Borghesia e ceto medio

Commentando una riunione di borghesi, il giovane segretario regionale dei Ds ha definito l’ex presidente della Confindustria D’Amato un eroe, un vero eroe, della borghesia.

Da qui dibattiti, gossip, dietrologie, gravi interrogativi: un accordo ex-ds ed ex-borghesia berlusconiana in vista della creazione del nuovo Partito democratico? Un modo, dato che ci troviamo in un clima da Rivoluzione francese, di uscire dalla palude? Finalmente una riscossa del Terzo stato dopo il fallimento della Rivoluzione napoletana del ’99?
Ebbene. Sembra di no. Ci è sorto infatti un dubbio: vuoi vedere che il giovane impertinente avesse usato quel sostantivo in termini ironici?

A leggere per intero il testo incriminato, l’attacco alla borghesia napoletana era così duro da fugare ogni ombra di dubbio. Ed effettivamente è difficile pensare ad un improvviso risveglio della classe politica e della borghesia in un momento in cui ci si deve essenzialmente occupare di termovalorizzatori ed abbassamento dell’ICI.

Piuttosto, per tornare alla questione di fondo, bisogna partire dalla distinzione operata, sempre in questo contesto, da Ciriaco De Mita fra borghesia come classe dirigente e borghesia come ceto medio. D’altro canto, un vecchio filosofo, che cerco di nominare il meno possibile, parlò di un equivoco concetto della storiografia, la borghesia, appunto.

Che a Napoli e in Italia non esista una borghesia come classe dirigente, in quest’ultima fase della vita politica, è un’amara constatazione. E non potrà tornare ad esserlo, a mio avviso, fino a che non si scioglie l’equivoco circa la distinzione fra il Berlusconi politico e il Berlusconi imprenditore. Questione che va al di là del conflitto d’interessi in senso tecnico perché è ormai un conflitto etico-politico in senso ampio. Non potremo mai più capire, quando si parla di tasse, ad esempio, se parla il capo dell’opposizione o il rappresentante di categorie interessate, sindacalmente, a quella materia.

Resta la questione della borghesia come ceto medio.

Che è questione altrettanto grave, di cui si parla poco negli ultimi anni. Il ceto medio, al di là del fatto se sia in grado di esprimere dal suo seno uomini capaci di assumere la dirigenza di larghi settori della vita politica ed economica, è di per sé il ceto, potremmo perfino dire la classe, fondamentale di un paese democratico. Ed è politico in sé e per sé, e la sua caratteristica è quella tipica di una società democratica e liberale. Gli interessi economici e culturali di questo ceto, che in una società veramente civile dovrebbe rappresentare la maggioranza anche numerica, sono, appunto, medi perché devono tendere a sintetizzare le spinte estreme che provengono dai ceti particolarmente svantaggiati e da quelli particolarmente privilegiati.

E’ il ceto medio che ha fatto grande la democrazia americana; ha difeso il libero mercato ed è riuscito a costruire uno stato sociale equo e forte; è stato la base dei grandi partiti di massa dell’Occidente progredito; ha fornito il tessuto vitale di una società avanzata, quello dei professionisti e degli intellettuali, per così dire, di media statura.

E’ questo ceto a vivere una profonda crisi nella ricca Lombardia, a Napoli ad essersi ritirato sull’Aventino, per dirla col nostro Prefetto, da più di un ventennio.

La sua crisi si percepisce e si avverte nella vita quotidiana, nell’assenza di partecipazione responsabile alla vita politica, nella latitanza dalle manifestazione culturali di ogni tipo e genere, nella scarsa vendita dei quotidiani, nella debolissima propensione (e questo, ahinoi, soprattutto al Sud) all’impegno sociale, al volontariato.
Come intervenire per cercare di invertire la rotta intrapresa da questo ceto, che non si può neppure più definire medio? Non vi sono regole chiare e precise che possano, calate dall’alto, redimere la questione. Lo si può e lo si deve fare ogni giorno, coinvolgendo quante più persone è possibile, discutendo, dibattendo, scrivendo articoli se è quello lo strumento che si ha a disposizione, promuovendo momenti di sintesi politica alta se se ne ha la capacità e la forza.
E questo è il compito di una classe politica che volesse costruire veramente dei nuovi soggetti politici.

Ernesto Paolozzi

da “la Repubblica” del 22 giugno 2007                                                                                                                                              Repubblica archivio