di Ernesto Paolozzi
Chi non può sostenersi e provvedere alla sua famiglia attraverso il lavoro non solo soffre sul piano materiale ma perde la sua dignità. Perde, per certi aspetti, la stessa libertà. Può sembrare una costatazione ovvia. Ma se si guarda a quello che da qualche anno sta accadendo al mondo del lavoro, alle politiche di governi, regioni e città, la questione della dignità del lavoro e della connessa dignità di un individuo non sembrerà più tanto ovvia.
La filosofia prima ancora della politica, ci aveva abituati a pensare alla grande questione del lavoro come ad una questione morale di grande rilevanza. Basterebbe questa citazione di Karl Marx del 1875, la nota Critica al programma di Gotha per comprendere come il ruolo del lavoratore diventava centrale nella società moderna non soltanto sul terreno della cosiddetta economia pura ma nel più vasto orizzonte della sociologia e della filosofia morale: “in una fase più elevata della società …, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: “Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”.
Ma nella nostra prospettiva può essere ancora più interessante ricordare la ormai classica figura della dialettica servo padrone presentataci da Hegel ne La fenomenologia dello spirito. Il padrone, argomenta il filosofo, è colui che avendo messo a repentaglio la propria vita, è riuscito a sottomettere a sé il servo, che è colui il quale a un certo punto della lotta, avendo paura della morte, si è sottomesso al padrone. Ma il servo, attraverso il lavoro, si autodisciplina e impara a vincere la paura e gli altri istinti naturali. Attraverso il lavoro, il servo perviene alla coscienza della propria indipendenza. Il lavoro, infatti, non è qualcosa di istintivo, ma è la razionalità stessa che si incarna nel lavoratore, il quale mediante l’attività lavorativa non consuma né distrugge il proprio oggetto, ma lo trasforma.
Questa sorprendente posizione per un filosofo che passa per essere un conservatore, fu, ovviamente apprezzata da Marx e da molti marxisti. Ma il tema della coscienza, o presa di coscienza da parte del servo che si trasforma in lavoratore conquistando la sua libertà-dignità è possibile ritrovarla anche nel Croce influenzato da Antonio Labriola, giacché per il filosofo italiano se il concetto di classe (operaia, borghese, aristocratica) in sé e per sé presenta una rigidità teoreticamente insostenibile, diventa fondamentale quando si trasforma in consapevolezza del ruolo che il lavoratore svolge nella società, nella capacità di difendere i suoi diritti, la sua dignità. Insisto, della sua libertà.
Ma, per immergersi nella realtà odierna, cosa possiamo dire della situazione del mondo del lavoro almeno nel cosiddetto mondo occidentale? Come ho cercato di mostrare in un mio recente libro, Diseguali, il lato oscuro del lavoro, credo di poter affermare che a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, dopo molti anni di crescenti anche se travagliate conquiste, i lavoratori hanno perso parte dei diritti acquisiti e, ciò che più spaventa, rischiano di perdere il loro stesso stato di lavoratori. Il lavoro, almeno quello tradizionalmente inteso, va scomparendo nell’orizzonte della nostra organizzazione sociale. Un uomo o una donna senza lavoro o con reddito minimo perde la sua dignità, la sua esistenza materiale e spirituale.
Si incrociano e si sovrappongono due questioni, dunque, lo sfruttamento del lavoro e la fine del lavoro tradizionalmente inteso. Vecchio e nuovo si mescolano confondendoci, lasciando spazio a rivolte rabbiose e irrazionali che finiscono col peggiorare la situazione. La rivolta non è la rivoluzione come ci hanno insegnato sia i classici liberali (Tocqueville, Croce) sia quelli socialisti (Marx, Labriola). La rivoluzione prevede un progetto chiaro di nuova organizzazione politica e sociale, la rivolta soltanto un generico ribellarsi allo stato delle cose privo di sbocchi, di costruzione di un nuovo assetto e apre così la strada a continue turbolenze, ad avventurieri che sfruttato le sofferenze e le rabbia per conquistare il potere.
