Gaetano Di Maio autore di Nino Taranto.
Gaetano di Maio è essenzialmente noto per essere un commediografo di successo, fra i cavalli di razza, se così possiamo esprimerci, del teatro comico italiano. Ha fatto bene, dunque, la sua città a intitolargli una strada.
Ma del di Maio commediografo, discendente da un’antica famiglia di autori e attori, è stato già, ampiamente, scritto sui quotidiani napoletani, all’epoca delle fortunate prime teatrali delle sue commedie, molto spesso replicate per mesi e mesi, tanto era il successo di pubblico che riscuotevano quando egli era in vita ed ancora oggi. Va ricordato solo che egli fu autore di attori che fecero grande e popolare il teatro napoletano, di Nino Taranto, per il quale di Maio negli anni Sessanta scrisse la serie televisiva “Settespiriti”, e poi di Ugo D’Alessio, Luisa Conte, Pietro De Vico, Dolores Palumbo, Gennarino Palombo, Carlo Taranto, Rosalia Maggio oltre ai tanti che ancora oggi calcano le scene dei palcoscenici napoletani ed italiani.
Ma terrei a segnalare, in questa sede, un altro settore nel quale la sagacia comica di di Maio si esercitò con forza e originalità, che è quello della riscrittura di testi classici. Valga per tutti il libero adattamento della Lisistrata di Aristofane, recuperata e riproposta nell’antica, bacchica, vis comica, attraverso un’operazione linguistico-letteraria tesa a trasporre nel più autentico e verace vernacolo napoletano lo spirito vivace, arguto e laico della grecità che bene esso si adatta ad accogliere. Raramente operazioni di questa natura sono approdate a risultati di eguale efficacia.
Sul di Maio poeta, autore in lingua, colto, delicato, amaro, di versi lirici raccolti nel postumo Verranno amici, c’è già una certa letteratura, che ne ha sottolineato aspetti contenutistici e valore stilistico.
Ancora resta da approfondire l’apparente scissione fra l’autore comico e lo scrittore, attonito al cospetto dell’assurdità dell’esistenza, della vita.
Sembra che il suo mondo poetico strida, per così dire, con la perfetta macchina comica che è il suo teatro. E forse stride, come poco decifrabile, del resto, e assolutamente non etichettabile, era la sua personalità di uomo.
Schivo, anche se cordiale nella ristretta cerchia dei pochi amici che frequentava, fu lettore appassionato e critico, e assieme efficace divulgatore, dell’intera storia della filosofia, della letteratura italiana e dei grandi classici della poesia europea. Potrebbe sembrare paradossale, ma il teatro non fu il centro della sua vita, perché la passione reale fu la filosofia, e l’impegno civile che dalla filosofia discende, se ben compresa e interpretata.
Potremmo citare qualche brano di critica letteraria, a testimonianza del valore dei suoi versi. Preferiamo offrire al lettore un ultimo incontro diretto con l’autore, a sipario chiuso, quando il cerone non cela più i lineamenti e non esaspera le espressioni:
Volo di rondini insegue
il vento per cieli di vento.
Così io, solitario,
un’ombra del mio cuore fra le cose
pedinando la luna a tarda sera.
Ernesto Paolozzi
Da “la Repubblica” del 24 marzo 2005 Repubblca archivio