Croce dopo Croce: ricostruzione di un quadro
Se, per quanto riguarda la prima metà del Novecento, si è in gran parte ricostruito il rapporto fra la cultura italiana e, sia pure parzialmente, quella europea e l’opera di Croce, manca, allo stato, uno studio approfondito sul rapporto fra l’eredità crociana e il dibattito culturale della seconda metà del secolo.
Nel primo Novecento, com’è noto, il pensiero crociano nasce e si sviluppa in diretta e, potremmo dire, vincente polemica nei confronti del positivismo. Nell’età giolittiana, con l’ Estetica, la Logica, la Filosofia della pratica, Teoria e storia della storiografia, e l’assidua opera della rivista “La Critica”, fondata nel 1903, Croce rinnova profondamente la cultura italiana, la ricostruisce dalle sue fondamenta ricongiungendola con la filosofia classica tedesca e la letteratura risorgimentale e desanctisiana. Nel confronto, anch’esso sovente polemico con la sopravveniente mentalità irrazionalistica e decadentistica, quel pensiero si rafforza, si diffonde e, in Italia come in Europa e nel mondo, se ne coglie l’originalità e la forza creativa.
Dopo molti anni la filosofia italiana tornava, così, a svolgere una funzione specifica nel dibattito filosofico europeo. Durante il fascismo la funzione di oppositore del regime innalzerà Croce al di sopra della stessa discussione filosofica in senso stretto, affidandogli, di fatto, il ruolo di un simbolo etico-politico per tutto il mondo libero e per l’Italia e la Germania nei primi anni del dopoguerra.
Non sarebbe dunque azzardato dire che lungo l’arco di mezzo secolo l’opera intellettuale di Croce sia stata per molti versi centrale, dominante, pur essendo assiduamente criticata, contrastata, combattuta. Questa analisi, sostanziata da tante ricerche particolari, potrebbe essere modificata in qualche aspetto particolare ma, sostanzialmente e storiograficamente, accolta.
Difficile ci sembra, invece, delineare con eguale sicurezza una linea interpretativa per connotare la fortuna e la sfortuna del pensiero crociano nella seconda metà del secolo scorso e nei primi anni del terzo millennio.
Finita la seconda guerra mondiale e avviatasi con difficoltà la ripresa della vita democratica dopo la caduta del regime, dal ’43 al ’52 l’opera di Croce si esercitò sul piano del pubblico impegno, soprattutto sul terreno politico. Se in quegli anni il vecchio filosofo tornava con sorprendente vigore fisico e mentale a riconsiderare alcuni fondamentali momenti del suo pensiero con i saggi sulla vitalità e la dialettica; se in quello stesso periodo continuava ad interessarsi anche alle più minute questioni storiche e letterarie; se non tralasciava l’impegno di organizzatore di cultura, fondando l’ “Istituto italiano per gli studi storici” e continuando la pubblicazione della sua rivista, tuttavia all’opinione pubblica italiana ed europea appariva centrale soprattutto la sua attività politica: la ricostruzione del Partito liberale, di cui assunse la presidenza, la funzione di garanzia svolta nei governi della prima ricostruzione, l’opera di mediazione tra le componenti essenziali del nuovo corso della politica italiana.
Proprio in questi anni, che potevano essere (o potevano sembrare) gli anni della raccolta, nei quali il vecchio filosofo della libertà assumeva le vesti, un po’ retoriche ma anche simboliche, del padre nobile della patria, la polemica anticrociana divampò senza mai più sopirsi fino alla sua morte ed oltre.
E’ complesso, come si è accennato, comprendere i motivi di fondo di questa polemica, che annovera pochi precedenti nella storia passata e, soprattutto, nella storiografia filosofica. Si può andare indietro forse, con la memoria, alle polemiche antihegeliane nate dopo la morte del filosofo di Stoccarda, per richiamare un precedente che ha anche una continuità ideale con il pensiero crociano.
Chi leggesse i tanti saggi e gli articoli comparsi in quegli anni e sfogliasse gli ultimi scritti polemici di Croce, si troverebbe al cospetto di una vis polemica inusitata, e quasi incomprensibile per un giovane lettore contemporaneo. Nei confronti del filosofo abruzzese si tentarono critiche di ogni natura, che attraversarono l’intero universo del suo pensiero. Rilievi e accuse che colpivano Croce negli aspetti teoretici più rarefatti della sua opera come nelle più minute ricerche filologiche, sul piano personale come su quello politico.
Vorremmo provarci a delineare un’interpretazione attendibile della polemica anticrociana di quei travagliati anni fino ai nostri giorni secondo criteri essenzialmente storiografici. Ma è indiscutibile che il clima generale in cui quella polemica si alimentò e crebbe si connotava anche di elementi psicologici e personali non semplici da decifrare: basti pensare che nel 1964 un gruppo di studiosi, intorno ad Alfredo Parente, sentì il bisogno di fondare una “Rivista di studi crociani” tesa, essenzialmente, a rispondere a quelle critiche, a controbattere alle esagerazioni, a ripristinare, in non pochi casi, la mera verità storica dei fatti, troppo spesso contorta e stravolta. (1)
Chi sfogliasse i manuali ad uso scolastico di filosofia, di storia o di storia della letteratura; chi volesse prendersi il gusto di leggere, sia pure a campionatura, uno dei tanti saggi di storia della cultura scritti nel trentennio che va dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, potrebbe azzardare una periodizzazione di questo tipo: fino agli anni Settanta Croce fu il costante bersaglio polemico e a lui furono attribuiti tutti i guasti, o i presunti guasti, della cultura italiana. Dagli anni Settanta, complice, naturalmente, la rivoluzione culturale e di costume introdotta dal Sessantotto, anche la polemica fu abbandonata e intorno all’opera di Croce venne a crearsi una sorta di indifferenza, quasi che si materializzasse quella “congiura del silenzio” che alcuni studiosi avevano attribuito,intorno agli anni Cinquanta, al disegno, o almeno all’auspicio, del Segretario del Partito Comunista, in quegli anni ancora fortemente influenzato dalla politica della Russia sovietica. Negli anni successivi, quelli che giungono fino agli albori del terzo millennio, si è assistito, indubitabilmente, in certo qual modo ad una rinascita del pensiero crociano, e ad un nuovo interesse nato anche in settori e ambienti lontani dal suo pensiero, di cui diremo in conclusione.
Nei primi tempi si accusò Croce di avere esercitato, nel cinquantennio precedente, una sorta di “dittatura” o, negli interpreti più intelligenti, una egemonia, sulla cultura, alta e media, del paese. L’Italia sarebbe rimasta chiusa in una cultura sostanzialmente provinciale, quasi autoctona o autarchica. Per l’influenza di Croce non avrebbero trovato spazio i filosofi della scienza, i matematici, i fisici. Ancora, i maggiori scrittori e poeti europei sarebbero stati di fatto censurati e la cultura italiana sarebbe rimasta vincolata al classicismo e all’umanesimo. La filosofia di Croce avrebbe riaperto la strada all’idealismo più vieto, alla metafisica più retriva, allo storicismo più banale. Croce avrebbe stroncato poeti sommi magnificando autori minori o minimi. Le sue interpretazioni di Hegel e di Vico sarebbero state fuorvianti quando non, addirittura, filosoficamente scorrette. Filosofi come Husserl poco conosciuti sempre per via di quella nefasta influenza; la psicanalisi e la sociologia poco diffuse e divulgate, sempre per lo stesso motivo. E se gli si imputava di essere legato alla tradizione umanistica, con sublime contraddizione non gli si perdonava di aver ritenuto retoriche niente di meno che alcune pagine di Manzoni e non rilevanti, sul piano estetico, i primi quattro canti della Commedia del padre Dante. I filologi gli rimproverarono il carattere troppo filosofico delle sue ricerche, i filosofi l’eccessivo filologismo. Così gli storici, così i critici. Ci si spinse a sostenere che la Storia d’Europa del secolo XIX fosse un libro superficiale perché non suffragato da note a piè di pagina. Si disputò sulle periodizzazioni della Storia d’Italia e della Storia del Regno di Napoli. Si attaccò l’antibarocchismo di Croce e, assieme, un suo certo anticlassicismo. In compenso lo si additò come neoromantico e si contestarono la sua critica ai generi letterari, alla possibilità della perfetta traducibilità, e così via, risalendo al concetto fondamentale dell’autonomia dell’arte. Può sembrare strano ma, perfino nell’ambito delle ideologie contrapposte o, quantomeno, distanti dalla sua, Croce fu utilizzato come strumento di polemica. Alcuni neomarxisti, provenienti peraltro dall’attualismo gentiliano e dal fascismo e divenuti poi rivoluzionari, rimproverarono al marxismo italiano una certa connaturata debolezza ed un’eccessiva vocazione al riformismo dovute, ancora una volta, all’influenza del pensiero crociano.
E’ quasi impossibile ripercorrere esaurientemente le vicende dell’anticrocianesimo in questi primi anni: bisognerebbe scrivere interi volumi, e non sempre, forse, ne varrebbe la pena. Ma può essere istruttivo ricordare, ad esempio, che al filosofo si contestarono non solo le interpretazioni di Ariosto, di Shakespeare o di Goethe ma anche il fatto che, avendo studiato l’opera di Salvatore Di Giacomo, non avesse dedicato a Ferdinando Russo, altro poeta napoletano, uguale attenzione; o di aver “sbagliato” la traduzione del Pentamerone di Basile dal napoletano del Seicento, così svilendo la nobile lingua partenopea. Insomma, come se tutti quelli che avrebbero potuto essere annoverati fra i meriti di Croce, perfino i più incontrovertibili perché fondati sui fatti, come la diffusione del pensiero di Vico e di De Sanctis, della poesia di Di Giacomo o dell’opera di Basile, si capovolgessero nel loro contrario.
Se Croce aveva criticato Pascoli, ora il poeta romagnolo, alla luce dei nuovi studi linguistici, diveniva un precursore delle più moderne avanguardie. Se Croce aveva attaccato D’Annunzio, il secondo D’Annunzio e la sua figura di vate del fascismo, ora a D’Annunzio venivano perdonate perfino le sue più nefaste scelte politiche.
