Lucio D’Alessandro, Il dono di nozze, Mondadori, Milano, 2015, pp213, E 25,00.

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“Fu la volontà ferma e coinvolgente di Silvia Croce, quarta tra le figlie di Benedetto, a rendermi protagonista della rinascita di carte polverose e personaggi dimenticati, testimoni silenziosi di un’età lontana rimasta a molti ignota (…) tra quelle carte vi erano le lettere che hanno dato origine alle pagine precedenti, e anche un centinaio di missive indirizzate dalla regina Margherita all’amica Adelaide. Questi ultimi preziosi autografi, che coprono un ampio arco cronologico – dagli anni in cui la regnante era ancora principessa del Piemonte fino alla fine della sua vita – erano accompagnati da un biglietto nel quale la stessa sovrana chiedeva che essi non fossero resi pubblici prima di cinquanta anni dalla sua morte”

Così Lucio D’Alessandro ricostruisce la genesi, la preistoria, come scrive, del romanzo “involontario” che ha come protagonista un dono di nozze, quello che le dame di corte dovranno offrire per il matrimonio di Vittorio Emanuele principe di Napoli e la principessa Elena di Montenegro.  Non si tratta, dunque, di un dono qualunque poiché non potrà essere banale, scontato o eccentrico. L’arduo compito di scegliere il dono sarà affidato alla principessa di Strongoli, Adelaide Pignatelli del Balzo, donna di raffinata cultura che accoglierà l’invito con entusiasmo e preoccupazione. La Principessa, concepisce un ambizioso progetto: far dipingere ad uno dei più grandi artisti italiani, Francesco Paolo Michetti, una tela di fine e ricercata fattura, nella quale sia immortalato il paesaggio montenegrino. La fattura della cornice artistica è affidata al noto decoratore Augusto Burchi e, a completare l’opera, i versi di Gabriele D’Annunzio incisi sul nastro che accompagna l’originale, prezioso dono.

D’Alessandro, non senza una garbata e raffinata ironia mai sarcastica, fa rivivere questo momento minore della storia italiana facendo parlare le lettere custodite negli archivi di Suor Orsola Benincasa e così il romanzo involontario si dipana in una narrazione vera e propria giacché  “la nostra esistenza è intessuta di vicende singolari, circostanze uniche che aspirano a diventare narrazioni letterarie e che noi abbiamo quasi il dovere morale di non lasciare scomparire nel silenzio dell’oblio.”

Prende quota, in tal modo, la figura di Adelaide, vera protagonista della ricostruzione compiuta da D’Alessandro: ”La principessa Adelaide del Balzo di Melissa Pignatelli, era il tipo ideale della giovine signora napoletana del IX secolo, legittima campionessa di una stirpe di gentildonne appartenenti ad una razza muliebre  d’eccezione (…) Il culto delle lettere, il gusto dell’arte, l’apertura risorgimentale avevano trovato consonanza e alimento nella sua vita da sposa accanto al conte Francesco Pignatelli di Melissa, poi diventato principe di Strongoli, ultimo esponente di un casato che aveva molto sacrificato sull’altare delle passioni risorgimentali.”

La principessa è una figura centrale della storia culturale del nostro paese sul versante dell’istruzione e dell’emancipazione femminile, avendo riportato a vita nuova la cittadella monastica di Suor Orsola divenuta istituto educativo femminile nel 1891. “Adelaide, ci ricorda D’Alessandro, teneva più di ogni altra cosa a quel luogo incantato e alla sua scuola: ci teneva nell’interesse della pubblica cultura, ci teneva perché era una iniziativa italiana, ci teneva perché con essa Napoli si era messa alla testa di una cosa bella e nuova, ci teneva per orgoglio di casta; un nome storico come il suo – che era stato illustrato col bel sangue patrizio versato per la libertà da due prozii del marito decapitati nel 1799 – si adornava con tale istituzione di una nuova aureola, mettendosi alla testa del progresso ed impegnandosi in un’opera di rinascita culturale e sociale.”

