Il calcio tra la testa e il cuore.
Ha ragione Adriano Sofri nel ricordare che negli anni Sessanta e Settanta gli intellettuali di sinistra, ma forse, più in generale, gli intellettuali, snobbavano il calcio. Ed ha ragione a confermarlo Claudio Botti, mio amico dell’adolescenza con il quale abbiamo attraversato la stagione della politica e dello sport in quegli anni, almeno per noi, irripetibili.
Oggi, fra destra e sinistra, si apre un solco purtroppo antropologico, prima ancora che politico: come allora.
Ricordo che nei dintorni del Sessantotto ero amico di Franco Maglione, oggi affermato manager calcistico, dirigente del Giugliano di Poziello e Vitiello. All’epoca era un intelligente ed arguto esegeta del marxismo. Se non ricordo male, un Ttroskjista della IV Internazionale. Il pomeriggio andavamo al Giambattista Vico, il nostro liceo, il liceo “rosso” di Napoli, scortati da amici perché immaginavamo possibili aggressioni dei fascisti, ma la sera ci incontravamo al Sangiuliano, il grande bar di piazza Medaglie d’oro raduno della sinistra giovanile napoletana, per organizzare il campionato di calcio della scuola. Inventammo il calcio mercato scolastico. Ogni sezione, infatti, poteva ingaggiare due “esterni” o “comprare” giocatori di altre sezioni. E qui Franco Maglione commise un errore che oggi non commetterebbe. Mi lasciò comprare Oreste Gallo, il più forte giocatore della sua sezione. Il che fece la differenza.
Qualche anno prima il campionato interno lo organizzava Franco Castiglione, oggi affermato avvocato lavorista che fu esponente del Te Diegum , anch’egli politicamente molto impegnato, come il fratello, esponente del partito radicale.
Sempre con Claudio Botti partecipavamo a molte trasferte del Napoli, e in una, a Roma contro la Lazio, assieme al futuro consigliere comunale dei Ds, Ugo Raja, fummo al centro, mi spiace ricordarlo, di una gigantesca rissa nella quale ci alleammo con i romanisti contro i malcapitati laziali.
Ma il tutto avveniva quasi clandestinamente. Quando il Vico era occupato, per la verità quasi sempre, fuggivamo i pomeriggi del martedì e del giovedì per andare all’allenamento del Posillipo e il povero Claudio mi aspettava con la sua Vespa 50 per essere puntuali, la sera, all’occupazione. Un giorno, durante i mondiali del ’70, eravamo tutti a casa di mio zio, lo scrittore Gaetano di Maio, grande tifoso del Napoli e fan di Omar Sivori. C’era con noi Silvestro Montanaro, futuro importante giornalista della Rai, ma all’epoca ancora soltanto un rompiscatole che, per motivi di ortodossia marxista voleva impedirci di vedere la partita. Fu, naturalmente, cacciato fuori, anche con una certa violenza, da un nostro amico, e ricordo, come scolpito nella memoria, l’imbarazzo di mio zio, che mi chiedeva come mai Silvestro si comportasse così e perché mai, in casa sua, altri dovevano cacciare in malo modo, un ospite generalmente gentile, affettuoso, ben accetto.
Ma la divisione antropologica attraversava lo stesso mondo dello sport. Era di sinistra la pallacanestro e, nel mio liceo che, pure, in quanto liceo classico, era mediamente più debole, in fatto di sport, degli istituti tecnici, la passione per il basket era formidabile. C’era Adinolfi, fratello dell’attore Giulio, che giocava in serie C con la Oriens e Bruno Figliuolo, della Pallacanestro Napoli, oggi professore di Storia Medioevale ad Udine. Vincemmo il torneo scolastico con la sezione E in una mitica partita ai cavalli di Bronzo proprio contro la squadra favorita di Bruno Figliuolo, con la quale giocavano anche Massimo Galli, oggi magistrato, e il futuro sceneggiatore Massimo Russo. Con noi Giuseppe Di Costanzo, filosofo e scrittore ed Antonello Vallario, allora play maker, oggi ortopedico di vaglia. Tutti di sinistra, sia pure con svariate sfumature.
Erano forti anche le ragazze, come quelle dell’indimenticabile sezione C di Elvira Basile.
E lì la divisione era netta. Il calcio interclassista era considerato plebeo e populista, il nuovo oppio dei popoli; la pallacanestro intelligente e colta, raffinata e all’avanguardia. Insomma, come nella canzone di Gaber.
Forse già da allora, in queste manifestazioni tutto sommato del tutto innocenti per noi che eravamo degli adolescenti sia pure così appassionati ed “impegnati” nella lotta politica, si poteva scorgere il destino della sinistra intellettuale italiana: la separazione netta con il popolo che, pure, si intendeva difendere. Non era più l’Italia degli anni Cinquanta, quella di don Peppone e don Camillo: le parti si invertivano, lentamente, surrettiziamente, in un modo che per me rimane ancora incomprensibile.
Riappropriarsi del calcio, come giustamente dice Sofri, può significare. da parte degli intellettuali, riappropriarsi non tanto del rapporto col popolo quanto, più essenzialmente e logicamente, con la realtà. Se penso alla vicenda del teatro nella nostra città vedo qualcosa di simile: da un lato il teatro vero, quello che piace alla gente, dall’altro quello che piace ai critici ed è sovvenzionato dagli enti pubblici. Il primo come il calcio, il secondo come il basket, ma questo è un altro discorso.
Ernesto Paolozzi
Da “La repubblica” 31 gennaio 2005 Repubblica archivio