Ernesto Paolozzi, Luigi Vicinanza, Diseguali. Il lato oscuro del lavoro. ( Guida Editori – 2018)
“Sul fronte del lavoro sta naufragando l’umanità”. Questo è il prologo. Queste invece sono le conclusioni: “Lavorare meno per lavorare tutti, lavorare meglio per vivere dignitosamente, redistribuire i profitti per costruire una democrazia autentica”. Nel mezzo, tra ciò che può sembrare un avvio puramente apocalittico e un finale affidato alla più classica delle utopie, si sviluppa invece una riflessione attualissima, tutt’altro che scontata, e quanto mai utile. Scritto da Luigi Vicinanza ed Ernesto Paolozzi, “Diseguali, il lato oscuro del lavoro” (edito a Napoli da Guida) merita di essere segnalato per almeno tre motivi. Per il tema trattato (la crisi lavoro); per il contesto scelto (la crisi del liberalismo); e per lo scenario nel quale il ragionamento viene proiettato (la crisi della democrazia).
La tesi di fondo è che la democrazia si potrà salvare solo se al lavoro verrà restituito quel senso che una volta aveva e che ora non ha più; quel senso che anche il liberalismo, vincitore sul fascismo e sul comunismo, non è riuscito a proteggere. Cosa vuol dire? La migliore risposta è nelle lapidarie parole di Luigi Einaudi citate nel libro: “Giova l’industria in quanto cresce la massa di cose utili apprestate all’uomo; non giova in quanto cresce inutilmente…Il problema sociale più urgente non è di crescere la ricchezza dell’uomo, ma di fargli sentire perché egli lavori e produca”. Dopo il boom economico e il consumismo, e decenni di spesa facile, del resto, è venuta la crisi, e la Storia è tornata a rivelare la non linearità del suo progredire. A questo punto, il velo si è squarciato e ha mostrato un mondo globalizzato ma insopportabilmente diseguale. Come a dire che il liberalismo ha funzionato quando c’era da gestire la crescita economica, ma che si rivela inadeguato quando la crescita o non c’è più o, pur manifestandosi a macchia di leopardo, non è più sufficiente a risolvere i conflitti del mondo. Il lavoro si è sempre più rarefatto, frammentato, esternalizzato, precarizzato, e allo stesso tempo le garanzie per chi lo perdeva si sono progressivamente ridotte. Più in generale, è aumentato, tra i lavoratori, un senso di spaesamento e di frustrazione, non solo perché il più delle volte l’azienda per cui lavori non è più quella per cui sembra che tu stia lavorando; non solo perché lo Stato e i datori di lavoro hanno nel frattempo assunto profili sempre più sfuggenti; ma soprattutto perché è venuta meno, con il crescente ricorso a vere e proprie forme di sfruttamento, la stessa dignità del lavoro.
Pochi – scrivono gli autori – avrebbero potuto immaginare che le conquiste civili e politiche, costate lotte e sacrifici immensi, si sarebbero dissolte, o almeno in parte dissolte, nel giro di qualche decennio con lo svilupparsi della cosiddetta globalizzazione dei mercati. A questo punto – aggiungono – ripensare, senza rinnegarle, le proprie appartenenze ideali è un dovere morale, è un riconciliare la propria intelligenza delle cose al cospetto di molte dure smentite della storia. Da qui un esplicito appello: “Liberali e socialisti, innanzitutto, abbandonino dottrinarismi accademici per recuperare il metodo di interpretazione della storia, l’umanità che è a fondamento dei loro ideali”.
Luigi Vicinanza, giornalista, ed Ernesto Paolozzi, filosofo, sono arrivati al pensiero liberale da strade diverse. Il primo, dal postcomunismo, e cioè da una sinistra smarritasi nella ricerca di nuove vie. Il secondo, dal crocianesimo, vale a dire da una concezione del mondo non riconducibile ai soli processi economici. Insieme, però, ora ne denunciano il limite. E insieme ne invocano l’evoluzione. Vicinanza, quasi recuperando l’idea di una lotta di classe che ristabilisca equilibri sociali più tollerabili. Paolozzi, mostrando nostalgia per autori come Keynes e Ortega y Gasset (è stato quest’ultimo, scrive, a donarci una delle più belle e umane definizioni del liberalismo: “nobilissimo ideale politico, stupefacente e innaturale, che prima di cominciare il combattimento offre all’avversario le armi per combattere”). Entrambi, in sostanza, ammettono di essersi, col tempo, radicalizzati. E non è affatto da escludere che a spingerli in questa direzione sia stata proprio la poco esaltante realtà meridionale, ben nota sia all’uno che all’altro.
Nel suo saggio iniziale, più breve, Vicinanza sostiene che le forze comunemente definite populiste non sono la causa della crisi del sistema politico, ma ne sono semmai l’effetto. In Italia come in tutto l’Occidente. I populismi, spiega, sono la diretta conseguenza del fallimento delle culture classiche (socialdemocratica, cristiano-sociale, liberale), dimostratesi incapaci di governare la globalizzazione e di affrontare la Grande Crisi economica scoppiata nel 2008. In particolare, aggiunge, le forze di sinistra sono state subalterne all’unica ideologia oggi dominante: il turbocapitalismo neoliberista. Fonte appunto della ingiusta redistribuzione delle ricchezze.
Paolozzi, invece, insiste di più sul rapporto tra crisi del lavoro e crisi della democrazia rappresentativa, con particolare riferimento ai temi della formazione culturale delle nuove generazioni e degli specialismi tecnici delle élite. Negli ultimi anni – scrive- in quasi tutto il mondo occidentale è prevalso un modello educativo teso a privilegiare la formazione del lavoratore e del cittadino consumatore a discapito della formazione di un cittadino consapevole, intelligente, creativo, politicamente ed eticamente responsabile. Il che vuol dire, ad esempio, che nel sistema della valutazione scolastica e universitaria “ha trionfato un modello neopositivista, scientista e tecnocratico”. Insomma, il sistema falsamente oggettivo dei test e dei quiz. D’altro canto, ecco il fenomeno parallelo: l’esaltazione dello specialismo come deviazione della competenza. Paolozzi parla di “retorica degli esperti ai quali dovremmo affidare i nostri destini individuali e quelli dell’intero mondo”; e di nuovi idoli “dietro ai quali si nascondono interessi inconfessabili”. E così il cerchio si chiude, con grave danno per il sistema democratico, perché anche quello della specializzazione “diventa un mito politico, uno strumento del potere per governare indisturbato, celato dietro il paravento di una ideologia che spegne il pensiero critico e, in ultima analisi, impedisce il progresso scientifico”.
Il problema, dicono Vicinanza e Paolozzi, non è tanto nelle élite liberali, nelle occasioni che hanno avuto e che non hanno saputo sfruttare, anche in Italia. Ma è nell’idea stessa. Nel liberalismo. Un liberalismo che in parte deve recuperare il meglio delle origini, e in parte deve sapersi inventare soluzioni adeguate ai tempi. Non è un caso, del resto, che anche il più importante settimanale del mondo, “The Economist”, in occasione dei suoi 175 anni di esistenza, abbia pubblicato un Manifesto per un nuovo liberalismo. Vuol dire che il tema c’è ed è anche molto caldo. E fa piacere che anche da Napoli e dal Mezzogiorno arrivi un contributo alla riflessione generale.
di Marco Demarco
da la rivista di studi “Libro Aperto”, Numero 96, gennaio – marzo 2019