Il neoliberismo economico (che, almeno in alcuni settori della cultura italiana si è imparato a distinguere dal liberalismo etico) con la sua eccessiva fiducia nel mercato come regolatore sia di interessi privati che di giustizia sociale, ha pesantemente stravolto gli assetti sociali dentro e fuori le singole nazioni. Ha generato nuove diseguaglianze fra gruppi sociali e fra nazioni, ha rischiato di rompere lo stesso equilibro ambientale del pianeta. La globalizzazione dei mercati ha, al suo sorgere moderno, migliorato la vita media di milioni di persone in paesi come la Cina e l’India ma da qualche tempo si è trasformata in una sorta di tsunami che travolge il cosiddetto mondo occidentale e sta creando inedite diseguaglianze anche nei paesi che una volta si definivano in via di sviluppo. Un’epoca è finita e non è un caso che nuovi venti di guerra si alzino all’orizzonte.
Un’epoca è finita, quella della fede assoluta nella capacità del mercato di migliorare la vita di tutti. Illusione che nascondeva gli interessi di pochi a discapito dei molti, il privilegio di pochi contro la perdita di dignità dei molti compreso quelli che appartenevano a quella classe media oggi impoverita, quella classe media che assicurava la giusta mediazione fra troppo ricchi e troppo poveri.
Bisogna, dunque, osare, provare ad immaginare nuove politiche, nuovi modelli di sviluppo, nuovi assetti sociali. Non penso ad una visione unica del mondo, ad un nuovo sistema filosofico di tipo monistico, ad un pensiero totalitario, ma ad un cambio di paradigma all’interno del quale ognuno potrà dire la sua sapendo che ogni giudizio è storico, vale per un tempo ma può cambiare con il cambiare della storia. A mio modo di vedere un buon approccio può essere quello di ridare centralità al lavoro, a ricongiungere il mondo dell’interesse economico con quello della dignità umana. Ci può, ci deve soccorrere la tecnologia. Il progresso sempre più rapido e sorprendente della tecnologia può accelerare la crisi distruggendo il lavoro sia materiale che intellettuale (robot, server) oppure aiutarci indicando un nuovo modello di sviluppo, un nuovo modello di relazioni sociali e perfino esistenziali. Mi soccorre in questa analisi il vecchio Keynes che pure non era un economista rivoluzionario e nemmeno un fautore della decrescita felice. In una conferenza tenuta a Madrid nel 1930 dal titolo, Prospettive economiche per i nostri nipoti, scrive: ” Vi sono buoni elementi per ritenere che le rivoluzionarie trasformazioni tecniche, che finora hanno interessato soprattutto l’industria, si applicheranno presto all’agricoltura. Può ben darsi che ci troviamo alla vigilia di un’evoluzione del rendimento della produzione agricola di portata analoga a quella verificatasi nell’estrazione mineraria, nell’industria manifatturiera, nel trasporti. Nel giro di pochissimi anni, intendo dire nell’arco della nostra vita, potremmo essere in grado di compiere tutte le operazioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero con un quarto dell’energia umana che eravamo abituati a impegnarvi.”
Lavorare meno lavorare tutti?
Keynes riteneva che il progresso tecnologico e la migliore organizzazione del lavoro potesse essere a fondamento di una nuova civiltà del lavoro alla quale sarebbe corrisposta anche una diversa qualità della vita. Pensava, con una buona dose di ottimismo, che l’umanità liberata da una parte del lavoro spesso massacrante o privo di soddisfazioni, potesse dedicare più tempo alla creatività, alla cultura, alla vita sociale. Questa sua profezia o speranza non si è certo attuata. Anche se in alcuni settori del lavoro (penso al lavoro collegato al digitale, agli sviluppi della tecnologia telematica), sono venuti segnali interessanti. Vi sono esempi di aziende che hanno organizzato il lavoro in modo diverso, dando più spazio all’organizzazione spontanea dei tempi di lavoro, promuovendo il lavoro da casa, favorendo una intelligente gestione del tempo libero e così via. Nella maggior parte dei casi si è anche potuto rilevare che la produttività è aumentata con il migliorare delle condizioni esistenziali del lavoro.
Ma, sui grandi numeri e soprattutto nella psicologia collettiva l’idea che il lavoro dovesse coincidere con la fatica e il sacrificio, che la quantità del lavoro fosse un metro di giudizio privilegiato per misurare l’efficienza del lavoro stesso è un’idea che è rimasta intatta.
