Il romanzo di Sergio De Santis indaga sul senso della vita, sulla morte, scandaglia le dinamiche delle relazioni umane.
La navigazione come metafora della vita, fra tempeste ostili e immense distese quiete, fra manovre temerarie e andamento prudente, su imbarcazioni lussuose o zattere di fortuna: siamo tutti marinai destinati a prendere il largo, «se si vuole scoprire come stanno davvero le cose », se si vuole provare a vivere. Destinati a misurarci con le onde galleggiando da soli, consapevoli che «nessuno naviga su un’imbarcazione inaffondabile » e che, prima o poi, le cime vanno tagliate, poiché «nessuna zattera può tenere legati i destini di tutte quelle che incontra». L’importante è saper galleggiare da soli, almeno fino a quando il mare della vita non si sia stancato di noi, legati a tratti, a tratti procedendo affiancati per evitare collusioni, a tratti, ancora, remando in direzione opposta. L’importante è che qualcuno si ricordi di noi, che la nostra vita abbia avuto un senso.
L’ultimo romanzo di Sergio De Santis indaga sul senso della vita, sulla morte, scandaglia le dinamiche delle relazioni umane.
Il suo linguaggio è quello della nautica. Solitudine, incontro e separazione sono centrali nel romanzo e si declinano nelle vicende umane, lavorative e sentimentali del protagonista, Leo, professore di scuole superiori, che ogni mattina cerca di raccogliere e di tener ben strette le cime delle zattere malferme dei suoi alunni: è lui che deve prepararli alla navigazione della vita per quello che è possibile, insegnando loro a guardare a fondo, all’opera viva di ogni imbarcazione, e a non fermarsi alle apparenze.
Le dinamiche dei rapporti umani e sociali sono scandagliati nel romanzo con profondità e lucidità sorprendenti: talvolta il lancio di una cima avrebbe potuto rendere sopportabile la vita, in altre occasioni è necessario troncarla per non essere trascinati alla deriva da chi ormai ha il destino segnato; la diffidenza di qualcuno ci lascia in mare aperto, esposti ai flutti, nei momenti di cupa solitudine; la spontaneità confidente e fragile di altri ci scalda e dà senso alle nostre giornate; la consapevolezza della necessità di tagliare le cime per lasciare che le zattere salpino verso il largo quando il loro momento è arrivato ci consola del distacco.
Questo romanzo di De Santis non è un libro sulla scuola, come potrebbe apparire. Ma la scuola rappresenta uno dei possibili incroci di vite, di speranze, di disillusioni, di sofferenze e di spensieratezza. Come la vita, del resto.
Ma nell’incontro con i giovani, che galleggiano più lievi sulle acque della vita, è forse più facile intraprendere quella seconda navigazione, di platonica memoria, che è quella che Sergio De Santis ha intrapreso e rappresentato con vigore, con ironia, guardando negli occhi la realtà. Al di là delle metafore, se la poesia e l’arte sono autentiche c’è sempre la rappresentazione viva di individui, di vicende profondamente umane.
Ernesto Paolozzi
Da “La Repubblica – Napoli” del 3 maggio 2014 Repubblica archivio