E così per alcuni, i più generosi, Croce diventava un discreto scrittore, un narratore di cose e leggende napoletane, ma nulla al confronto dei veri grandi filosofi interpreti dell’Essere e interroganti il Nulla.
Allo stesso modo si giudicò del Croce politico, il quale, lentamente, anzi, rapidamente, da simbolo dell’antifascismo, da autore e primo firmatario del Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925, fu additato fra i maggiori responsabili, oggettivamente e soggettivamente, dell’avvento del regime(2). Perfino quelle che potevano essere, e forse furono, valutazioni e scelte discutibili del filosofo vennero travolte dal clima polemico, così arroventato da perdere i caratteri di serietà e di dignità dell’interpretazione storica. L’accordo con il partito della Democrazia Cristiana di De Gasperi faceva dimenticare che anni prima, nel ventennio fascista, Croce fu il solo ad opporsi, in Senato, al Concordato fra lo Stato fascista e la Chiesa. E così il Croce che, dal Risorgimento e dal liberalismo, ereditava la ferma convinzione della necessità della separazione dello Stato laico dalla Chiesa, rischiò quasi di passare, in troppi, frettolosi interpreti, per un filo-clericale.
La storiografia successiva si è sbarazzata, naturalmente, di queste discussioni, quasi tutte pretestuose e, comunque, strettamente legate ad un preciso momento storico. Per quanto riguarda, per fare un solo esempio, il provincialismo addebitato a Croce, basterebbe scorrere i cataloghi della casa editrice Laterza per accorgersi di come, con la sola attività editoriale, il filosofo rappresentasse il momento più alto di congiungimento della cultura italiana con quella europea. (3)
Se abbiamo cercato di descrivere anche a tinte un po’ forti l’atteggiamento di ostilità che la cultura italiana ebbe per Croce, è giunto il momento di provare a comprendere le ragioni profonde, e certamente più serie, di disagio che quell’atteggiamento animarono. Motivi profondi, che attraversano l’intero orizzonte della cultura e dell’ideologia mondiale in una fase particolare della storia: gli anni che seguono al crollo dei regimi totalitari nazista e fascista, il consolidamento dello stalinismo, l’inizio della guerra fredda fra mondo occidentale liberaldemocratico, e mondo comunista, conflitto destinato a durare fino agli anni Novanta, con la caduta dei regimi comunisti in gran parte del mondo.
Bisogna ricordare, immediatamente, che quella divisione era fondamentalmente divisione fra due sistemi istituzionali e fra due potenze militari, perché, a livello culturale e soprattutto ideologico il mondo occidentale cominciò ad essere pervaso, se non invaso, dalla ideologia comunista la quale si presentava come la vera erede del liberalismo e del socialismo democratico, come la più autentica e forte avversaria del caduto mondo fascista. Solo se si tiene ben presente questa condizione, che a molti anni di distanza potrebbe sembrare paradossale, si può comprendere fino in fondo, la ragione profonda del dissenso nei confronti di Croce come di tutta la tradizione culturale del mondo occidentale. Un giovane nato dopo il 1980 si è probabilmente assuefatto alla nuova concezione dominante nella cultura mondiale per la quale il Novecento è stato il secolo degli orrori, nazista, fascista e comunista. Ed anche quando ha chiara la distinzione di fondo che caratterizza tali ideologie, per cui, ad esempio, mentre il nazismo era motivato dalla esaltazione della razza, il comunismo ambiva al riscatto dell’umanità intera, non ha dubbi sul fatto che esse siano da riprovare come ideologie liberticide e da rifuggire come organizzazioni inumane dello Stato. Un giovane, invece, formatosi negli anni della guerra fredda o, ancor più, alla fine degli anni Sessanta era stato educato dal paradigma culturale di quel tempo a riconoscere nel comunismo la nuova religione salvifica per il mondo intero.
In quel clima maturava la polemica anticrociana :un evento culturale e politico che trascendeva ogni ricognizione critica,ogni indagine rigorosa e serena.
Il neomarxismo
Già nei primi anni successivi alla seconda guerra mondiale, in Italia, come in Francia, in Germania, nella stessa Inghilterra e perfino negli Stati Uniti, riprende vita, in varie forme, con diversi accenti, il marxismo. Nel nostro paese esso assume forme e caratteristiche proprie, destinate ad incidere profondamente, forse in maniera più duratura che in altri paesi. Bisogna distinguere, anche in questo caso, fra la vulgata marxista e il pensiero scientifico di alcuni protagonisti, fra i quali, senz’altro, Antonio Gramsci.
Si può, ormai, sorvolare sulle invettive, sui sarcasmi e perfino sulle censure che Croce ed i pochi crociani rimasti subirono in quegli anni da parte della varia stampa e dagli intellettuali legati strettamente ai partiti politici. Ciò può, anzi deve interessare lo storico che intenda ricostruire i nessi fondamentali di quell’epoca più che all’interprete del filosofo. A Croce, come si è già in parte ricordato, furono attribuiti, anche da parte della cultura marxista, pensieri ed azioni che non appartenevano alla sua cultura, alla sua formazione, alla sua personalità.
Lo stesso filosofo rammenta con rammarico ed amarezza come tanti suoi critici non ricordassero, o non volessero ricordare, i suoi giovanili studi su Marx, la sua stretta collaborazione ed affettuosa amicizia con Antonio Labriola e come, agli inizi del secolo, egli si fosse fatto fra i più attenti e scrupolosi divulgatori del marxismo. Ma, com’è noto, la polemica politica segue una sua propria ragione, legittima in quanto appartiene, appunto, alla polemica politica, ma che non ha alcun senso allorché si tratta di dare un giudizio di carattere critico o di carattere filosofico meditato e imparziale. Si opposero, dunque, in quegli anni al pensiero crociano quelle che potremmo definire le critiche sociologiche, e dell’estetica sociologica in primo luogo, indagini storiche di tipo economicista, si opposero autori come Lukàcs ed altri. Ma, come si è detto, la critica più interessante, che mette conto di prendere in considerazione, fu quella di Antonio Gramsci.
Il pensatore sardo, è bene ricordarlo, aveva scritto i suoi appunti negli anni Trenta, in carcere. Ma essi vennero alla luce soltanto molto dopo, sviluppando la loro influenza nel secondo dopoguerra. Croce ebbe appena il tempo di leggere le Lettere dal carcere, che apprezzò moltissimo, e le prime stesure degli appunti, che invece suscitarono le sue più preoccupate perplessità.
Ma fu negli anni a seguire che l’influenza gramsciana si fece realmente e fortemente sentire sulla nostra cultura come in larghi settori del neomarxismo. Le posizioni gramsciane innescarono polemiche e discussioni a catena nell’ambito della stessa scuola marxista. Chi, infatti, come i più rivoluzionari o estremisti, tendeva a recuperare del marxismo e del leninismo soprattutto l’aspetto legato allo scontro, alla contrapposizione netta fra classi sociali, imputava a Gramsci di essere troppo legato alla tradizione dello storicismo e dell’idealismo italiano, a quella linea che, intersecando Gianbattista Vico, De Sanctis e Croce arriva, appunto, sino a Gramsci. In questa critica, paradossalmente, può rinvenirsi l’interpretazione più vicina al pensiero gramsciano. Il fondatore del Partito comunista italiano era consapevole, infatti, che il marxismo, per avere successo in Italia, per diventare, nel suo linguaggio, egemone, doveva, da un lato, diventare senso comune, come accade a tutte le grandi filosofie e alle religioni e doveva, dall’altro, assorbire i frutti migliori dell’alta cultura europea. Croce, per Gramsci rappresentava dunque il momento più alto di quella cultura: era, per così dire, il nemico che si doveva abbattere e, insieme, utilizzare.
Gramsci sostenne che Croce aveva svolto la funzione dei grandi riformatori, alla Erasmo; che la sua prosa era una prosa di tipo scientifico, paragonabile a quella di Galileo piuttosto che non a quella di Manzoni (come altri avevano sostenuto); che la sua influenza nella cultura italiana era stata fra le più benefiche nello smantellamento e nello svecchiamento della vecchia cultura retorico-umanistica. Ma, proprio per queste ragioni, sarebbe stata auspicabile la creazione di un Anti-Croce collettivo alla quale, probabilmente, si sarebbero dovute dedicare generazioni di intellettuali! Questo rappresentava, come si può comprendere, una sorta di piano strategico appuntato nei Quaderni per sostituire ad una presunta egomonia un’altra di segno rivoluzionario, ma di un rivoluzionarismo moderato che quasi sembrava sconfinare nel riformismo. Ciò spiega, almeno in parte, quel clima di profonda ostilità e di pregiudiziale chiusura nei confronti del pensiero crociano, la cui “eliminazione” dalla cultura italiana diveniva preliminare a che si potesse realizzare il complessivo progetto politico di occupazione del potere e della società.
Rispetto, dunque, alla critiche rivolte da quelli che forse lo stesso Gramsci avrebbe definito marxisti rozzi o ingenui, l’impostazione gramsciana finì con l’avere effetti più duraturi, col diventare più convincente. Anche la stima che egli non mancò mai di professare per Croce diventava nei suoi seguaci un’arma, intelligente e sottile, per meglio combattere le tesi del filosofo. Nell’ estetica, ad esempio, si trattava di superare la distinzione fra autonomia ed eteronomia dell’arte (ossia ricondurre l’arte alla struttura economico-politica della società) senza per questo perdere il senso della specificità della dimensione estetica. Un ritorno, dunque, ad un certo De Sanctis più che un radicale abbandono di Croce, un tentativo di riconciliare funzione sociale e politica dell’arte con la sua naturale propensione estetica. Tentativo, è facile oggi dirlo, sul piano filosofico debole, impossibile, ma che in quegli anni significò un momento di svolta nella stessa cultura di origine marxista. Alla logica dei distinti di Croce, Gramsci auspicava si potesse ritornare ad opporre la logica hegelomarxiana degli opposti; all’intellettuale impegnato, ma autonomo e indipendente, incarnato dallo stesso Croce, egli opponeva l’intellettuale organico, strettamente legato al partito rivoluzionario, funzionale al progetto di instaurare quella dittatura del proletariato di leniniana memoria che, nella terminologia più moderata, di Gramsci, diveniva egemonia.
