La new economy, il meridionalismo e vecchi pregiudizi
Negli anni Ottanta, quando il dibattito sull’intervento straordinario per il Mezzogiorno si faceva sempre più aspro e poi, via via che cresceva il leghismo, la posizione antinterventista diventava luogo comune intellettuale ( in un salotto intellettuale difendere l’Intervento era come tirarsi giù i pantaloni o mettersi le dita nel naso) fino al totale soffocamento del dibattito, in quegli anni, dicevamo, c’era chi provava ad ipotizzare una diversa forma di intervento dello Stato, che sostituiva quella ormai invecchiata recuperandone le ragioni profonde: quella fondata sull’innovazione tecnologica.
Ma non erano quelli i tempi perché idee non mitologiche potessero far breccia nella discussione pubblica. In quegli anni, per quelle apparenti bizzarrie della storia, si saldavano due esigenze opposte, confluivano in un’unica mentalità collettiva, due opposti partiti: da destra, non sembrava vero ai liberisti antistatalisti di poter dare il colpo mortale ai dirigisti proprio a partire dal debole Mezzogiorno d’Italia ; da sinistra risorgeva con impeto e furore il partito che identificava la questione morale con la questione meridionale, il clientelismo e la corruzione con l’Intervento nel Mezzogiorno.
Posizioni psicologiche che coprivano, senza volerlo, gli interessi di alcuni settori dell’economia del Nord, alcuni settori della politica, le ambizioni leghiste. Il tutto, naturalmente, favorito da un non sempre confessato ( ma confessato talvolta, come nel caso di Giorgio Bocca, oltre che dai leghisti) razzismo antimeridionale al quale non sembrava vero trovare potenti alleati nelle grandi firme del giornalismo e in molti intellettuali ( in buona fede molti anonimi, in cattiva fede i pochi di successo).
Si è consolidata così un’opinione diffusa, un gigantesco luogo comune di cui non si conoscerà mai l’effettiva paternità. Sta di fatto che anche partiti e governi si sono adeguati, giusta la lucida affermazione di Hans Magnus Enzesberger:” Solo quando un’idea ha raggiunto lo stadio della banalità, partiti e governi ne prendono coscienza.”
Oggi sembra che il Mezzogiorno mostri segni di vitalità grazie anche alla cosiddetta new economy, ossia allo sviluppo dell’economia strettamente legato all’uso della tecnologia informatica. Da più parti si prevede o auspica un parziale superamento del gap esistente fra Nord e Sud proprio in virtù di essa. Sembra che alla nuova economia non servano i grandi apparati, i mastodontici sistemi tipici della grande industria di tipo fordista che ha fatto grande il Nord e, soprattutto, il Nord-Ovest. Pare che la creatività e, in certo qual modo, il disordine connaturati alla new economy possa essere congeniale alla mentalità e agli abiti del Mezzogiorno d’Italia.
Francamente, non siamo in grado di essere, su questi temi, sicuri di poter dare un giudizio positivo o negativo in modo netto. Presto, ne siamo certi, quando queste idee avranno raggiunto il grado della banalità, saranno materia di governo, com’è accaduto con l’autonomia scolastica. E’ certo però che, come affermavano i poveri meridionalisti residui negli anni Ottanta, lo Stato, almeno nelle sue articolazioni locali, potrebbe, su questo terreno, cercare di intervenire in supporto di un movimento che è già in atto. I primi dati forniti dal CENSIS mostrano che è avvenuto il contrario. Non vorremmo dover un giorno pensare che per il Mezzogiorno d’Italia lo Stato abbia sempre sbagliato, o per essere intervenuto troppo o per essere intervenuto troppo poco. E questo dall’unità d’Italia, ossia dal 1861, che è la vera questione meridionale.
Ernesto Paolozzi
Dal “Corriere economia” del 22 maggio 2000