Flessibilità diventa licenziamento.
Il cambio di guardia alla guida del governo italiano sta modificando anche il lessico politico. Un vecchio filosofo tedesco affermava che il linguaggio è la dimora dell’Essere, con ciò intendendo dire che quella che noi chiamiamo realtà si presenta a noi sempre e soltanto attraverso il nostro linguaggio. Così, oggi che la sinistra non è più al governo, una parte di essa comincia a cambiar nome alle cose, le quali dunque, secondo la teoria del vecchio filosofo, dovrebbero mutare anch’esse.
E’ divertente, ad esempio, scoprire che la cosiddetta “Flessibilità” in uscita, invocata dagli industriali italiani per quanto concerne il rapporto di lavoro, torna ad essere chiamata, dopo alcuni anni, “licenziamento”. Ed è strano che questa idea non fosse balenata a giornalisti e sindacalisti qualche mese fa, durante il governo D’Alema. Se si andrà avanti così, com’è probabile, presto la “devolution” tornerà a chiamarsi decentramento amministrativo e le operatrici dei call center finiranno, poverine, con il ritrovarsi ad essere di nuovo centraliniste. Molti dei lavoratori della new economy torneranno ad essere paninari o impiegati dei servizi. E, chissà che, così facendo, i dirigenti scolastici non ritornino ad essere presidi, gli operatori ecologici spazzini e perfino le collaboratrici domestiche cameriere.
Qual è (è questa l’interrogazione filosofica di fondo) la realtà dell’essere che abita nel nostro linguaggio? Oppure, come sembra, i nostri linguaggi politici si lasciano abitare dal nulla, più che non dall’essere, e da un nulla che è in realtà una forma ben sostanziata di opportunismo?
Bando all’ironia, (di cui nessuno dovrebbe abusare troppo, meno che mai chi scrive), certo è che, se è in gran parte vero che dietro la terminologia ottimistica della moderna ideologia capitalistica la realtà è molto più cruda, talvolta prosaica, qualche volta disperata, è altrettanto vero che il repentino mutamento di linguaggio di una buona parte della sinistra passata all’opposizione nasconde un’incapacità di fronteggiare il processo economico e politico in atto. Abbiamo visto in televisione un importante dirigente dei Ds che solo qualche mese fa indossava giacche e cravatte da capitalismo avanzato, sbracciarsi in maniche di camicia nel tentativo un po’ goffo di mettere il cappello sul movimento di contestazione che si prepara a fronteggiare il G8 di Genova.
Non è così, a mio avviso, che la sinistra potrà riconquistare un ruolo di governo. Ciò, non perché non si debba guardare, come abbiamo tante volte già scritto, con grande attenzione al movimento (lo stesso governo ha evitato radicali chiusure) ma perché è necessario che affianco al movimento continui ad esistere, ed anzi si rafforzi, un diverso tipo di opposizione, in modo tale che gli italiani possano rappresentarsi delle alternative possibili.
Si potrà obiettare che in alcuni momenti della storia, come diceva il riformista Bernstein e ripeteva (sentite, sentite) Benedetto Croce, il fine è niente e il movimento è tutto.
Non sarò certo io a negarlo. Ma il punto è essere chiari e intellettualmente onesti. Perché è legittimo domandarsi se il futuro della sinistra italiana sarà movimentista o riformista, ma non avrà sicuramente futuro l’opportunismo, peraltro neanche ben dissimulato.
L’opportunismo ha, purtroppo, la sua cittadinanza, ma le grandi battaglie si vincono solo con la passione. E se c’è un’autentica passione del movimentismo, c’è anche un’autentica passione del riformismo e perfino del governo, se è il governo delle garanzie istituzionali di tutti i cittadini.
Ernesto Paolozzi
Da “Corriere economia” del 16 luglio 2001