Posta così la questione, si comincia a comprendere perché nei confronti della filosofia crociana la polemica fu tanto aspra, irriducibile e, per un giovane lettore del Duemila, quasi incomprensibile. L’Anti-Croce non si costituì mai, naturalmente, ma non vi è dubbio che un’enorme schiera di intellettuali, uomini politici, saggisti e giornalisti si dedicarono anima e corpo alla demolizione di quello che era ormai diventato il simbolo di una intera tradizione, l’esponente della cultura borghese che la nuova cultura del proletariato era chiamata a sostituire.
E tanto più insidioso appariva Croce perché le sue critiche al marxismo e al socialismo non furono mai, tranne che in qualche eccesso polemico, critiche distruttive e rozze: anzi, a molti studiosi non italiani esse apparvero addirittura come critiche interne ad una stessa visione del mondo, quasi che Croce fosse, come Bernstein, un riformista, un riformatore: il Croce che giudica il marxismo come un importante canone di interpretazione storica (riprendendo una vecchia espressione di Antonio Labriola), il Croce che riconosce a Marx di avere per sempre insegnato il valore irrinunciabile della forza e dei rapporti economici nell’interpretazione della storia,che rivendica la scoperta dell’Utile come categoria spirituale,derivante dalle giovanili letture di Marx. Ma Croce è anche colui il quale nel 1911 aveva proclamato la morte del socialismo rivoluzionario o marxista, ed è l’autore di quello scritto dal famoso titolo Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia.
Alla luce di quanto è accaduto negli anni successivi, una volta che la vicenda del comunismo internazionale si è disvelata in tutta la sua grandiosa drammaticità, si comprende che si fronteggiarono allora due visioni della vita, due concezioni del mondo, se si vuole, due religioni: la fede nella libertà e nella creatività dell’individuo con un’esigenza e un bisogno di giustizia sociale, di eguaglianza. Da un lato, una concezione che sui tempi lunghi era destinata a dimostrarsi come quella che sola poteva garantire giustizia ed equità nell’ambito della libertà e, dall’altro, una visione del mondo destinata a capovolgere quello spirito di giustizia e di eguaglianza che l’aveva generata in un terribile e tragico totalitarismo.
Ma sarebbe poco crociano rifiutarsi di comprendere quali furono i reali movimenti, i concreti bisogni, le necessità politiche che condussero, negli anni Sessanta, ad una diffusa preminenza del gramscismo e perdersi in inutili polemiche su un passato ormai lontano.
Negli anni successivi, come si è già accennato, la contestazione giovanile e globale del Sessantotto, che dagli Stati Uniti a Parigi, e poi in Italia e in tutto il mondo, si propagò fulmineamente, aprì scenari ancora diversi. Lo stesso gramscismo finì, per certi aspetti, in soffitta assieme alla tradizione liberale e al socialismo riformista. La critica alla tradizione divenne critica radicale e strutturale. Furono gli anni dei Marcuse e degli Adorno, del mito di Che Guevara, della commistione, anch’essa oggi forse incomprensibile, fra estremo libertarismo e leninismo, fra spinte anarchiche ed esaltazione del mito sovietico.
Negli anni successivi anche questa ventata contestatrice è stata assorbita, in qualche caso dimenticata, in qualche altro perfino istituzionalizzata. Dalle ceneri di quel mondo è riemersa la cultura liberale, troppo spesso legata ancora a stereotipi di scuola o al dottrinarismo liberista dell’Ottocento. Qualche altra volta, invece, puramente utilizzata da alcuni settori di un capitalismo radicale, da qualcuno definito selvaggio.
Proprio in questo contesto rinasce un fievole interesse per il pensiero crociano e per il suo liberalismo metodologico. Tutto sommato perché, in questo Gramsci non aveva torto, la funzione che svolse Croce, e che ancora oggi può svolgere, fu ed è quella del grande riformatore, dell’Erasmo, che non si lascia stringere e costringere dagli opposti fanatismi del liberismo dottrinario e del radicalismo contestatario. La libertà come concezione metapolitica della storia trova oggi una nuova fondazione nello scontro, cruento e preoccupante, che si abbatte su milioni di uomini e donne con le nuove guerre di religione e con la crisi di animo e di valori che attraversa e pervade le società liberaldemocratiche o socialdemocratiche, allo stato attuale unico baluardo di civiltà.
Il ritorno del positivismo e la nuova epistemologia
Al ritorno del marxismo si accompagnò, a volte in polemica, ed altre volte seguendo un comune percorso, il ritorno del positivismo, della filosofia della scienza, come si preferì dire negli anni Sessanta, e dell’epistemologia negli anni ancora successivi. Chi ricorderà il confronto serrato di Croce con il positivismo di inizio secolo, non avrà difficoltà a comprendere che la nuova sensibilità culturale non poteva non avere nel filosofo il bersaglio polemico principale.
In Italia il fenomeno non fu, come del resto tutti gli altri oggetto del nostro esame, di origine autoctona ma fu, essenzialmente, d’importazione. Nonostante il tentativo, politico più che scientificamente plausibile, di coniugare il materialismo storico di Marx con il movimento neoscientifista, è difficile, se non impossibile, individuare movimenti originali o citare studiosi che abbiano proposto una loro autonoma prospettiva. Si trattò, essenzialmente, di un’opera di traduzione, di rielaborazione e di divulgazione delle teorie elaborate dagli studiosi del Circolo di Vienna e di molti filosofi, scienziati ed epistemologi appartenenti a quella vasta e variegata area culturale.
Si imputò a Croce, ma anche ad Hegel, allo stesso Marx e all’intera tradizione filosofica dell’Ottocento, di avere sottovalutato, se non svalutato e cancellato, la ragione calcolante, matematizzante, raziocinante; di aver tenuto in scarso conto le ricerche empiriche, le scoperte della scienza che, proprio in quegli anni, si andavano facendo sempre più importanti, talvolta strabilianti. E strabilianti erano i successi che si mietevano nell’ambito della tecnica i quali, proprio come accadde in epoca positivista, creavano il clima favorevole alla ripresa della filosofia della scienza: le grandi scoperte nell’ambito della medicina,lo sbarco dell’uomo sulla luna, il primo trapianto di cuore che tanto scalpore fece, che parve segnare una svolta epocale inaudita, e poi, via via lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e di informazione, dalla televisione al computer.
La partita sembrava dunque del tutto e definitivamente chiusa. Come era possibile, dopo lo sbarco dell’uomo sulla luna, ancora cincischiare di filosofia e metafisica, giocherellare con le idee e le intuizioni, trastullarsi con la storia e la poesia? Non era forse meglio, come già avevano proposto alcuni studiosi negli anni Trenta e Quaranta, cercare di costruire con la logica perfetta e astratta un linguaggio chiaro e preciso, univoco, privo di ogni ambiguità, che potesse finalmente sostituirsi alle inutili filosofie, ai sistemi organici, alle visioni del mondo complessive, alle intuizioni, alle prese di posizione religiose o etiche?
Dal clima filosofico più rarefatto delle ricerche logiche e scientifiche, si giungeva ad un atteggiamento più generale, per il quale ogni attività umana poteva e doveva essere misurata con il metro della logicità o dell’empiria, della matematica o delle scienze empiriche. Le scienze umane si affiancavano alle scienze propriamente dette, e così trovavano definitiva fortuna la sociologia e la psicanalisi, la pedagogia applicata, la criminologia, la psicologia.
Come si vede, più che riferirci ad un singolo autore o a qualche dottrina particolare, ci siamo soffermati su quella che potremmo definire una mentalità diffusa. Ciò non solo perché il nostro scopo è quello di tratteggiare brevemente i termini essenziali di un’epoca storica. Ma perché, in questo caso, fu proprio la mentalità, più che non la saldezza teorica delle singole dottrine, ad avere successo. Insomma, più lo sbarco sulla luna che non le tante logiche e le tante metodologie in auge in quegli anni. Poco importava, ad esempio, se un’analisi perfetta del linguaggio fosse un sogno antico della filosofia, sin dai tempi dei filosofi greci e poi di Leibniz, per non dire d’altro. Sogno mai realizzato perché impossibile proprio sul piano logico. Poco importava se quelle filosofie della scienza si fondassero su una concezione, essa sì, metafisica della natura e della vita. Poco importava, se alcune scienze, come ad esempio la psicanalisi, non avessero un preciso statuto scientifico. Anzi.
E così, con l’andare del tempo, con l’affievolirsi di quella mentalità, con l’affiancarsi al sogno tecnologico il dramma ecologico, col discredito che si accompagnava sempre più strettamente all’enfasi per i successi della tecnologia, quel mondo andava sbiadendosi, perdendo i suoi contorni e la riflessione sullo statuto delle scienze, e della filosofia in rapporto alle scienze ritornava ad essere filosofico, storico, finalmente di nuovo problematico. Ritornava una sociologia storicizzata e storicista, quella della complessità di Morin, la psicologia si allontanava dai suoi miti, a cominciare da Freud, per definirsi o come mera scienza empirica, o come una delle possibili metodologie di analisi. L’antropologia acquisiva nuovi significati abbandonando definitivamente ogni forma di lombrosismo. Ma, ciò che più conta, nella fisica teorica e nelle scienze empiriche, nelle matematiche e nelle logiche, entrava di nuovo in crisi il concetto meccanicistico o riduzionistico della certezza assoluta delle cosiddette leggi scientifiche.
