Il dialogo tra il filosofo e la poetessa Maria Curtopassi.
Fra gli ateismi di maniera di epigoni di Voltaire in cerca di successo e le ipocrite conversioni di atei devoti in cerca di visibilità politica, il carteggio fra Croce e Maria Curtopassi, curato da Giovanni Russo, “Dialogo su Dio” (Archinto) giunge come una ventata di aria fresca. Negli stessi anni della gestazione e della pubblicazione del notissimo saggio Perché non possiamo non dirci cristiani Croce scriveva alla sua amica una lettera che è già un programma:
«Puro filosofo quale sono e, per sincerità verso me stesso, voglio restare, io stimo che il più profondo rivolgimento spirituale compiuto dall’ umanità sia stato il cristianesimo; e il cristianesimo ho ricevuto e servo, lievito perpetuo, nella mia anima».
Il carteggio si sviluppa dal 10 giugno 1941 al 18 ottobre 1952, ossia sino alla morte del filosofo.
Il tono generale che connota l’ epistolario nel decennio terribile che travolse l’ Europa e il mondo intero, è quello di una profonda e schietta sincerità. Maria Curtopassi è una donna intelligente, non è una bigotta o una zelante timorata di Dio, ma è una fine letterata e poetessa in grado, tra l’ altro, di cogliere passaggi non semplici del complesso pensiero di Croce. Croce apprezzò le sue poesie e pubblicò un saggio sulla Critica di consenso proprio perché individuava nella poesia della Curtopassi una vena autentica e sincera, in cui la religiosità era un elemento fondativo di un aspetto del travaglio della vita. Per il filosofo, critico tante volte aspro e severo, il linguaggio della Curtopassi rappresentava, come in altri rari casi della poesia religiosa, un elemento di autenticità e di “gentilezza” tanto più raro e prezioso in un momento in cui la stessa civiltà europea era messa in discussione.
La Curtopassi, dal canto suo, cerca sempre di individuare nel pensiero crociano quegli elementi che in qualche modo si possono congiungere con una visione cristiana della vita, pur senza mai forzare la mano o invadere un campo difficile da dissodare.
Nell’ ultima lettera scritta da Croce emerge come il filosofo accogliesse e non accogliesse il pensiero dell’ amica, ma sempre con estremo garbo e rispetto. A proposito di un libro crociano dello Sprigge, del quale aveva discorso con la scrittrice, scrive: «Ringrazio anche Lei, che ha aggiunto tante fini osservazioni nella Sua lettera delle quali sento il valore anche quando debbo riconoscerle dettate dalla Sua amicizia verso di me che sono alquanto diverso nel mio pensiero».
Non si deve pensare infatti a un Croce privato troppo diverso dal Croce pubblico, quasi che da queste lettere potesse emergere un radicale cambiamento di rotta del suo pensiero.
La sua posizione è chiara, ed è quella di chi non può non riconoscere la grandezza della cristianità e il doloroso e assieme gioioso travaglio dell’ esperienza religiosa. Ma è anche quella di chi sa di non poter abbandonare la rigorosa speculazione filosofica.
Sul terreno politico emerge un Croce che fa intendere chiaramente come la cristianità sia un baluardo difficilmente sostituibile in epoca di crisi della civiltà. Ma un altro tratto, che è poi, a mio modo di vedere, quello fondamentale, connota le ventuno lettere scritte lungo l’ arco di un decennio: la posizione che un filosofo assume di fronte al mistero della fede rispetto a una donna che di quella fede è nutrita senza ipocrisie o secondi fini. Insomma, il rapporto tra il finito e l’ infinito, fra l’ uomo e Dio, fra la terra e la divinità. In questo carteggio appare un Croce certamente diverso da quello dei primi anni della sua attività. Diverso, naturalmente, non per la concezione generale della sua filosofia che non intende abbandonare l’ idea, in fondo di origine hegeliana e vichiana, che fra universale e particolare, tra Dio e l’ uomo, vi sia un rapporto dialettico che, in qualche modo, chiuderebbe la via a ogni possibile trascendenza.
Un moderno e più complesso spinozismo per il quale Dio è sempre nella carne e la carne è sempre fenomenologia di Dio, giusto l’ incipit del Vangelo filosofico di San Giovanni. Croce accenna a un discorso sulla fede e su Dio che si deve tenere al di fuori e al di là della teologia, un’ esperienza, quella della fede, che essa sì trascende ogni forma di immanentismo anche perché essa stessa fa parte della vita e dunque ha ben saldi i piedi sulla terra.
In ultima istanza, mi permetterei di dire, tutti noi, ogni giorno, compiamo innumerevoli atti di fede, da quello fondamentale per cui crediamo che la nostra vita valga la pena di essere vissuta, che la storia abbia un senso, che sia bene operare in vista di ciò che faranno altri, ossia le generazioni che verranno dopo di noi. Per finire agli altri piccoli atti di fede, come sono quelli nei quali noi tutti scommettiamo ogni qual volta, incontrando il nostro prossimo, immaginiamo di incontrare il nostro simile, ossia una persona che, come noi, intenda la vita allo stesso modo di come la intendono altri milioni e milioni di esseri umani. Non sono la fede e la trascendenza, dunque, in discussione. Il problema è se la fede e la trascendenza possano costituirsi in una forma specifica, in un ente tra gli enti.
Qui né Croce né la Curtopassi possono dire parole definitive, ma quello che è certo è che sarebbe banale negare la questione.
Ernesto Paolozzi
Da “La Repubblica – Napoli” del 9 ottobre 2007 Repubblica archivio