“Oggi assistiamo al trionfo d’una iperdemocrazia in cui la massa opera direttamente senza legge, per mezzo di pressioni materiali, imponendo le sue aspirazioni e i suoi gusti. È falso interpretare la nuova condizione come se la massa si fosse stancata della politica e ne devolvesse l’esercizio a persone «speciali». Tutto il contrario. Questo era quello che accadeva nel passato, questo era la democrazia liberale. La massa presumeva che, in ultima analisi, con tutti i loro difetti e le loro magagne, le minoranze dei politici s’intendevano degli affari pubblici un po’ più di essa. Adesso, invece, la, massa ritiene d’avere il diritto d’imporre e dar vigore di legge ai suoi luoghi comuni da caffè. ”
Così, Ortega Y Gasset nel 1929-30, ne La ribellione delle masse.
Lo studioso spagnolo sembra descrivere la situazione attuale, come se assistesse in diretta televisiva ai talk show, allo spettacolo organizzato per movimenti qualunquisti ed egualitaristi, per un pubblico elementarizzato e al tempo stesso borioso e narcisista. Potrebbe essere un post, quello di Ortega, per un profilo Facebook o per un altro social, uno sfogo o un atto di coraggioso anticonformismo.
Ma Ortega era un socialista liberale, (non un uomo di destra, come potrebbe sembrare), uno studioso attento e rigoroso, un uomo tormentato e politicamente impegnato. Nelle sue parole si potrebbero sentire l’eco di Tocqueville, di quella tirannia della maggioranza che, secondo l’autore de La democrazia in America si sarebbe potuta instaurare nella patria della democrazia moderna; gli umori di parte della grande filosofia degli inizi del Novecento, erede del pensiero hegeliano e marxista, che aveva in sospetto la democrazia “borghese” ma anche del clima irrazionalistico delle filosofie antidemocratiche e aristocraticizzanti che si contrapponevano su un altro terreno alle filosofie dialettiche e storicistiche che in Italia risorsero con Antonio Labriola e Benedetto Croce.
Si può rinvenire, nelle preoccupazioni orteghiane, più che una semplice somiglianza con la cosiddetta scuola di Francoforte che tanto materiale fornì, talvolta involontariamente, alla lotta politica della sinistra mondiale fino al fatidico Sessantotto.
Ma vorremmo percorrere un altro itinerario, complice l’amara e ironica riflessione orteghiana. Quello che ci conduce a riconsiderare l’inquietante fenomeno ( che dunque non è nuovo ma affonda le sue radici nella modernità) della iperdemocrazia, come scrive Ortega, nella commistione con la nuova epoca della comunicazione di massa, della democrazia del pubblico, della telecrazia o come altro si voglia dire, dei movimenti che, sotto lo scudo della democrazia diretta ed egualitaria, organizzano il rancore e l’invidia, sublimano i fallimenti personali chiamando in causa complotti mondiali e lontane responsabilità di istituzioni, partiti, presunte caste.
Quella che indistintamente e superficialmente chiamiamo antipolitica, antipolitica la quale è, invece, una perversa, efficace forma della politica stessa, una forma in grado di raccogliere consensi, acquistare potere, favorire carriere personali. Il terreno tipico, come l’esperienza e la storia ci insegnano, sul quale è facile germoglino avventurieri di tutti i tipi.
La comunicazione politica. Con questa espressione si tende, ormai da qualche anno, a giustificare ogni tipo di propaganda politica, come avremmo detto un tempo. Un’espressione magica che sembra tutto giustificare, tutto perdonare. E’ la comunicazione, bellezza, potremmo dire parafrasando l’esclamazione di H. Bogart nel famoso film, L’ultima minaccia sulla libertà e indipendenza della stampa. Solo che nel nostro caso la situazione è capovolta: è la comunicazione che mette a rischio la libertà.
Certo, hanno ragione i tanti, studiosi e politici, che rifiutano la demonizzazione della comunicazione. Essa ha una sua funzione importante, necessaria. Serve, come la parola stessa indica, a comunicare idee, progetti, passioni e sentimenti al più largo numero di persone. E’ uno strumento fondamentale in ogni democrazia. Ma è uno strumento, appunto. E’ un mezzo e come ogni mezzo si giustifica se messo in relazione al fine che vuole perseguire. Anzi, mezzo e fine, idee, progetti, passioni e comunicazione, quando sono autentici sono la stessa cosa.
La comunicazione politica, in fondo, è il nuovo Principe. Rifiutarla in blocco, moralisticamente, passatisticamente (è questa l’accusa più frequente che si rivolge a chi protesta contro gli eccessi della comunicazione politica) è un errore. La comunicazione, (come il mito politico), può avere la funzione fondamentale di superare la barriera sempre più alta che si erge fra classi dirigenti e “masse” popolari. La forza espressiva di un’immagine, l’efficacia di un breve post su un social possono indirizzare, se non formare, un’opinione pubblica non in grado, in sé e per sé, di comprendere ed analizzare questioni complesse e delicate, talvolta drammatiche che richiedono competenze specifiche, particolare preparazione.
Ma, evidentemente, quella stessa forza espressiva può essere utilizzata per ingannare, manipolare l’opinione pubblica, le masse come avrebbe detto Ortega. Insomma si deve comprendere quale sia il mezzo-fine che vogliamo raggiungere.