I tentativi compiuti da una parte della sinistra di riproporre la questione della diminuzione dell’orario di lavoro per consentire una ripresa dell’occupazione e per migliorare la condizione dei lavoratori sono quasi tutti falliti di fronte ad una generalizzata mentalità che ha valutato questa posizione come una ingenua ricetta tesa a diminuire la produttività e il profitto da destra o una sostanziale svalutazione del lavoro dalla sinistra riformista.
Sta di fatto che, con buona pace dei liberali alla Keynes e dei neo socialisti radicali, si è imboccato un’altra strada, quella della flessibilità del lavoro intesa nel senso opposto a quello sperato: dalla liberazione del lavoro al profitto ottenuto sullo sfruttamento della forza lavoro. Il risultato è stato quello di vedere aumentare la disoccupazione, diminuire la produttività, mortificare le condizioni dei lavoratori, allargare le diseguaglianze, creare nuove turbolenze sociali, favorire la nascita di movimenti politici irrazionalisti e totalitari che hanno saputo mettere assieme le dispute razziali, le lotte religiose, i risentimenti nazionalisti con il disagio economico e sociale. Una miscela incendiaria pericolosissima.
Lavoro e democrazia
Non sarà soltanto la questione del lavoro a soccorrere la democrazia in crisi, ma sarà certamente centrale se sapremo interpretarla e rinnovare il nostro vocabolario etico e politico. In fondo non è una tematica nuova: la democrazia intesa come regime fondato sul potere del popolo, ossia sul voto popolare, il consenso della maggioranza elettorale, deve essere necessariamente anche democrazia economica, ossia fondarsi su una redistribuzione equa del reddito, della ricchezza prodotta. Deve, naturalmente, essere affiancata dallo Stato di diritto, ossia dalle garanzie delle libertà per chi non vuole o non può soggiacere alla presunta volontà generale espressa dalla maggioranza elettorale. Ma affinché tutto ciò possa realizzarsi è necessario che l’organizzazione della società si modifichi nel divenire della storia e sappia individuare l’emergenza del momento e le soluzioni adeguate.
In questa contingenza storica recuperare la dignità del lavoro può diventare il riferimento politico fondamentale per arginare le diseguaglianze, i nuovi razzismi, le nostalgie totalitarie. Bisogna agire su due fronti, quello della dimensione etica del lavoro e sull’opportunità che la tecnologia offre allo sviluppo materiale e spirituale dell’umanità.
Dall’utilitarismo alla filosofia della libertà
Perché ciò possa accadere è necessario modificare radicalmente il paradigma culturale oggi ancora in parte vincente: quella sorta di neo utilitarismo economicista, o pensiero unico, o neo liberismo che dir si voglia. Il lavoro non può essere considerato soltanto lo strumento per l’arricchimento personale, subordinando qualsiasi altro valore. Se si guarda ai sistemi educativi che da molti anni stanno, a mio modo di vedere mettendo in ginocchio le nostre scuole e le Università e consumando la capacità critica della società, si potrà capire che essi sono strutturati su un modello di filosofia (e di pedagogia) di tipo neopositivista. Un modello per il quale esistono regole oggettive, “scientifiche” oltre le quali non è possibile andare. Il pensiero divergente, per dirla con Foucault o critico per dirla con Benedetto Croce, è un disvalore. Questa concezione del mondo, perché tale è, che non tiene nemmeno conto della nuova epistemologia che ha abbandonato da anni l’oggettivismo, questa concezione è funzionale ad un sistema sociale nel quale il lavoratore è semplicemente uno strumento da utilizzare al meglio per conseguire profitto. I cittadini, dunque, vanno ammaestrati non educati.
Tornare a pensare l’umanità nell’ambito di una filosofia della libertà per la quale l’individuo collabora alla comunità con la sua personale originalità, significa tornare a pensare al lavoro come uno strumento di liberazione dal bisogno e di realizzazione della propria personalità che si esplica attraverso la qualità del lavoro stesso. Non come un mezzo ma come un fine, per ricordare Kant. Un lavoratore umiliato e stressato o, peggio, un uomo o una donna disoccupati, un giovane che non può progettare il suo futuro, sono come privati dell’anima, sono robot umani che entrano in concorrenza con i robot tecnologici. E, alla lunga, perderanno.
