Il doppio sistema dell’Università italiana
(da “la Repubblica-Napoli” del 30 luglio 2008)
Con un decreto legge, il governo avvia una parziale privatizzazione della Università italiana e introduce tagli e correttivi di un certo rilievo. Si è levata, alta e forte, la protesta dei rettori, di molti docenti universitari, con epicentro nella nostra città. La trasformazione degli atenei in fondazioni private o, meglio, la possibilità che viene data loro di trasformarsi in fondazioni, soltanto qualche anno fa avrebbe suscitato proteste vigorose in larghi settori della cosiddetta società civile ma, soprattutto, avrebbe scatenato la rivolta degli studenti. Non penso soltanto agli anni immediatamente posteriori al Sessantotto, anni nei quali gli atenei e il ministero sarebbero stati messi a ferro e fuoco nel senso letterale della parola. Penso anche ad anni più vicini nei quali, certamente ci sarebbero stati cortei, documenti, proclami e così via, da parte degli utenti principali delle università: gli studenti. Eppure alcune critiche al decreto sembrano fondate, oggettive, tali da meritare una maggiore attenzione di quella suscitata in questi giorni. Ne cito una che mi sembra ineludibile: le università del Nord, e quelle a carattere tecnologico e scientifico in primo luogo, saranno avvantaggiate, con ogni probabilità, nel reperire fondi privati, mentre è evidente che le facoltà umanistiche e tutte quelle meridionali (con le dovute eccezioni, naturalmente) finiranno al palo. Non è difficile ipotizzare un doppio sistema dell´istruzione italiano, un po´ come quello americano, con un segmento privato almeno in parte eccellente ed un segmento pubblico del tutto insufficiente se non inutile.
Un´istruzione di serie A e una di serie B, insomma: la prima per ricchi, la seconda per poveri. Naturalmente a questa analisi qualcuno potrà obiettare che, tutto sommato, una drastica selezione darwiniana del sistema dell´istruzione italiano potrà, alla lunga, essere utile. Non vogliamo entrare nel merito di tale questione, sulla quale si potrà discutere all´infinito. Il vero problema è che non se ne discute. E che, nell´agenda politica, culturale, civile, morale, del Paese, il tema è collocato in fondo ad ogni classifica, considerato irrilevante, secondario rispetto all´aumento delle zucchine o alla violenza negli stadi o al cattivo funzionamento dei cellulari in alcune zone montuose. Perché?
Una prima risposta la si rintraccia nelle amare e ironiche considerazioni svolte su “la Repubblica” il 25 luglio da Ilvo Diamanti. La maggioranza degli italiani, riassumo drasticamente, se ne frega della cultura e, dunque, dei professori i quali sono percepiti come dei fannulloni o, nella maggioranza dei casi, come dei poveretti, mal pagati e immalinconiti, che non riescono a trasmettere cultura e insegnamenti a giovani, meritevoli e fighetti, che della vita hanno già capito tutto: che è fondamentale arricchirsi presto e a qualunque costo; fare culturismo; apparire in televisione e, aggiungerei, bere, mangiare e… Accanto a queste considerazioni, è doveroso collocare quelle svolte in questi giorni, sempre su “la Repubblica”, da Gustavo Zagrebelskj circa la differenza fra legalità e legittimità. Il suo ragionamento potrebbe valere soprattutto per l´Università.
Anche i docenti universitari sono mal pagati, pur se non all´indecoroso livello degli insegnanti di scuola ma godono di vantaggi e privilegi che sanno di casta. Anzi, spesso sono contigui alle altre caste dell´apparato pubblico, poiché entrano nel giro delle consulenze, spesso inutili e dispendiose, nel giro della lenta e malata burocrazia statale. Gli studenti, dunque, percepiscono questa istituzione come un´istituzione necessaria, legale, ma non legittima, perché non rappresenta più il luogo della libera cultura, della libera ricerca, dell´insegnamento morale. Se ben si riflette, le amare e ironiche constatazioni di Diamanti e la sottile e acuta distinzione operata da Zagrebelskj, sono perfettamente complementari e, insieme, disegnano il vero, profondo dramma della democrazia italiana, che si fonda assieme sulla crisi dei partiti e la crisi della società civile e di tutte le sue istituzioni. Ecco perché cadono sostanzialmente nel vuoto gli appelli accorati di alcuni docenti universitari.
Ci si può indignare se c´è una dignità da difendere. Il che oggi non è: per reciproca colpa della società e di quelle istituzioni, politiche e culturali, che sono da un lato lo specchio di questa società e dall´altro la causa dei suoi peggiori difetti. Non se ne esce se non si compie un´autentica e seria operazione di verità e se non ci si dà una regola per evitare che venga imposta da altri.
Ernesto Paolozzi