Gli ordini sono residui medievali.
La nostra città, forse per un caso, si trova al centro di un dibattito di grande importanza trascurato, purtroppo, dall’informazione per il continuo susseguirsi di più o meno gravi emergenze: la discussione circa il ruolo e il destino degli ordini professionali e delle associazioni non ancora regolamentate come quella dei designer, degli assicuratori, dei fisioterapisti, e così via.
Il Comitato degli Ordini tradizionali (avvocati, notai, commercialisti, etc) ha scelto Napoli per lanciare una sorta di Manifesto delle professioni in difesa della loro autonomia.
Un napoletano, Giuseppe Tesauro, presidente dell’Antitrust, è tornato in questi giorni, come riferiscono le cronache giornalistiche, ad attaccare gli ordini con meditata serenità: “Le barriere d’accesso alle professioni sono medievali”, ha detto senza giri di parole. “Non ho mai visto, ha aggiunto icasticamente, radiare dall’ordine un ingegnere che ha costruito un grattacielo sulla sabbia”.
Contemporaneamente, sempre a Napoli, l’ordine degli architetti si è reso protagonista di un episodio di colore ma comunque significativo: retorico necrologio redatto, sembra, dagli uffici in onore della persona sbagliata, il vivo e vegeto Giulio Pane preso in iscambio, si sarebbe detto una volta, per lo scomparso vero (purtroppo), grande architetto Giulio De Luca. Sull’episodio di potrebbe sorvolare, se non fosse che Giulio Pane, abbastanza risentito, ha replicato con spirito ma non senza ricordare che, a suo avviso, l’ordine degli architetti è ormai da tempo in stato comatoso.
Come che sia, si ripropone una questione antica e fondamentale per l’organizzazione stessa della vita della cosiddetta società civile.
La tradizione liberale, a partire da Einaudi, ha sempre avuto in gran sospetto l’istituzione di ordini professionali che potessero, in qualche modo, trasformarsi in una sorta di corporazione. Non che, naturalmente, non sia importante che le professioni affini si organizzino e si autoregolamentino in modo autonomo e, per così dire, rispettino un loro codice deontologico prima che si intervenga dall’esterno. Insomma, darsi una regola per evitare che siano altri ad imporla. Ma è altrettanto vero, sostengono altri, che una professione libera, per essere veramente tale, non può e non deve avere vincoli e restrizioni, sia pure imposti da un ordine la cui reale rappresentatività è sempre difficile da interpretare. Se esistesse un ordine dei filosofi, non sarebbero stati accolti, con ogni probabilità, Campanella e Giordano Bruno, Benedetto Croce e Antonio Gramsci.
La questione, come si vede, non è irrilevante. E’ anzi in gioco la libertà sostanziale di una società, che deve potersi autoregolamentare al di fuori e al di là dello Stato propriamente detto ma non può e non deve sostituirsi allo Stato con vincoli talvolta ancora più restrittivi, instaurando privilegi troppe volte odiosi quanto meschini.
Ciclicamente polemizziamo, nella nostra Italia, e a Napoli in particolare, sulla contrapposizione tra società civile e classe politica. Generalmente presentando la prima come il bene assoluto e la seconda come l’assoluto male. Ma la società civile è un’astrazione, né si comprende chi sia designato a rappresentarla. Appena si passa, infatti, dalla pura terminologia ad un’analisi concreta ci si imbatte, come in questo caso, in una rappresentazione chiara e visibile della società civile com’è appunto quella degli ordini professionali. Quella contrapposizione di comodo, un po’ tartufesca, si dissolve immediatamente perché risulta subito evidente che, nel bene come nel male, società civile e classe politica condividono vizi e virtù.
Per la verità, alla classe politica spetterebbe un compito ancora più importante, che è quello di saper interpretare e mediare gli interessi particolari (rappresentati appunto da ordini, associazioni, sindacati) al fine di non danneggiare, o non danneggiare troppo, gli interessi complessivi della società limitando i privilegi di pochi.
Sarebbe interessante dunque sapere cosa pensano le forze politiche dell’allarme più volte lanciato dal Presidente dell’Antitrust.
Ernesto Paolozzi
Da “la Repubblica” del 9 maggio 2004 Repubblica archivio