Una rivincita dello storicismo crociano? Nella storia non esistono rivincite. Né è lecito parlare in questi termini. E’ certo però che la moderna idea di scienza è più simile a quella crociana che non a quella degli anticrociani degli anni Sessanta e Settanta (4). Sono oggi di nuovo al centro del dibattito epistemologico scienziati come Mach e Heisenberg, per non citare che due simboli, i quali già all’inizio del secolo avevano compreso che la scienza non poteva fondarsi su verità assolute e, dunque, meno che mai poteva essere da modello alla filosofia, alla storiografia, all’estetica, alla filosofia politica, alle cosiddette scienze umane. E nella seconda metà del secolo un’altra generazione di scienziati e di sociologi, di matematici e di alcuni filosofi della scienza, ritornava sui suoi passi per riconsiderare i principii stessi della scienza, cercando di eliminare gli aspetti puramente logicistici o le arbitrarie affermazioni empiriche, per riaffermare i principii della storicità, dell’individualità, della complessità.
Morin, per citare forse il più recente e simbolicamente più rappresentativo studioso di questa nuova mentalità, concepiva la sociologia come sociologia della complessità che è come dire che la ricerca sociologica non può fondarsi su schemi e leggi astratte che “riducono” la molteplicità e mutilano la realtà riducendola ad un puro schema che sembra esatto nella forma e nella formulazione ma è sostanzialmente vuoto perché privo, appunto, proprio della concretezza di quella realtà che è sempre complessa, sempre nuova, come avrebbe detto Croce, sempre storica.
Perfino la medicina ha rinunciato al suo protocollo classico per tendere alla storicità, alla molteplicità, all’individualità. Non si pensa più che ad una causa debba corrispondere necessariamente un solo effetto. Non si crede più all’unicità della diagnosi e, soprattutto, all’unicità della terapia. Possono esserci, e ci sono, terapie competitive, tutte legittime, da adattare ai casi singoli, da utilizzare per la guarigione in contesti specifici e dati. Non si cura più la malattia, si è detto, ma il malato, ossia si deve tener conto della specifica individualità del paziente che è come dire la sua particolare storia. La ricerca sul DNA sembra aver portato acqua al mulino di questa nuova concezione.
Gli scienziati più attenti e riflessivi non parlano più di “scoperta” scientifica ma di indagine, ricerca, talvolta di “invenzione”. Non ne parlano più perché il termine scoperta rimanda ad una realtà oggettiva che è lì, ferma e immobile, che si tratta, appunto, di scoprire, quasi come se compito dello scienziato fosse solo quello di togliere i veli ad una verità già data: lo scienziato che “scopre”, per fortuna o per una romantica illuminazione, la verità. Che è poi la più classica delle rappresentazioni che si ha, popolarmente, della scienza. Rappresentazione alla fine ridicola e caricaturale, che mescola con sublime contraddizione il rigore della ricerca e il caso, la saldezza metodologica alla più bizzarra inventività.
Allo stato attuale del dibattito epistemologico non è più estraneo, sia pure in settori ancora limitati, il pensiero crociano. E può sembrare sorprendente rileggere, oggi, l’ Avvertenza che nel lontano 1916 Croce antepose alla V edizione della Logica, (della quale abbiamo discorso nella parte teorica del volume) e nella quale il filosofo intuiva il senso delle critiche che gli venivano mosse e che ancor più radicalmente gli sarebbero state mosse. Ricordava che la critica al metodo scientifico era la critica ad un certo metodo scientifico e che la sua Logica, paradossalmente, era una critica della filosofia più che della scienza, se per filosofia, ovviamente, pensiamo alla filosofia antiquata, alla metafisica di vecchio stampo. Questo perché, precisa, il distacco o la distinzione tra filosofia e scienza, si fonda sulla distinzione fra ciò che nella scienza è “verace conoscere” dagli aspetti schematici, astratti, puramente statistici, che essa contiene. E ribadisce, ciò che a noi sembra di estrema importanza e che è poco rilevato dalla critica contemporanea, che la sua logica mirava alla distruzione della filosofia astratta e antistorica, ossia quella filosofia che intendeva fagocitare le scienze, l’arte, la religione, la vita stessa. In poche parole, ciò che Croce intende salvare è l’elemento concreto, storico ed individuale, che caratterizza sempre la conoscenza, si eserciti essa nel campo tipicamente scientifico, ossia in quello della natura, o nel campo della storia, dell’arte, delle attività in generale.
Oggi che le scienze umane nel loro complesso stanno maturando un nuovo statuto teorico, e sono in presenza di una generale, positiva revisione e, per una sorta di pigrizia della storia, sopravvivono nelle loro vecchie formulazioni solo in alcune istituzioni culturali, si fa forse per la prima volta attuale e comprensibile il pensiero di Croce su questo tema e si fa chiaro che il filosofo non fu contro le scienze e gli scienziati, ma contro la cattiva filosofia della scienza.
L’antistoricismo
Se volessimo cercare di individuare un segno comune della reazione al pensiero crociano prima di provarci ad identificarla in positivo, potremmo affermare che si è trattato, e in parte ancora si tratta, di un sentimento essenzialmente antidialettico, meglio ancora, antistoricista. Sentimento, come presto vedremo, che si farà quasi senso comune alla fine degli anni Settanta quando anche il marxismo verrà collocato in soffitta e, con lui, quell’esigenza storicista che rappresentava ed esprimeva.
In verità, l’antistoricismo ha radici profonde e appare in tutta la sua forza già negli anni precedenti la guerra, soprattutto negli anni del totalitarismo. Il 3 settembre del 1930 al Congresso internazionale di filosofia tenutosi in Oxford, non casualmente lo stesso Croce intitolava la sua relazione Antistoricismo. Il filosofo, scegliendo come sede quella prestigiosa di un paese libero, tracciava brevemente le linee essenziali degli antistoricismi, per dir così, comparsi nella storia del pensiero, cercando di trovare le ragioni ed anche le giustificazioni positive di quell’atteggiamento che tante volte tornava a riproporsi. Nel ricercare le motivazioni dell’antistoricismo a lui contemporaneo, individuava in esso due segni specifici, entrambi negativi: lo sfrenato irrazionalismo e l’astratto razionalismo. Ma meglio di noi Croce: “L’antistoricismo cristiano, affermava, apportava la virtù della caritas, l’antistorico illuminismo si ammorbidiva di umanitarismo e di sensiblerie; ma l’odierno antistoricismo è tutto sfrenatezza di egoismo o durezza di comando, e par che celebri un’orgia o un culto satanico.”(5) Ed è evidente qui il richiamo del filosofo all’attivismo fascista, a quel clima di esaltazione della volontà capace di cancellare la storia, le tradizioni, le distinzioni, di assorbire tutto nella cieca forza individuale del capo o di un partito.
Ma, come si è accennato, la cifra dell’antistoricismo non consiste solo nell’atteggiamento irrazionalista. Continua infatti Croce: “Come si è già mostrato, invece di un concetto unitario, si ritrova in esso la divisione in due e opposti concetti, che non stanno fermi ciascuno al posto suo, ma l’uno entra nell’altro ed esce fuori dall’altro, deponendo e ripigliando la sua sembianza: la qual cosa è sempre grave indizio di nullità logica. Che cosa , infatti, è il primo dei due concetti, quello dei formalisti dell’energia, dei zelatori della vita per la vita, del futuro senza passato, del fare senza ideale, se non la posizione nota e condannata in filosofia, nella fenomenologia dell’errore, col nome di irrazionalismo, negazione dei valori spirituali? E che cosa è il secondo, quello onde si predica la costruzione o ricostruzione della vita umana scissa dalla vita stessa che è la storia, l’imposizione dall’alto del ritmo della vita, la regola che, invece di essere creata dall’uomo come suo strumento, debba essa creare l’uomo; che cos’altro se non la posizione, nota altresì e condannata in filosofia, del razionalismo astratto, che non nega direttamente i valori spirituali ma li materializza e li rende inerti facendoli trascendenti?” (6)
L’avvento del nazismo, lo scoppio della seconda guerra mondiale e la incombente presenza dello stalinismo, resero profetiche le parole di Croce: il nazismo condusse agli estremi limiti l’irrazionalismo, che sfociò in quella immensa tragedia che fu la guerra globale, e lo stalinismo aveva ridotto il vivo e concreto marxismo in una terribile dittatura, in una ferrea regola calata dall’alto sulla libertà individuale di milioni e milioni di esseri umani. E già allora si prefigurava nello stesso mondo occidentale quella più mite dittatura delle regole, delle leggi, che purtroppo fa spesso capo nelle astratte costruzioni politologiche di liberali e democratici che sognano di poter costruire società ben ordinate e giuste ricorrendo a concetti fondati su logiche astratte.
La guerra però diede come uno scossone al mondo anche sul piano morale per cui, per un certo periodo, quegli ideali e valori di libertà, che erano stati tanto compressi e stravolti, ritrovarono una loro forza, una loro nuova efficacia. Ciò non toglie che il timbro, la cifra, dell’antistoricismo, ritornava in tutte le sue forme e, soprattutto, in quelle due fondamentali descritte da Croce nel suo intervento di Oxford.
Vogliamo subito avvisare che esse non assunsero, almeno nel mondo occidentale, quelle forme eccessive e paradossali, che avevano indotto Croce a parlare, negli anni Trenta, di infermità, di malattia che si doveva curare solo con il tempo e la pazienza. L’antistoricismo dei nostri tempi è essenzialmente mite, ha poco di quell’orgiastico e demoniaco che spaventò i pochi spiriti liberi dell’Europa degli anni Trenta e Quaranta.
Ha avuto certamente le sue ragioni; si è provato a rispondere a precise e chiare esigenze del nostro tempo ma, nel complesso, non è riuscito ad offrire un decisivo contributo, quantomeno, agli studi filosofici in quel lento, travagliato e faticoso progresso che ne costituisce, appunto, la storia.
Nell’Italia post-bellica, che è il nostro punto di osservazione privilegiato, accanto alla rinascita del marxismo, di cui abbiamo già parlato, e al ripresentarsi di quella mentalità scientifista che Croce, con Hegel, avrebbe definito dell’antistoricismo dell’intelletto astratto, convivevano diverse sensibilità culturali, alcune assimilabili alle prime, altre di segno opposto, altre che si potrebbero definire di pura moda intellettuale. Furono gli anni, ad esempio, dell’esistenzialismo, il movimento filosofico che si faceva risalire a Kierkegaard ma che ebbe in Jaen Paul Sartre l’intellettuale di maggiore spicco e risonanza.
