Il calcio giovanile: nelle scuole di calcio si educa alla vita.

Lo straordinario successo della manifestazione organizzata da “Repubblica” a Scampia mostra, a mio avviso, come l’impegno della cultura non possa ridursi a schemi precostituiti ma debba esercitarsi in piena libertà e nei modi più diversi e fantasiosi. Fra questi, fondamentale rimane quello di interpretare la realtà e di farla conoscere offrendo le proprie impressioni alla riflessione pubblica.

Mi farebbe piacere, ad esempio, porre all’attenzione un fenomeno vastissimo che attraversa l’intera nostra società e che è poco studiato: quello del calcio giovanile, delle cosiddette “scuole calcio” che proliferano in ogni quartiere della città, in ogni paese della regione.

Generalmente il calcio giovanile arriva alla ribalta solo quando si verificano incresciosi fenomeni di violenza come quello, recentemente pubblicizzato, di una gigantesca rissa, documentata da un cineamatore, scoppiata da giovanissimi calciatori (quattordicenni) di Secondigliano e di Ischia.

Devo dire di passata che, qualche anno fa, sono stato ospite come genitore della scuola calcio Campagnano di Ischia, e mi fa piacere ricordare che fummo accolti con estrema cortesia e gentilezza. Devo anche subito ribadire, da ex calciatore, che va immediatamente abolito dal nostro codice interpretativo il paragone con il buon vecchio calcio antico, perché non è affatto vero che ai nostri tempi c’erano minore violenza e durezza. Semmai, sono mutati i modi e i termini della violenza, ed è appunto di questo che bisogna occuparsi. Un ultimo avvertimento: è divenuto del tutto inutile dare la colpa di questa persistente violenza esclusivamente ai cosiddetti modelli televisivi oppure alla povera scuola, accusata di permanente capacità educativa. Le responsabilità ci sono, ma rincorrere solo queste è come dare la colpa ai Borbone o agli Angioini del traffico che costantemente blocca la nostra città.

Il fenomeno è complesso e va indagato nella sua complessità. Nelle cosiddette scuole calcio si aggirano personaggi descrivibili essenzialmente sul terreno letterario. Vecchi giocatori dilettanti che pateticamente si atteggiano ad allenatori imitando perfino nel gergo e nelle movenze quelli di serie A, ed altri, invece, che sono autentici “maestri” del pallone, che cercano di educare, sia tecnicamente che moralmente, giovanissimi adolescenti, spesso provenienti da situazioni sociali e familiari che chiamare difficili è certamente eufemistico.

Frequentano le scuole i genitori (cosa questa che, ai nostri tempi, veramente non accadeva), che seguono i loro figli dall’età di sei anni fino addirittura ai sedici.

Ho detto genitori, coinvolgendo con ciò anche le mamme, le quali guardano al fenomeno calcio da un’ottica del tutto sui generis. Un passaggio sbagliato di un ragazzino di undici anni si configura quasi sempre, nelle loro menti come un dispetto ai danni del loro rampollo. Nel complesso, padri e madri (ma talvolta fratelli e sorelle) sono certi che i loro figli, se ben allenati, e se non ostacolati da oscure congiure, siano destinati a raggiungere livelli altissimi, addirittura la tanto agognata serie A. E qui, certamente, funziona il modello televisivo. Questo clima non può che generare una latente violenza che, spesso e volentieri, si manifesta in tutta la sua virulenza se si pensa che, come si diceva un tempo, il calcio non è un gioco per signorine e se si tiene presente che si tratta dello sport più interclassista praticato in Italia e forse in Europa.

Ai miei tempi, ricordo bene, il terzino destro della mia squadra rappresentava, per dir così, la società illegale del mio quartiere, mentre quello sinistro era il figlio di uno dei maggiori chirurghi della città. E così si andava avanti, in questa alternanza, fino al numero undici, al dodici, al tredici, e così via.

Fin qui il fenomeno è abbastanza noto e, dall’esperienza che ho avuto, è diffuso anche in altre regioni italiane, nel Lazio forse più che a Napoli, ma anche al Nord, dove pure, purtroppo dobbiamo ammettere, il livello medio di civiltà sportiva è più alto, come migliori sono le strutture sportive, che nella nostra regione sono quasi del tutto inesistenti.

