Sfaticati, scansafatiche, fannulloni: ma per l’OCSE i lavoratori italiani sono i più produttivi

Secondo un rapporto OXE, i lavoratori italiani sono i più produttivi d’Europa.

Sono, rispetto anche agli americani e ai giapponesi, lavoratori costanti ma non ossessionati e, a parità di quantità di lavoro, producono di più. Una bella soddisfazione, non c’è che dire! Ma, al di là di questo mero dato, bisogna forse cercare d’interpretare il motivo profondo, vorrei dire psicologico, che sta alla base del luogo comune secondo il quale, invece, gli italiani sono dei cattivi lavoratori e, soprattutto, dei non lavoratori, degli sfaticati, degli scansafatiche, dei fannulloni. Giocano, io credo, due componenti fondamentali: il senso di certezza che conferisce la quantità rispetto alla qualità e il moralismo che lega strettamente il risultato al sacrificio.

Nelle scuole italiane, come forse in quelle di tutto il mondo, è difficilissimo stabilire la qualità dell’insegnante, e allora, quali sono i parametri che si scelgono?

Quelli puramente quantitativi, ad esempio quello della puntualità nell’entrata e nell’uscita dei docenti. In fin dei conti, se ben si riflette, ciò finisce con il premiare gli stupidi e i mediocri. Perché tutti sono capaci di arrivare in orario, pochi di insegnare bene. Ricordo che, quando all’Università s’impose un monte ore ai professori, Raffaello Franchini illustre docente di filosofia teoretica, e grandissimo lavoratore, lapidariamente commentò: “Il Ministero ci ha ordinato di essere intelligenti trecentocinquanta ore all’anno”.

Non sembri paradossale, ma la mentalità quantitativa, in opposizione a quella qualitativa, s’insinua perfino nel calcio che è ormai, come è noto, lo specchio più limpido della società italiana.

Allenatori, Presidenti e medici sociali, tentano di imporre un metodo puramente quantitativo (gli schemi, i test, e così via) , sacrificando sistematicamente i giocatori di qualità. Ma , nella scuola come nel calcio e in tutta la società i dati finali, come quelli dell’OXE, dimostrano poi che a produrre maggiore quantità sono quelli che hanno puntato sulla qualità e, per tornare alla metafora calcistica, vincono sempre le squadre che hanno i Pelé, i Maradona, i Baggio e così via. Sono molto rari i casi contrari.

Chi ha una minima esperienza dell’amministrazione pubblica in tutte le sue sfaccettature, dovrà ammettere che alla stragrande maggioranza dei dipendenti viene chiesta una sorta di sacrificio assurdo, quello di fingere di lavorare. Nella maggior parte dei casi, quella che appare fannullagine o sfaticatezza è, in realtà, obiettiva mancanza di lavoro da svolgere, eppure si pretende che il lavoratore s’impegni a non far niente.

Per tornare alla scuola, si pretende che i docenti stiano ore intere in edifici assolati e scomodi quando gli alunni sono già in vacanza. Dopo di che Presidi e Direttori un po’ più astuti inventano, di tanto in tanto, inutili riunioni, didattiche e di programmazione, per fornire un alibi all’assurda pretesa di tenere uomini e donne di una certa età in un indignitoso stato di prigionia psicologica. Il risultato di questo atteggiamento è, in generale, che i professori che hanno subito questa angheria si disaffezionano al loro lavoro e finiscono per lavorare male anche quando il loro lavoro sarebbe effettivamente necessario.

Siamo così arrivati al secondo aspetto della questione. Siamo da secoli abituati a legare il lavoro alla sofferenza, al sacrificio e sembra che chi lavori divertendosi non lavori.

Diciamoci la verità: attori, calciatori, scrittori, giornalisti, artisti, scienziati, non sono considerati lavoratori, perché generalmente il loro lavoro coincide con l’interesse e la passione. Probabilmente, ci portiamo dietro l’antico condizionamento della maledizione biblica: ”Tu uomo lavorerai con gran sudore, tu donna partorirai con gran dolore”. A chi di voi lettori non è capitato di sentir dire anche a qualche medico importante che è bene che le donne soffrano, partorendo, perché così vuole la natura, salvo poi a dover intervenire all’ultimo minuto con un parto cesareo quando la natura combina lo scherzo di far soffrire tanto la puerpera fino a condurla alla morte di lei e del nascituro.

Ma lungi da me l’idea di attribuire tutte le colpe alla tradizione cristiana. Basti pensare a San Benedetto, che incitava a lavorare in letizia. Ma vallo a dire agli economisti, ai colonnelli, ai dirigenti e ai lavoratori quando giudicano, naturalmente, del lavoro altrui e non del loro: si dissolve ogni carità cristiana.

Ernesto Paolozzi

da “Corriere economia” del 26 giugno 2000