Anche in questo caso, un po’ come in tutti i fenomeni culturali dell’epoca, è difficile individuare un nucleo teorico fondamentale e originale, tanto più in Italia, dove il fenomeno è di chiara importazione. Sono gli anni della rivolta esistenziale, della ribellione delle ragioni della singola, disperata esistenza nei confronti del tutto, dell’Assoluto, dei sistemi filosofici compiuti e ben congegnati, delle visioni del mondo. Accanto alla filosofia, al pensiero sartriano o di esistenzialisti meno noti ma forse più profondi come Jaspers,vi sono soprattutto, i romanzi, la musica, le canzoni,i film sull’incomunicabilità e la quotidiana disperazione di fronte al nonsenso della vita, sono anni in cui il riferimento forse simbolicamente più esemplare è incarnato da una cantante francese, Juliette Greco. E’ il tempo de Lo straniero, de La peste di Camus.
A testimonianza della complessità del fenomeno, pur nella sua evidente semplicità ora che lo si guarda da una prospettiva lontana, la rivolta esistenziale, con sublime incoerenza, si fuse e si confuse con la rivolta studentesca del Sessantotto, cosicché l’esistenzialismo divenne un “umanismo”, mescolandosi al marxismo, fondendo insieme la radicale disperazione per il destino dell’esistenza personale gettata nel mondo al cospetto della certezza della morte e la speranza rivoluzionaria in una palingenesi totale, in una salvezza definitiva. Se nell’esistenzialismo cristiano la condizione tragica dell’uomo, condannato a vivere in una valle di lacrime, trova riscatto nella speranza in una vita ultraterrena, in un Dio che tutto risolve in sé, conferendo così senso alla vita stessa, l’esistenzialismo ateo finiva con l’affidare alla edificazione di una società comunista un compito non dissimile.
Ma il segno, nell’uno e nell’altro caso, è ancora quello dell’antistoricismo, dell’abbandono dell’idea che nella storia, e con la storia, sia possibile trovare un senso alla vita, se non altro l’unico senso possibile della vita.
Passata la ventata sessantottesca, spentesi anche queste speranze, l’esistenzialismo si ricongiunge con la fenomenologia husserliana e poi con l’ heideggeriana filosofia dell’Essere. Ancor più netta ed evidente si fa la matrice antistoricista mentre nel ritorno di Nietzsche, letto ed utilizzato questa volta “a sinistra”, in funzione di critica della società esistente, sempre più tangibile si presenta la dimensione irrazionale, passionale, sentimentale, se si vuole neoromantica, della opposizione alla filosofia nel senso autentico della parola. Ancora, assieme al rifiuto della ragione, della dialettica, della tradizione kantiana ed hegeliana, anche lo storicismo crociano, che pure da quella tradizione per tanti aspetti si discosta, è accantonato, messo da parte.
Ma è necessario cambiare orizzonte per intendere quanto profonda sia stata la frattura venutasi a creare fra gli anni Sessanta e Ottanta e che solo oggi va ricomponendosi, non solo rispetto al pensiero crociano ma, come in qualche modo si è accennato, al pensiero filosofico in generale, alla cultura classica, che non è, e mai dev’essere, confusa con la cultura tradizionalista. Basti pensare all’esperienza del cosiddetto strutturalismo, di cui oggi si è quasi persa la memoria ma che, pure, ebbe un seguito e, per qualche momento, fu quasi egemone nella cultura francese ed italiana e largamente si diffuse in Europa e in America.
Prendendo le mosse dagli studi di tipo antropologico tesi a ricercare una comune struttura nell’ambito delle civiltà umane susseguitesi nella storia e dagli studi di alcuni linguisti tesi anch’essi a ricercare una comune struttura delle lingue e della lingua, si edificò, o meglio si cercò di edificare, un sistema di riferimento generale nel quale, alla storicità, al divenire delle categorie umane, si sostituisse una ricerca di strutture profonde, le quali però non dovevano assumere le caratteristiche delle categorie filosofiche assolute.
Nell’ambito della linguistica, per riferirci ad un caso specifico, si poneva la questione della identificazione di nessi strutturali che tengono insieme una data lingua, per esempio il francese o l’italiano, evitando accuratamente di rinvenirli in strutture di tipo storico, di tipo filosofico o anche empirico. Non si trattava dunque di individuare un principio logico che stesse a fondamento della lingua italiana. Meno ancora si trattava di rinvenire le leggi sintattico-grammaticali, che sarebbe stata una banale riproposizione della retorica classica. Si cercava di comprendere il perché dell’unità inscindibile di una data lingua in sé e per sé. Se, ad esempio, nella lingua italiana scomparisse l’aggettivo rosa, si argomentava giustamente, si sarebbe modificata l’intera lingua perché i significati di quell’aggettivo sarebbero stati assunti, di fatto, dagli altri aggettivi nella loro totalità. Insomma, la parola rosso avrebbe coperto, probabilmente, più significati di quanto non esprimesse in presenza dell’aggettivo rosa.
L’esigenza di queste analisi era innegabile. Ma sembrò anche subito evidente l’impossibilità di giungere a conclusioni plausibili. In effetti, si finiva in un continuo, pleonastico, rimando, a spiegare il fatto con il fatto stesso, a descrivere semplicemente ciò che già si conosceva e si presumeva.
Lo strutturalismo, come si è detto, assunse quindi varie forme. Nello studio delle civiltà antiche, si individuarono nessi che sembravano universali, come dei comportamenti che anche le più primitive civiltà avrebbero avuto in comune con le nostre più progredite, rispetto, ad esempio, a dei tabù, come si disse, a delle proibizioni come l’incesto, che col tempo sarebbero state, per così dire, “coperte”, nascoste, dalla cultura, dalle religioni, dal diritto, dalla politica, e così via. Studi che poterono avere un qualche interesse sul piano empirico, attraverso le indagini che si svolsero, a volte accurate, a volte fantasiose e immaginarie, sul comportamento di società a noi poco note. Come negli studi sulle fiabe, per cui si riscoprivano elementi comuni in civiltà, società e comunità lontanissime fra loro nel tempo e nello spazio. La favola di Cappuccetto Rosso, i cui elementi di fondo si rinvenivano un po’ ovunque, anche laddove il cattivo lupo non esisteva ed era sostituito, analogicamente, con altri animali feroci, come la tigre in India. Studi interessanti, per molti aspetti, che certamente incuriosivano ed incuriosiscono ma che, in fin dei conti, poco ci dicevano, se non il ribadire ciò che tutti sanno per comune esperienza, e cioè che esistono comportamenti simili nei rapporti fra uomini e donne in tutti i tempi.
Ma il senso profondo di queste ricerche e, vorremmo dire, di questo atteggiamento, era quello, come ormai si può comprendere facilmente, di sottrarre l’umanità alla temporalità o, meglio ancora, al divenire storico. Non casualmente alcuni strutturalisti affermarono che era giunto il momento di riporre in soffitta l’umanesimo. Con ciò si voleva affermare che il motore della storia non era più né la storia stessa né l’uomo come protagonista creativo e, aggiungeremmo noi, libero, della vita che è sempre un divenire, ma quella sorta di eterna struttura, costante e immutabile, che regolerebbe tutti i nostri rapporti, perfino quelli che appaiono più nuovi ed originali.
Qualche critico parlò di una sorta di platonismo inconsapevole sotteso alle teorie degli strutturalisti, perché, infatti, questi nessi strutturali che regolerebbero le nostre vite, come nell’esempio riportato del divieto dell’incesto, sarebbero una sorta di idee platoniche che operano non si sa bene se al di sopra o al di sotto della storia, delle quali non si conosce l’origine, delle quali, infine, non si potrebbe dir altro che esistono. E se avvenimenti concreti o empiriche constatazioni dimostrassero che quelle strutture non sono tali, che non sono costanti, che non sono universali, che non è vero che regolano tutti i rapporti umani, lo strutturalista respingerebbe queste obiezioni con un ragionamento di tipo giustificazionistico-metafisico affermando che, in fondo, quelle eccezioni potrebbero essere, e prima o poi saranno, ricondotte ad unità. Prima o poi inserite da qualche studioso nell’ambito delle strutture portanti dell’umanità.
Come che sia, il movimento strutturalista andò spegnendosi con gli anni, ed anche nell’ambito della linguistica e delle relative escursioni estetiche, andò riducendosi in settori sempre più ristretti e specialistici. Ciò che a noi premeva segnalare era il fatto che, anche su questo versante, ciò che veniva messo in discussione, implicitamente o esplicitamente, era lo storicismo e, dunque, per forza di cose, anche il pensiero crociano.
E’ interessante notare come, negli anni Sessanta, ci furono tentativi, come già si è segnalato per l’esistenzialismo, di coniugare l’antistorico strutturalismo allo storicismo marxista. Si tentò, in qualche modo, di porre analogie fra la struttura economica che, secondo Marx o un certo Marx, condizionerebbe e influenzerebbe l’intero cammino storico, con l’idea di fondo dello strutturalismo. Ma anche in questo caso, si trattò di un sincretismo più che di una reale unificazione. Fece premio l’esigenza politica, quella di non opporsi al comunismo e al marxismo che sembravano vincenti, che sembravano dettare i tempi e i contenuti della storia. Ma il marxismo non era uno strutturalismo, pregno come fu di volontarismo, di soggettivismo, di politicismo. E presto, dunque, anche quel connubio andò dissolvendosi, prima ancora che entrasse in crisi lo stesso neomarxismo. Ma intanto molti giochi erano fatti e, soprattutto sul terreno della critica letteraria, che aveva cercato di assorbire gli umori di quella mentalità, i danni arrecati furono notevoli. La critica strutturalista non solo perdeva il senso e la dimensione della storia, ma non poteva non risolversi, per quello che si è detto, che in una critica meramente descrittiva, avalutativa come si diceva, perché è evidente che, nel ricercare i nessi che regolerebbero un testo di poesia o di prosa, o qualunque altro prodotto estetico, non è possibile rintracciare i valori estetici, creativi, originali, tipici di un’opera.