Più complesso è un altro fenomeno, che è anche meno noto. Non tutti i genitori sono così ingenui dal non capire che è quasi impossibile che i loro figli diventino tutti Totti o Maradona.

In serie A, dovetti spiegare ad un genitore che per questo mi odiò, giocano più o meno sei, settecento giocatori in cinque anni, compresi i tantissimi stranieri. Soltanto nella Federazione giovanile napoletana, invece, se ne iscrivono ogni anno circa trentamila. Quand’anche ci fosse, in una nostra scuola calcio, il futuro Totti ha le stesse probabilità di far veramente carriera che ha ognuno di noi di vincere una quaterna al gioco del Lotto.

E allora, cosa spinge tante persone a perorare con tanta testardaggine la causa dei loro giovani calciatori? E’ facile scoprirlo. Il giro di denaro che si è venuto a creare attorno al calcio semiprofessionistico e perfino dilettantesco, è stato nell’ultimo decennio veramente enorme. Questo sì in modo decisamente diverso dagli anni Sessanta e Settanta. Un ragazzo che gioca in una qualsiasi squadra, dalla Promozione alla serie C, può guadagnare svariati milioni delle vecchie lire. Si tratta in sostanza dei professionisti mascherati. Infatti si sottopongono ad allenamenti non troppo dissimili, sul piano della quantità, a quelli dei professionisti, semmai scadenti sul piano della qualità tecnica. Ciò significa, essenzialmente, che un giovane di una cosiddetta famiglia bene che voglia proseguire gli studi liceali ed universitari non può proseguire sulla via del calcio. Deve necessariamente scegliere.

Un universitario degli anni ’70 poteva scegliere di giocare in promozione o in serie D senza rinunciare alla laurea. Oggi non è più possibile. Le famiglie che pensano che i loro figli siano destinati alla disoccupazione o a lavori umili e precari o, peggio, ad incamminarsi sulla via della criminalità, li ritengono fortunatissimi se riescono invece ad incamminarsi verso una sia pure dimessa carriera calcistica. Non sono dunque genitori ingenui che, affascinati dal successo dei borgatari Totti e Cassano, sognano improbabili ricchezze, ma sagaci imprenditori della loro prole.

Si crea cosi un discrimine netto, potremmo dire una netta divisione di classe, nello sport più popolare di Italia.

Attorno a questo mondo si aggirano, come è naturale avventurieri di ogni sorta, traffichini e imbroglioni che, in cambio di pochi soldi, promettono di vendere questi giovani ragazzi a questa o a quella società. Come è facile immaginare, nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di vere e proprie truffe e quei sagaci quanto disperati imprenditori dei propri figli finiscono nella rete di questi avventurieri perdendo danaro e speranze e, quello che è più grave, i loro figli adolescenti passano da luccicanti illusioni ad amare delusioni.

Tutto ciò, è forse oramai inutile ribadirlo, rende oggettivamente difficile questo mondo del calcio giovanile, aumenta il tasso di inciviltà diffusa che attraverso i giovani che si educano in questo clima, permea l’intera società. Altro che compito della scuola: come la tela di Penelope, ciò che si fa la mattina nelle aule si disfa, con molta più efficacia ed energia, il pomeriggio sui campi di calcio.

Eppure, bisogna chiarirlo, la Federazione giovanile calcio compie, a mio avviso, un miracolo organizzativo gigantesco.

In un paese in cui poco funziona l’intero apparato burocratico-amministrativo, l’amministrazione del calcio giovanile riesce a garantire, ogni domenica, su centinaia di campi, partite regolari e puntuali. Vengono mandati, ad esempio, su improbabili e sperduti terreni di gioco arbitri giovani e, a volte, giovanissimi; vengono puntualmente redatte classifiche, comminate espulsioni, ammonizioni e, insomma si gestisce con ordine e tempestività il complicatissimo fenomeno che abbiamo cercato di descrivere.

Sarebbe dunque il caso che le forze politiche, le nostre amministrazioni, si occupassero della questione con l’attenzione che merita, che si cercasse di mettere in sinergia, sempre di più, il mondo delle istituzioni con quello del calcio. Perché la capillare struttura offerta dall’organizzazione del calcio giovanile potrebbe essere un veicolo, diciamolo pure, di civilizzazione e di formazione difficilmente sostituibile con altri.

Ernesto Paolozzi

Da: “La Repubblica” 28.12.2004                                                                                                                                                         Repubblica archivio