato l’ideale politico e pedagogico di de Sanctis, ed è espressa con estrema chiarezza e antiretorica semplicità la sua originalità nel panorama culturale e politico dell’Ottocento italiano e, in gran parte, europeo.
Come Machiavelli, come Tocqueville, anche De Sanctis non fu pensatore sistematico, ma si ritrovano in lui i concetti fondamentali della vita politica, della vita etica, della loro distinzione e della loro inscindibile unità; come nella sua critica si poteva rinvenire un’estetica filosofica, così, nei suoi scritti politici, si rinviene una filosofia della politica modernissima, non ancora compresa in tutti i suoi termini. Attraverso Machiavelli comprendiamo fino in fondo il concetto di autonomia della politica, che significa liberarsi da ogni forma di moralismo, di pietismo e di fanatismo, per conquistare pieno il senso del realismo politico che non è di esaltazione della crudezza della forza o della meschinità del cinismo ma del valore insostituibile dell’azione, della creazione, anche in ambito politico.
Comprendiamo quindi la forza dell’etica, la quale si accompagna alla politica, si attua attraverso la politica e quindi combatte la cattiva politica, la quale può presentarsi talvolta, ingenuamente, col volto della prepotenza, ma tante altre col volto, buono quanto ipocrita, della compiacenza ed altre ancora col volto ieratico della bontà suprema pronta a tramutarsi presto in terribile totalitarismo, in ottuso assolutismo.
Da qui, con De Sanctis, definitivamente acquisiamo il concetto dell’unità dello spirito, come avrebbero detto i filosofi dell’Ottocento, ossia comprendiamo come nessun atto politico ha senso fuori dalla complessità della storia, se non è immerso nella concretezza della vita quotidiana, se non è sempre un’azione consapevole della propria portata. Tante volte, ancora oggi, si sentono accusare i filosofi di dar scarso credito alle politiche istituzionali, al Diritto, alle leggi, e così via. Ma da De Sanctis abbiamo imparato che nessuna istituzione, nessun diritto, nessuna legge, per ben congegnati che siano, possono assolvere al compito che si prefiggevano se manca la reale volontà etico-politica di farne uno strumento valoriale, che è come dire, uno strumento di libertà.
Ernesto Paolozzi