D’Amato e Cofferati: un aspro confronto che cela numerosi punti d’accordo.
Ciò che stupisce dell’ odierno dibattito politico è la distanza fra l’andamento generale del percorso ideologico e i toni reali del confronto quotidiano. Ciò è apparso evidente nel duro confronto che ha visti opposti il neopresidente della confindustria e il segretario del maggiore sindacato italiano.
Se, infatti, ci provassimo a interrogare i due contendenti sul terreno generale della filosofia politica, delle ideologie, della dottrina politica ed economica, avremmo la non sorprendente sorpresa di trovarli d’accordo sui punti essenziali. Entrambi accoglierebbero facilmente l’idea che una società moderna e complessa non può che essere governata secondo un’idea che potremmo definire di liberalismo temperato. In teoria né Cofferati né D’ Amato sono contrari all’evoluzione in atto del capitalismo italiano, che tende a diventare un capitalismo diffuso; entrambi accolgono l’idea che l’intervento dello Stato in economia non può più essere diretto, ma che deve sussistere indirettamente come soggetto regolatore in senso stretto, ossia come soggetto che garantisce le regole comuni a tutti i cittadini italiani. Penso che anche su temi più specifici come quelli dell’importanza della flessibilità, o della formazione, o dell’innovazione tecnologica, al di là di alcune sfumature, essi siano sostanzialmente d’accordo.
Negli anni passati, per intenderci, abbiamo avuto una Confindustria e un sindacato molto più statalisti di quanto non lo sia oggi Cofferati e, naturalmente D’ Amato.
Perché allora toni da guerra fredda, durezze inusitate, che in alcuni momenti sembrano riproporre l’antico tema della lotta di classe? Un’ interpretazione banale, ma efficace sul piano giornalistico, potrebbe essere quella secondo la quale i due contendenti più che parlare fra loro intendano parlare ai loro iscritti ed elettori. Lavoratori e industriali che reclamano i loro diritti, secondo i propri bisogni ed interessi, non sempre tenendo conto della realtà per così dire oggettiva.
Ma non credo sia solo questo: in realtà è vero che non solo in Italia ma in tutto il mondo, si avverte che va riaprendosi un fronte fra ragioni del capitale e ragioni della cittadinanza, fra nuovo capitalismo e qualcosa che somiglia a un nuovo proletariato ma non è ancora definito nelle sue forme e nei suoi contorni. Il riaffiorare del terrorismo non è, probabilmente, soltanto un caso.
Questi motivi consiglierebbero da un lato toni più moderati che non accendano gli animi, e dall’altro di procedere a una più attenta analisi della situazione affinché, se lotta ci dovrà essere (e talvolta ciò è un bene, o almeno una necessità della storia), essa possa svolgersi nell’ambito della democrazia, senza violenze che lasciano sempre una indelebile, terribile traccia.
Un punto deve essere chiaro a tutti che, se è auspicabile un sano agonismo, non bisogna mai mettere in discussione i valori comuni di fondo, anche nell’uso del linguaggio perché, com’è noto, le parole pesano ed hanno spesso conseguenze indesiderate. Se ogni spezzone di società si mettesse a chiedere agli altri il conto, pochi potrebbero non doverlo pagare. Non dimenticheremo che Einaudi, negli anni Sessanta, si scagliò con violenza contro i cementifici di Pozzuoli affermando che essi rubavano perché, inquinando, rubavano alla città di Napoli, fra le più grandi bellezze del mondo, cultura, salute, risorse economiche. Abbiamo citato Einaudi, non Rifkin.
Ernesto Paolozzi
Da “Corriere economia” del 5 giugno 2000