E, su questo versante, nulla di nuovo sotto il sole. La comunicazione per un certo verso è la propaganda dei vecchi partiti, ma oggi assume le vesti della vecchia retorica, sembra incarnare una nuova sofistica. Far diventare buono discorso cattivo e cattivo discorso buono, con la sola forza della capacità oratoria, con la tecnica della dialettica intesa come saper parlare, saper persuadere.
Questo è il nostro problema, che non ha nulla a che vedere con la passatista e nostalgica opposizione ai nuovi metodi, sempre più raffinati, della comunicazione. Ci dobbiamo interrogare sulla natura di questa nuova forma di sofistica e torna attuale la drammatica interrogazione di Socrate-Platone, sulla ricerca della verità, della possibilità di compiere una scelta etica. Una ricerca, una scelta, che devono avere fondamenti che non siano esclusivamente la ricerca del consenso. Con tutti i limiti del platonismo, questa esigenza rimane, oggi come nell’antica Grecia, primaria nell’organizzazione di una comunità, di una società che non voglia arrendersi di fronte alla prepotenza del più forte, quale che siano gli strumenti di sopraffazione messi in campo, la violenza fisica o la persuasione psicologica che siano.
Oggi, con l’ingresso delle masse (non intese come insieme di classi o gruppi sociali ma come un’indistinta unità di individui atomizzati) nella storia, e la smisurata forza della comunicazione che attraverso la televisione ed internet penetra quotidianamente nella vita di ciascuno di noi, con l’ingresso della mentalità di massa nella vita politica e civile, la situazione si aggrava: la stessa democrazia è messa seriamente in discussione.
Dobbiamo avere presente l’intuizione di Hannah Arendt a proposito della distinzione fra totalitarismo (fenomeno nuovo agli inizi del Novecento) e dittature, tirannie, governi autoritari. Nei totalitarismi non sono le masse ad aver bisogno del capo che le guida, ma è il capo che ha bisogno delle masse per essere legittimato.
Ciò significa che il potere politico, le classi dirigenti, inseguono le masse, meglio, la mentalità di massa, rinunciano ad ogni ruolo di guida o di stimolo, e la normale dialettica democratica si spegne in questo continuo inseguire le pulsioni delle masse, anche le più brutali e pericolose. La comunicazione è messa al servizio di questo perverso meccanismo che può condurre ad un nuovo, apparentemente mite, totalitarismo. La comunicazione non serve più a persuadere il popolo, ma a rassicuralo che il capo, i gruppi dirigenti sono come il popolo, anzi sono peggiori del popolo-massa ed esaudiranno tutti i desideri che la massa esprimerà.
In questo luogo ancor più che sul terreno delle crisi economiche, si gioca il destino delle democrazie in tutto il mondo. I nuovi fenomeni che definiamo riassuntivamente e forse superficialmente populisti che attraversano il mondo intero, trovano la loro forza nella debolezza delle classi dirigenti, impongono le loro pulsioni, la rabbia, il rancore, l’invidia, la superficialità e la banalità frantumando le vecchie distinzioni fra destra e sinistra, mettendo in soffitta i grandi movimenti politici dal comunismo al liberalismo, dal socialismo al cattolicesimo democratico.
Diventa difficile, in questo contesto, anche la giusta lotta per ridurre le ingiustizie economiche e sociali (motivo scatenante delle crisi politiche, della democrazia) perché anche le differenze di stato e condizione vengono come nascoste o manipolate in un indistinto spirito di rivolta. Alla generosità della lotta per i diritti si sostituisce la rabbia della rivalsa personale.
L’opinione pubblica si impossessa dell’informazione non più nel senso di criticarla e controllarla, ma nel senso indicato dalla Arendt nei regimi totalitari: perché l’informazione insegue l’opinione pubblica, le liscia il pelo contribuendo, in un pericoloso gioco al rimando, alla sua degenerazione culturale ed eticopolitica. Ci soccorrono, su questo percorso, le analisi della scuola di Francoforte. I canoni dell’industria culturale che, secondo i francofortesi, impoverivano e deprimevano la libera espressione culturale, oggi si estendono all’industria dell’informazione. Il Format, ad esempio, come strumento fondamentale dell’organizzazione dell’informazione, mostra chiaramente come l’unico fine dell’informazione sia quello di piacere, avere consenso. Si spegne ogni spirito critico, svanisce la funzione fondamentale di controllo sui poteri consolidati che la “stampa” svolgeva pur fra mille contraddizioni.
L’industria dell’informazione, diventa un pericolo difficile da scorgere. Come il diavolo che si traveste da bene. L’organizzazione a fini economici della denuncia o della protesta impoverisce irrimediabilmente sia la credibilità della denuncia sia la forza della protesta. Anche le più severe critiche risultano critiche false, le carte da gioco sono segnate. Vi è il serio rischio che l’antica lotta per la libertà della stampa (dell’informazione) debba tramutarsi in nella lotta per la libertà dalla stampa. Con quali strumenti? Ecco l’interrogativo politico che ci si dovrebbe porre con maggiore consapevolezza e con preoccupazione crescente.
Dalla rivista “Libro Aperto”, Numero 84, Gennaio – Marzo 2016.