Con coraggio e onestà intellettuale, uno degli studiosi più noti e importanti dello strutturalismo, Giulio C. Lepschy, in un saggio del 1971 pubblicato poi nel volume Mutamenti di prospettive nella linguistica, proprio in riferimento alla sua giovanile esperienza crociana, stila quello che potremmo definire il certificato di morte dello strutturalismo linguistico. Ciò giustifica la lunga citazione che faremo. “La mia formazione come linguista, scrive, è avvenuta in Italia e ho, naturalmente, familiarità con una tradizione che risale alla filosofia del linguaggio di Benedetto Croce. Dai miei insegnanti ho appreso che la lingua è l’oggetto proprio di studio non delle scienze naturali, né delle indagini logico-matematiche, ma della ricerca storica. Il pensiero crociano sembra essere sconosciuto a Hockett e a Chomsky, per quanto posso giudicare dalle opere da loro pubblicate. Se la connessione non esiste, presumo che sia la mia esperienza soggettiva che mi fa vedere nella discussione cui ho accennato certi mutamenti di prospettiva in rapporto alla teoria di Croce. Chomsky mette in rilievo il linguaggio creativo, e discute il rapporto tra la creatività del linguaggio e la creatività dell’arte; e le vede entrambe in rapporto a nozioni come libertà e mente (cioè spirito nella tradizione idealistica italiana).Questo potrebbe venire direttamente da Croce. Ma Chomsky si occupa della caratterizzazione logico-matematica della competenza, che Croce probabilmente non avrebbe capito, e presumibilmente avrebbe rifiutato. Hockett afferma che ‘la lingua è esattamente alla pari con qualsiasi altro fenomeno naturale’ e che dovrebbe essere studiata coi metodi delle scienze naturali, e non della logica e della matematica. Anche questo sarebbe stato rifiutato da Croce. Ma l’affermazione di Hockett ‘che vi è solo un oggetto di studio: gli specifici atti linguistici, come eventi storici’ potrebbe pure venire direttamente da Croce. L’interesse di Croce era diretto verso la lingua come atto creativo dello spirito, evento storico individuale. Non credo che le teorie di Croce si siano dimostrate fruttuose perla ricerca linguistica (l’uso che ne hanno fatto certi linguisti è stato anzi disastroso). Ma esse hanno contribuito a mettere in luce un problema, che è ancora aperto oggi (dopo le illusioni saussuriane di una linguistica autonoma dotata di un metodo scientifico sui generis). Come va studiato il linguaggio: come fenomeno storico, coi metodi della logica e della matematica, o coi metodi delle scienze naturali?” (7)
Oggi, a distanza di trent’anni, possiamo dire che anche quell’ultimo interrogativo posto dallo studioso italo-inglese, strutturalista pentito, sia sciolto del tutto.
In parallelo alla diffusione del cosiddetto strutturalismo in ambiti antropologici e linguistici, anche la storiografia si allontanava dai principii fondamentali dello storicismo e da quello di Croce in particolare, accantonando il concetto di storiografia etico-politica e l’altro, di non minore importanza, secondo il quale ogni storia, se è vera storia, è sempre storia contemporanea, come aveva affermato il filosofo già in Teoria e storia della storiografia.
Nei primi anni del dopoguerra, fra il 1950 e il 1970, vi era stata una ripresa netta della storiografia di tipo marxista ed economicista che andava di pari passo, come si è già detto, con la più generale ripresa del marxismo e, sul piano politico, del comunismo. Ma quella storiografia, anche se, per tanti aspetti, era diversa da quella di Croce, pur differenziandosi su molte interpretazioni particolari dalla storiografia liberale e da quella crociana in particolare, conservava elementi comuni, vorremmo dire, un atteggiamento di fondo simile. Erano, per così dire, due storiografie sorelle, giacché la comune matrice era lo storicismo, ossia l’idea che il senso dei fatti storici si dovesse cogliere nel loro sviluppo, se non nel loro progresso. Inoltre se Croce pensava che il passato venisse spiegato alla luce del presente, ossia dei reali e concreti interessi e bisogni del presente, la storiografia marxista, pur ponendo l’accento soprattutto sul peso che il passato esercita sulla storia contemporanea, a sua volta, per motivi ideologici più che non filosofici, leggeva l’intera storia, remota e vicina, alla luce di quel particolare interesse presente che era, appunto, il marxismo, il comunismo. Ancora, anche se la storiografia marxista poneva l’accento sugli aspetti economici alla luce dell’idea marxiana che è la struttura economica che, in ultima istanza, determina le sovrastrutture giuridiche, politiche e culturali, non per questo abbandonava l’idea, tipicamente crociana, che il punto di coagulo di tutte le storie, di tutte le storie cosiddette speciali, da quelle economiche a quelle militari, da quelle letterarie a quelle filosofiche, è rappresentato dalla storia etico-politica, ossia da ciò che si produce concretamente sul terreno del governo politico dei popoli e delle nazioni.
La nuova storia, che veniva in auge nella fase che abbiamo identificata come essenzialmente antistoricista, si poneva invece su un terreno del tutto diverso. Riferendosi all’esperienza della rivista francese “Les Annales”, degli anni precendenti la guerra, i nuovi storici rifiutavano l’idea stessa, staremmo per dire, della storicità, del divenire, cercando di rinvenire nell’ambito del processo storico quegli elementi strutturali che rimarrebbero sostanzialmente inalterati, quali che siano gli eventi particolari che si prendono in esame. E qui è palese la comunanza di interessi, la prospettiva condivisa, anche se talvolta inavvertitamente, con lo strutturalismo.
Non più, dunque, storie di dinastie e guerre, di rivoluzioni e congressi, di paci ed armistizi, e nemmeno storie di grandi personaggi, di lotte sociali e civili, di partiti e movimenti. E nemmeno storie filosofiche o largamente tributarie ai movimenti culturali, letterari, artistici, ideologici. E nemmeno storie economiche, fondate sulle analisi dello sviluppo dei sistemi di produzione e dei rapporti fra classi e gruppi.
Quale storia, dunque? La storia di lunga durata. Quella capace di interpretare il significato di una struttura profonda che soggiace ai particolari avvenimenti e determina, sul lunghissimo tempo, certamente novità e originalità, ma sempre alla luce di quella sottostante struttura. Il principio, in sé e per sé, come principio puramente ermeneutico e, vorremmo dire, empirico, ebbe ed ha un suo valore. Ma, come nel caso della nuova filologia linguistica, doveva rimanere nell’ambito della propedeutica alla vera storiografia, che rimane sempre la storiografia etico-politica, così come, in ambito critico-letterario, il giudizio finale è sempre il giudizio estetico.
Si cominciò, da un lato, a mettere in luce l’importanza di scoperte, come quella dell’aratro, nello sviluppo civile dell’Europa e, dall’alto, in studi successivi, a sottolineare l’importanza dei mutamenti complessivi di mentalità in una data società, mutamenti in grado di condizionare lo sviluppo dell’intera storia. Alcuni grandi storici produssero opere di una certa importanza ma spesso questa storiografia si tradusse in opere di pura curiosità, quasi che, alla vecchia storia aneddotica, se ne sostituisse una più moderna, ma uguale nella sostanza,quella della storia del mutamento dei costumi e delle tecniche.
Non è un caso che tale storiografia ebbe fortuna fondamentalmente nell’ambito della storiografia medievale, essendo quel periodo, per andamento e per documentazione, più agevolmente inquadrabile in una prospettiva di lunga durata e più adatto a sopportare ipotesi che, sia pure espresse in linguaggio tecnico, spesso e volentieri si rivelavano invece fantasiose ed immaginarie. Un po’ come quelle fantasiose, belle sul piano estetico più che significative sul piano storico, ricostruzioni che oggi si vanno facendo in tanti documentari televisivi, sull’origine dell’universo, sulla nascita della vita sulla terra, sui grandi animali della preistoria, e così via.
Come è naturale, quell’atteggiamento storiografico trovò un limite invalicabile nell’analisi degli anni che vanno dalla rivoluzione francese alla nostra contemporaneità. Anni ricchi di fatti, di rivoluzioni, di svolte, di avvenimenti, di personaggi sempre più facilmente ed abbondantemente documentabili. Secoli rapidi, ai quali poco si addiceva l’abito, paradossalmente stretto e soffocante, della lunga durata. Anni in cui la struttura fondamentale è sembrata essere la non-struttura, gli anni della destrutturazione, gli anni della decostruzione.
Ci avviciniamo così ad affrontare l’analisi dell’unico momento del dibattito filosofico del secondo Novecento che, sia pure quasi sempre implicitamente, a nostro avviso presenta notevoli punti di contatto, assieme alla nuova epistemologia della complessità, col pensiero crociano: ciò che va sotto il nome generico di ermeneutica e che attraversa, come già si è visto, perfino la nuova filosofia della scienza e la nuova sociologia ma, soprattutto, la filosofia teoretica in sé e per sé, con rilevanti ricadute sul pensiero etico-politico. L’idea che, col nome ancor più generico di post-moderno, tende a presentare la filosofia essenzialmente come filosofia del giudizio, capace d’interrogare i fatti e gli avvenimenti ma impossibilitata a rispondere ai grandi problemi della filosofia classica, a quelli che, per comodità, si attribuisce la qualifica di metafisici o, con linguaggio moderno, di sistemi forti, ideologie. Ciò non toglie che il timbro, la cifra degli anni che abbiamo cercato di descrivere, siano stati essenzialmente di tipo antistoricista, come una larga documentazione potrebbe testimoniare.