La tecnologia, dunque. Nessuna persona dotata di buon senso può pensare di cancellare i progressi della tecnologia ed impedire che se ne compiano di nuovi. Per sorprendenti e sconcertanti che siano come quelli prefigurati nell’ambito della bioetica, della manipolazione del DNA ad esempio. Innanzitutto sarebbe una battaglia persa. Si può rallentare, ostacolare ma non arrestare un processo ormai in atto a livello mondiale. D’altro canto sarebbe da irresponsabili privarsi dei vantaggi (si pensi ai progressi della medicina) che lo sviluppo tecnologico procura. Allora il punto è: è possibile governare la tecnologia? Contenerla nei confini dell’etica e della Politica? E’ questa la vera sfida che dobbiamo accettare. Dal punto di vista che abbiamo scelto possiamo augurarci ci si impegni ad utilizzare la tecnologia per redistribuire il reddito, la ricchezza che lo sviluppo tecnologico produce liberandoci dal lavoro tradizionale ma di cui oggi si giovano solo pochi. Il progresso tecnologico non è un destino che ci condanna alla disoccupazione, alla povertà di massa e, dunque, alla perdita della dignità e della libertà. Compito della politica sarà quello di redistribuire il valore che la tecnica crea, il profitto di cui si giovano multinazionali anonime, pochi privilegiati.
Una comunità di destino
Affinché avvenga il cambio di mentalità che auspichiamo è necessario che si impegnino studiosi e artisti, filosofi e scienziati, che le istituzioni culturali si autoriformino secondo un principio di indipendenza e libertà. E’ fondamentale che nel sistema dell’informazione prendano la parola tutti quelli che non vogliono soggiacere ad un algoritmo, lasciarsi governare dalle regole astratte di un’informazione di fatto asservita o complice del paradigma attuale.
Ma è altrettanto importante, se non più importante, che la questione del lavoro o, meglio, della fine del lavoro tradizionale diventi centrale nella sensibilità e nei programmi delle le formazioni politiche, dei partiti, dei movimenti, dei sindacati e delle associazioni. In questa prospettiva una battagli per la liberazione dal e del lavoro
Non può che essere una battaglia sovranazionale. Nessun movimento dei lavoratori potrà conseguire grandi successi se non troverà il modo di collegarsi con i movimenti presenti in altri paesi. La concorrenza della mano d’opera a basso costo, dei lavoratori sfruttati, delle donne e dei bambini soprattutto, è da tempo sovranazionale e solo forze politiche collegate a livello sovranazionale possono pensare di combattere la concorrenza al ribasso su i diritti fondamentali.
La mia formazione culturale è fondamentalmente fondata sullo storicismo. Il che significa che sono pienamente consapevole che ogni paese, ogni nazione, ogni città ha la sua storia particolare che va compresa, rispettata, assecondata o anche combattuta nella sua specificità. Ma ciò non significa che non esistono valori fondamentali universali, valori che si calano nella storia ma senza smarrire l’essenza. Altrimenti lo storicismo diventa relativismo e scetticismo.
I valori morali sono valori universali che ogni epoca e ogni paese adatta alle condizioni particolari. Se si smarrisce questa dimensione dialettica si smarrisce il senso stesso della vita. Oggi ci troviamo ad affrontare da ogni angolo del mondo la grande questione, ad esempio, della possibile distruzione dell’ambiente in cui tutti viviamo, il nostro pianeta, la Terra. Questione assieme utilitaria ed etica. Questione, non sfugge a nessuno, nazionale e sovranazionale assieme.
E’ in questo orizzonte che vanno affrontati tutti i temi che riguardano gli sviluppo della tecnologia. Sappiamo tutti come oggi è possibile controllare le informazioni a livello planetario e, dunque, interferire nelle scelte elettorali di qualunque nazione attraverso i cosiddetti social network.
E’ naturale, dunque, che l’intreccio indissolubile fra lavoro e tecnologia deve essere affrontato nella consapevolezza della globalizzazione della questione. Bisogna accelerare a livello istituzionale la creazione di sistemi giuridici sovranazionali. Ma poiché sappiamo che le istituzioni giuridiche di per sé valgono solo se hanno un’anima, se sono comunità nelle quali il primato spetta all’etica e alla politica, è necessario che sindacati e partiti si riorganizzino come partiti sindacati transnazionali sulla base si chiare scelte politiche. Difendere il lavoro, la dignità e la qualità del lavoro significa difendere, in questo momento storico, i diritti e la libertà di milioni di uomini e donne. Oggi è difficile difendere in un solo paese la libertà.