 Ma le preoccupazioni di Adelaide non si confinano nel recinto delle difficili relazioni fra dame di corte, artisti più o meno eccentrici, notabili di varia natura e carattere. Si inscrivono in un quadro ben più tragico, la sconfitta italiana di Adua nella guerra di Abissinia, che investe di una triste luce il matrimonio dei giovani eredi, un momento drammatico della storia nazionale nel quale la “ frivolezza” di un sia pure importante e politico matrimonio, sembra non poter trovare cittadinanza. Il matrimonio, infatti, ci ricorda D’Alessandro, si tenne in tono minore e non furono risparmiate critiche e ironie anche molto dure, se non feroci come in qualche articolo di giornale particolarmente caustico.

Ma fra tante testimonianze pubbliche e private ricostruite da D’Alessandro, vale forse la pena mettere in risalto il giudizio che Giosuè Carducci ne diede. Scriveva infatti il più grande poeta italiano dell’epoca: “ecco: come uomo, come liberale, come italiano, io sono contentissimo che l’A.R. del Principe di Napoli sposi una Principessa del Montenegro (…). Sono contentissimo. Ma non prendo parte a dimostrazioni. Obbedisco al Re che non vuole feste. No, non feste in fin che il danno e la vergogna dura. Non gridiamo, non cantiamo, non soniamo troppo; che il vento non rechi un eco delle nostre allegrie là nelle solitudini africane”.

Ma, come D’Alessandro sempre puntualmente riporta, una parte della stampa si mostrò molto meno tenera del pur severo giudizio del Carducci e non mancarono pesanti, e qualche volta perfino volgari, polemiche come in un articolo il cui titolo era, “Le nozze con i fichi secchi”. La Del Balzo ne rimase turbata, data la sua coscienza culturale e, potremmo dire, politica autentica e sincera. E così la narrazione di D’Alessandro ci restituisce un rattenuto tormento che meglio definisce la figura di una dama di corte che era anche, e soprattutto, una donna di raffinata cultura e di spiccata sensibilità etico-politica.

L’impresa comunque andò a buon fine, il dono fu apprezzato anzi, a quanto sembra dai documenti e dalla ricostruzione compiuta, molto apprezzato dalla principessa montenegrina. Non volle infatti mai separarsi dal quadro che ricordava la sua terra natia e pare lo portasse con lei anche quando fu costretta a lasciare l’Italia dopo la seconda guerra mondiale per andare in esilio. Purtroppo il quadro non si è mai più ritrovato. Lo stesso D’Alessandro si è provato in tanti modi a ricostruire l’itinerario compiuto da quel dono di nozze che pur rappresenta, in certo qual modo, un particolare spaccato della nostra storia nazionale.

Quasi a volerci incoraggiare a continuare la ricerca, sia pure soltanto ideale e, perché no, romantica, del prezioso oggetto (anche se sembra che l’opera non fosse fra le migliori dell’eccentrico Michetti) così conclude il suo romanzo Lucio D’Alessandro: “si può supporre che Elena restasse ancor più legata al dipinto dopo la morte del consorte tanto da scegliere di portarlo con sé nella casa di campagna di Mas de Rouel, la proprietà che il professor Lamarque mise a disposizione perché fosse curata più agevolmente; ella poté disporre piuttosto liberamente della casa che rinnovò in alcuni aspetti, cambiando il colore delle pareti, ammobiliandola secondo il suo gusto e trasferendovi gran parte dei suoi ricordi. Possiamo allora idealmente sperare che il quadro abbia accompagnato colei alla quale era destinato fino alla sua morte e che solo in seguito sia andato perduto. La sua scomparsa resta comunque un mistero che oggi ci sfugge e che io lascio qui insoluto, lanciando la sfida della ricerca ai lettori più intrepidi di queste mie pagine”.

 Ernesto Paolozzi

Dalla Rivista di Studi “Libro Aperto”, Numero 85, aprile – giugno  2016