L’ ermeneutica e il post-moderno
Nell’ultima parte del Novecento, la crisi, chiara ed inappellabile, teorica e reale, delle grandi ideologie totalitarie, dal nazismo al fascismo, dal comunismo sovietico a quello penetrato nel mondo occidentale, la messa in discussione radicale dei principii immutabili delle scienze, hanno generato la conseguente crisi del pensiero filosofico in generale o, meglio, del cosiddetto pensiero forte, ossia di quei sistemi filosofici tendenti a dare una spiegazione complessiva, eterna, assoluta, onnicomprensiva della vita e della storia in tutti i suoi aspetti. Se il momento polemico fondamentale si costituì attorno alla dura critica nei confronti del marxismo-leninismo e, sul terreno politico, dello stalinismo, il più largo fenomeno di disincanto del pensiero ha attraversato l’intera nostra società minandone, per certi aspetti, le certezze e le sicurezze, dalla fede religiosa a quella politica.
Ma il cosiddetto post-moderno, l’idea che ogni pensiero filosofico o scientifico sia sempre, in sostanza un’interpretazione, dunque un’interpretazione soggettiva della realtà, giacché non c’è altra interpretazione che non sia quella soggettiva, non è stato, e non è soltanto, un fenomeno negativo. Esso, certamente, ha portato, secondo la denuncia del mondo culturale cattolico, alla secolarizzazione ovvero, come si pronuncia il nome nel mondo culturale laico, alla assoluta laicizzazione del pensiero, dunque ha condotto l’uomo contemporaneo alla relativizzazione dei valori e, vorremmo dire, ad uno scetticismo diffuso che rischia di degenerare in collettivo cinismo. Ma ha anche ricondotto la filosofia fuori dalle tenebre degli assolutismi totalitari, delle petizioni di principio, delle chiusure integraliste, dei ciechi fanatismi di ogni sorta. Ha ricondotto, kantianamente, il pensiero alla coscienza, e con ciò alla responsabilità, ricollegandolo ad un’etica vera e profonda, che è l’etica individuale della coscienza morale, a quella religiosità (alla quale anche Croce fa cenno) che è religiosità intima, che non si appella ad autorità esterne, di qualsiasi natura esse siano, ma che trova nella civiltà umana stessa, nella sua storia e nella forza individuale l’unico e sacro fondamento.
Nel pensiero di Croce non è difficile scorgere elementi comuni alla cosiddetta ermeneutica, alle filosofie del giudizio quali sono, ad esempio, almeno quelle abbozzate da Hanna Arendt e da Gadamer e da tanti altri studiosi e filosofi il cui pensiero è ancora in fieri.
Anche in questo caso vale la pena di ricorrere ad una lunga citazione crociana del 1938, la quale dà il senso della posizione del filosofo e, fin dal titolo, chiaramente individua il tema: La filosofia come idea antiquata o l’idea antiquata della filosofia. Scrive Croce: “Una delle lamentabili conseguenze della filosofia concepita come fuori e sopra della storia, e intesa ai cosiddetti supremi problemi, è l’ufficio che i suoi cultori si arrogano, di direttori e riformatori della società e dello Stato”. E’ evidente, qui, la critica a quelle filosofie totalizzanti tipiche dell’Ottocento, che furono assunte, nel Novecento, come bandiere ideali da gruppi, partiti e Stati che finirono col manifestare una natura totalitaria e violenta anche quando, in alcuni casi, erano in buona fede e agivano nell’illusione di poter costruire un mondo migliore, un mondo perfetto. Continua Croce, delineando i tratti della nuova filosofia, quella che oggi, forse, qualche studioso italiano potrebbe edefinire “pensiero debole”, nel senso positivo di un pensiero che non pretende di esaurire tutta e per sempre la verità, un pensiero che può e deve aprirsi all’altro, alla differenza, al diversamente opinante, se si vuole allo straniero: “ La filosofia storica o la storia filosofica, è modesta, perché in perpetuo riporta l’uomo di fronte alla realtà e, fattagli compiere la catarsi della verità, lascia che liberamente cerchi e trovi il suo dovere e crei la sua azione. Ma l’altra è resa audace forse dal vago ricordo della sua derivazione dalla teologia e dalla Chiesa, o fors’anche, senza essere, sembra audace, portata com’è a strafare dalla stessa vacuità in cui si aggira e della quale si sforza in qualche modo di trarsi fuori.” Croce quindi, immediatamente, passa a descrivere il momento di trapasso, talvolta possibile, da quella filosofia “antiquata” alla prassi politica, cogliendone il pericolo insito, come poi sarà rivelato da tanta storiografia posteriore alla fine del Novecento. Scrive: “L’azione pratica che essa inculca potrà esser nobile, almeno nell’intenzione, o ignobile; vorrà, come presso Augusto Comte, réorganiser la société, o, come presso Carlo Marx, rivoluzionarla e razionalizzarla, o, come presso altri di quei filosofi, adoprarsi coi suoi mezzi a tener docili i popoli nel servaggio; ma l’incongruenza è sempre la medesima. E se anche ingegni poderosi, a cui si debbono nuovi concetti filosofici, usurparono talvolta un ufficio che ad essi non spettava e dalla loro astratta filosofia dedussero arbitrari programmi, questa è la parte viziata e morta della loro opera.” Ci sembra evidente, qui il richiamo ad Hegel, a quel pensiero dialettico che Croce accolse sul piano metodologico ma che rifiutò quando si capovolse in un astratto sistema onnicomprensivo che rischiava di spegnere quella forza liberatrice tipica del pensiero dialettico, conflittuale, in una quieta e totalizzante visione della vita. Poi Croce, in conclusione, viene specificando il senso della nuova filosofia, che egli identifica con la storiografia filosofica o, come diremmo oggi per qualificarla in maniera coerente alle esigenze del nostro tempo, come filosofia del giudizio, o della complessità o semplicemente metodologica. “Con l’accaduto o augurato dissolvimento della filosofia nella storiografia si può dire, se così piace, che la filosofia è morta. Ma poiché ciò che in questa guisa par che muoia, non era stato mai veramente vivo, si deve con maggiore esattezza dire che muore l’idea antiquata della filosofia, cedendo il posto alla nuova, sorgente dal profondo pensiero del mondo moderno. Muore, ben s’intende, idealmente, giacché materialmente trascinerà ancora la sua vita come tante altre cose che idealmente sono sorpassate; e servirà ancora per mantenere al mondo, abbassata (…) a un mestiere tra i mestieri, l’opera del filosofo, che, nel suo essere genuino, è tanto poco un mestiere quanto l’opera del poeta.” (8)
Nel resto d’Europa, questo processo, che potremmo definire di affinamento della filosofia, e la definitiva riduzione di essa a metodologia dell’interpretazione o a interpretazione tout court, ha seguito e segue percorsi diversi da quelli crociani. Esso affonda le radici talvolta nella fenomenologia husserliana, posto che al pensiero del filosofo tedesco venga eliminato il residuo metafisico, di origine kantiana se non cartesiana, tendente a cogliere una impossibile, immutabile verità delle cose stesse. Affonda le sue radici in una interpretazione del pensiero di Heidegger tesa a trasformare la filosofia dell’essere in filosofia dell’evento o Ereignis nella quale l’essere si scioglie nella temporalità e dà luogo ad un congiungimento con il pensiero in forme che qualche interprete di Croce ha ricondotto al crociano giudizio storico. Legge la contemporaneità alla luce delle riflessioni della più recente filosofia e sociologia francese, dal cosiddetto pensiero della differenza alla proclamazione della nuova era del post-moderno, sfociando nel decostruttivismo che, per qualche anno, ha avuto successo anche nella riluttante filosofia americana.
Ma negli stessi Stati Uniti d’America i prosecutori del pensiero prammatista di Dewey hanno individuato nel maestro percorsi tali da condurre quella filosofia, per metà empirista e per metà pragmatista, verso una concezione della verità come successo del fare, ossia come una verità che è tale non perché si rivela oggettiva e fondata sulla pura esperienza o sul puro ragionamento, ma perché si mostra operativamente plausibile in una data situazione, in una data condizione.
E’ strano che si sia poco notata l’affinità col pensiero storicista di Croce. Croce proclama che la verità si dà soltanto nel giudizio, ossia nel momento in cui il predicato universale si coniuga con l’evento particolare, in un rapporto si sintesi a priori di tipo kantiano che è dato però dallo svolgimento stesso degli eventi ed è perciò storico e non meccanicamente determinato. E’ un giudizio, dunque, di verità, che si offre fenomenologicamente, che si rappresenta nell’evento, che si circoscrive nella differenza, che si colloca nella situazione. E’ probabile che la incomprensione di questi aspetti del pensiero crociano sia dovuta al pregiudizio che i filosofi della contemporaneità hanno nutrito ed ancora nutrono nei confronti del termine storicismo. Pregiudizio comprensibile, dovuto al fatto che per troppi anni lo storicismo si è identificato con il pensiero di Marx e, semmai, con quello hegeliano. Croce, annoverato da troppi studiosi superficiali fra i seguaci e interpreti di Hegel, con giovanili simpatie per il marxismo, è stato poi pigramente assimilato fra gli epigoni, sia pure brillanti e originali, di quella tradizione, colpevole di avere costruito sistemi filosofici di natura metafisica e, sul terreno politico, totalitari. Da parte il fatto che, per quanto riguarda Hegel e lo stesso Marx, è possibile giungere ad interpretazioni più complesse e benevole della loro filosofia, è vero che, come in un certo periodo in Italia si era ben compreso prima che affiorasse la stagione dell’anticrocianesimo pregiudiziale, il pensiero di Croce è completamente diverso se non opposto, da questo punto di vista, sia al marxismo che all’hegelismo. Si può dire, anzi, che la filosofia originale di Croce nasce proprio dal distacco che si compie dalle filosofie della storia hegeliana e marxista. Si potrebbero citare innumerevoli scritti del filosofo, fra cui il celeberrimo Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia dello Hegel, ma può essere utile ricordare il saggio Il nuovo storicismo e quello hegeliano, che egli scrive nel 1942, nella quale richiama le origini kantiane del suo pensiero.“Il nuovo storicismo, pur accogliendo, estendendo, approfondendo e mettendo in opera il principio vichiano della conoscibilità di quello solo che si fa e perciò dell’uomo che conosce soltanto quello che è la sua storia perché egli l’ha fatta, e il principio hegeliano dello svolgimento dialettico per conservazione e superamento, tiene salda non meno, e approfondisce, estende e fa fruttificare la teoria kantiana del giudicare, integrandola con le due precedenti. E pertanto il nuovo storicismo rifiuta, anzitutto, la cosiddetta Filosofia della storia, che considera, semmai, come una sua prima e mitologica o ‘simbolica’ forma, e contro di questa nega, insieme con ogni altro a priori in filosofia, la conoscenza a priori della storia in qualsiasi sua parte, e non ammette proposizione storica che non sia l’intelligenza del ‘documento’, ossia della vita vissuta, che è il documento che sta a capo, o meglio in fondo, di ogni altro documento.”
Il nuovo storicismo, dunque, è così diverso non solo dalla filosofia tradizionale, alla quale pure è tanto tributario, ma dagli storicismi più noti e divulgati fra l’Ottocento e il Novecento. Lo storicismo di Croce è uno storicismo assoluto, come egli stesso lo definisce un’unica volta, assoluto in quanto non esiste alcuna possibilità, secondo il filosofo, di uscire dalla storicità, sia in campo teoretico che, com’è naturale, in campo pratico. Ma, poiché la storia intesa come sequela di fatti e avvenimenti è un’astrazione, una ipostasi metafisica se la si pensa nella sua pura oggettività, essere sempre nella storia significa per Croce essere sempre e soltanto interpreti e costruttori di storia. Pensare la storia come qualcosa che sia completamente al di fuori di noi, che si svolga al di sopra o indipendentemente da noi, è pensare un assurdo; ritenere la storia la realizzazione di un fine o di uno scopo a noi oscuro e poi, di tanto in tanto, rivelato attraverso una qualche forma superiore di conoscenza, filosofica, intuitiva o scientifica,significherebbe riaprire un formidabile dualismo, quasi tornare indietro alla mitologia platonica dei due mondi, del mondo Iperuranio e del mondo terreno. La storia ha un senso, per Croce, in quanto vi si conferisce senso, ossia, filosoficamente, la si giudica, naturalmente sul terreno del pensiero e non su quello, tribunalizio, della moralità astratta.
E’ evidente, a questo punto, che potremmo spingerci a dire che per Croce la storiografia è un’ermeneutica e, siccome al di fuori della storiografia non vi è altra forma di conoscenza, la conoscenza è un’ermeneutica.
Pochi, si diceva, hanno saputo cogliere la totale diversità dello storicismo crociano, basti pensare che K. R. Popper, sorprendentemente, nella Prefazione al lettore italiano del suo volume Miseria dello storicismo, confessa di fatto di non conoscere bene il pensiero di Croce ma che, per quel che ne sa, di ritenere che esso sia completamente diverso dagli storicismi contro i quali scaglia i suoi acuminati dardi. Ed invita espressamente gli studiosi a prendere in considerazione ed approfondire il liberalismo e lo storicismo crociani per cogliere le affinità con il suo stesso pensiero. Ancor meno è stato indagato e studiato il rapporto fra Croce e l’ermeneutica se si fa eccezione, naturalmente, di Gadamer, che ben conosceva ed apprezzava il pensiero crociano. (9) Sono tanti, dunque, gli aspetti ancora vivi della grande filosofia crociana e dell’intera opera del filosofo italiano. Ma a noi sembra che questo aspetto sia fra quelli più attuali e più bisognosi di nuovi studi, di nuove ricerche, di approfondimenti. L’opera di Croce è stata fondamentale nei primi anni del Novecento, improntando un’epoca. Ma il suo tempo non è finito allora. Storicizzare il suo pensiero non significa chiuderlo o incarcerarlo nell’epoca in cui visse. Significa cercare di cogliere quegli aspetti e quei motivi che lo rendono operante anche nel nostro tempo nei modi e nelle maniere che ciascun interprete rigoroso e intellettualmente onesto vorrà seguire.
Le nuove logiche della complessità
Se volessimo individuare genericamente un verso nella direzione del quale si è orientata, secondo linee necessariamente generali, la riflessione epistemologica e scientifica del Novecento, potremmo dire che essa è andata progressivamente abbandonando le posizioni riduzioniste e verificazioniste che ne avevano, per così dire, caratterizzato la fase galileiana e newtoniana, degenerata nello scientifismo positivista e neopositivista, per approdare verso orizzonti via via più problematici, complessi, nei quali il termine scoperta andava connotandosi di significati nuovi, che implicavano logiche nuove, il cui valore deve ricercarsi nella loro reciproca complementarietà piuttosto che non nella loro pretesa assolutezza.
In altre parole, l’evoluzione del pensiero scientifico ha finito, per molti aspetti, per dar ragione a quanti, scienziati e filosofi, fra la fine dell’Ottocento e gli albori del secolo scorso, avevano di fatto negato la possibilità di una conoscenza oggettiva, prodotto di una adeguazione fra un oggetto, inerte al di sotto delle apparentemente mutevoli e sfuggenti caratteristiche, e l’intelletto di chi, ponendosi di fronte ad esso, ne scrutava imparziale le proprietà sostanziali, ricavandone le leggi eterne che lo governavano. Con ciò negando, da un lato che l’oggetto in questione, dotato di molteplici e cangianti qualità, potesse essere ridotto ad un qualcosa di semplice e immutabile e negando, dall’altro, che potesse esservi un soggetto in grado di operare scientificamente, ossia in maniera assolutamente imparziale ed obiettiva.
Per fare solo qualche esempio, la teoria dell’universo in espansione consegnava alla ricerca una realtà problematica perché dotata di una sua storicità intrinseca e non eliminabile come componente secondaria ai fini della conoscenza, una realtà che non offriva più una essenza fissa e dunque conoscibile in maniera definitiva, mentre il principio di indeterminazione di Heisenberg, distruggendo per sempre l’idea di uno spettatore che non fosse anch’egli parte integrante del panorama osservato, ridimensionava la presunta oggettività delle scienze.
Il nucleo teorico forte di questa nuova impostazione ruota dunque attorno al tema che nelle scienze come nella filosofia,nelle scienze umane come nella storiografia,la ricerca della verità non può tendere al raggiungimento di una verità assoluta ma solo ad una verità relativa. Ma dire verità relativa può sembrare un contraddizione in termini,una rinuncia alla razionalità in favore di un non meglio precisato relativismo gnoseologico che sul terreno morale diventa un pericoloso agnosticismo etico. E’ qui che si introduce un concetto fondamentale per l’epistemologia:il concetto di temporalità intesa come storicità.La verità da assoluta diventa storica anche nell’ambito delle scienze e,dunque,a maggior ragione in tutte le altre dimensioni del sapere. Verità storica,pertanto,e non relativa,una verità che acquista senso nella storia e che modifica la storia (la prassi) creando le condizioni per affermarsi di nuove verità. Questa nuova posizione rintracciabile in tanti autori della fine del Novecento,da Prigogine a Morin,rende possibile la nascita di nuove logiche accanto alla vecchia logica lineare di tipo aristotelico e, in fondo, accoglie la logica dialettica interpretata in senso metodologico e non sistematico.
Si innesta qui la possibilità di assimilare lo storicismo crociano, e la sua logica dei distinti e del giudizio, come fondamento teoretico privilegiato per accogliere queste nuove istanze. Se lo scienziato Prigogine si rifà espressamente a Vico e ad Hegel, il nuovo filosofo e il nuovo epistemologo possono, a maggior ragione, ricorrere al pensiero crociano.
Il nuovo secolo, come il primo Novecento, sembra dunque aprirsi nel segno di una ritrovata e rinnovata fiducia nella filosofia intesa come autentica e vera metodologia. In condizioni diverse, naturalmente, in un clima meno appassionato, tendenzialmente offuscato dall’indifferentismo, morale e politico e, dunque, anche filosofico. Ma, come abbiamo imparato, la storia e la vita sono complesse, ed il pensiero e l’azione devono assieme dominare e vivere la complessità, aperti ad ogni evenienza ma sempre sicuri che l’unico modo per non sbagliare è quello di compiere il proprio dovere secondo la propria responsabilità, piccola o grande che sia. Il dovere della vita quotidiana tra piccoli e grandi errori, piccole e grandi verità, ed il dovere del pensiero che è sempre rigoroso pur non essendo mai arrogante e prevaricatore.
Su questo terreno si è innestato il nuovo dibattito su Croce, ancora tutto in fieri ma certamente fecondo ed originale nei suoi tratti fondamentali e per i tanti orizzonti che apre in tutte le discipline. Se abbiamo potuto dire che con la filosofia ermeneutica o del giudizio si apriva un nuovo varco per il pensiero storicista di Croce, soprattutto dell’ultimo Croce, quello della Storia come pensiero e come azione, con la contaminazione tra il pensiero della complessità e la logica storico-dialettica di Croce si prospetta una vera e propria riconsiderazione dei termini del dibattito filosofico in atto.
E’ un’opera che si va facendo, che si costruisce fra studiosi provenienti da diverse discipline specifiche (ma che proprio in nome della complessità hanno messo in discussione lo specialismo) e da aree, per così dire, geografiche distanti (ma che devono ritrovare momenti di contatto in un mondo sempre più globalizzato sul terreno economico e sociale) i cui esiti, naturalmente, è difficile prevedere. Ma certo è, sembra di poter dire in conclusione, che la filosofia metodologica di Croce consente una base comune di discussione fondata sulla ricerca filosofica, senza la quale è difficile che si trovino, pur nell’ auspicabile differenziazione, dei fondamenti. Il che, sul piano etico-politico significa trovare il punto d’incontro fra società plurale e principii morali. Principii morali che, naturalmente, devono trovare un fondamento nella libertà intesa come motrice della storia e idea regolativa dell’azione, come utopia operante in incessante contrasto con gli ostacoli che la storia sempre opporrà.
Nell’orizzonte dello storicismo e della complessità si gioca oggi il destino della civiltà e del progresso.