Le origini dell’estetica di Croce*

Pochi filosofi come Croce hanno, per così dire, storicizzato se stessi, per cui può sembrare quasi superfluo o, quantomeno, ridondante tornare sul tema delle origini della sua estetica o anche del suo pensiero in generale.

Eppure, una certa necessità di compiere questo lavoro si avverte. Innanzitutto per contribuire a quella necessaria opera di divulgazione che può sempre avere una utilità almeno per le nuove generazioni o per chi non avesse il tempo e la possibilità di compiere una ricerca fra gli scritti crociani, non sempre tutti facilmente reperibili. In secondo luogo perché è sempre possibile ricostruire una storia “ideale”, non necessariamente coincidente con la genesi storica di un pensiero. Solo in un secondo momento esse confluiranno in un’analisi complessiva della filosofia di Croce che lo stesso filosofo ha compiuto ma che, non per questo, non necessita, quantomeno, di spiegazioni e approfondimenti.

Ma procediamo con ordine e andiamo alle pagine del filosofo che, nel celebre Contributo alla critica di me stesso che rappresenta una sorta di autobiografia spirituale, così chiaramente individua le origini del libro che gli guadagnò il successo in Italia e all’estero: “Ma fu nell’aspro travaglio che, come ho detto, mi costò l’Estetica che io superai per me e da me il naturalismo e lo herbartismo, che ancora mi legavano: superai, cioè, la logica naturalistica mercé quella dei gradi spirituali o dello sviluppo, non riuscendomi in altro modo d’intendere il rapporto di parola e logicità, di fantasia e intelletto, di utilità e moralità; e superai la trascendenza naturalistica attraverso la critica che venni irresistibilmente compiendo dei generi letterari, della grammatica, delle arti particolari, delle forme retoriche, toccando quasi con mano come nello schietto mondo spirituale dell’arte s’introduca la ‘natura’, costruzione dello spirito stesso dell’uomo; e, negata realtà alla natura nell’arte, mi spianai la strada a negargliela dappertutto, scoprendola dappertutto non come realtà, ma come prodotto del pensiero astraente.” (1)

E’ necessario chiarire subito, per il lettore moderno, che nell’uso del termine natura non c’è in Croce nessun intento svalutativo di ciò che oggi s’intende comunemente con esso. Qui natura significa, come ancora nella filosofia classica tedesca, oggetto contrapposto a soggetto, meccanicità contrapposta a creatività. Perciò Croce afferma che la natura, come dato oggettivo, non esiste. Essa stessa è creata dall’uomo nel senso (ovvio per chi studia filosofia) che uomo e natura non sono termini antitetici ma dialettici, ossia reciprocamente necessari l’uno all’altro.

La contestualizzazione di Croce è dunque chiara, ed è evidente che l’influenza maggiore, sul piano squisitamente storico, è rappresentata dall’opera di Francesco De Sanctis perché (e l’intero percorso crociano lo testimonia) se è vero che l’herbartismo, il kantismo, le lezioni di Antonio Labriola e le altre suggestioni si affiancano alle primissime letture desanctisiane, è indubitabile che, sul terreno del gusto, della sensibilità e, vorremmo dire, di una certa affinità psicologica, è l’opera del grande critico irpino che imprime la sua impronta su tutta l’opera del grande filosofo (2).
D’altro canto, è ancora lo stesso Croce, nella sezione dedicata alla storia dell’Estetica che aggiungerà alla parte teoretica, a scrivere: “L’autonomia dell’arte ebbe invece in Italia una sincera affermazione nell’opera critica di Francesco de Sanctis.” (3) Affermazione che, per chi conosce il pensiero di Croce, è di capitale importanza, essendo infatti la sua estetica fondata sull’iniziale e imprescindibile riconoscimento della categorialità dell’arte, ossia della sua autonomia dalle altre forme dello spirito, o della storia, ciò che significa anche coglierne la distinzione pur nella necessaria unità dialettica con le altre forme della vita.

In questo senso l’Estetica è già un abbozzo (ma forse qualcosa di molto di più) della futura logica. Potremmo addirittura dire che è già la logica in atto, prima ancora che venisse formalizzata e ulteriormente argomentata nel celebre, posteriore, volume.

Per Croce, De Sanctis, passato attraverso un’iniziale hegelismo, si allontana, con gli anni, definitivamente dall’estetica intellettualistica e contenutistica del grande filosofo tedesco per dare vita ad un’estetica della forma che è, in realtà, nel pensiero del grande critico, un’estetica dell’inscindibile, sintetica, unità di contenuto e forma. Naturalmente, chiarisce Croce, in De Sanctis non c’è traccia di un sistema filosofico in senso classico: il suo pensiero, infatti, lo si ricostruisce attraverso le tante affermazioni sparse qua e là nei saggi critici, nell’opera e nell’esperienza di critico militante che fu la vera natura dell’autore della Storia della letteratura italiana. “Paragonato, scrive Croce, ai pochi estetici filosofi, il De Sanctis appare manchevole nell’analisi, nell’ordine, nel sistema; impreciso nelle definizioni. Pure, questo difetto è ampiamente compensato dal contatto continuo in cui egli tiene il lettore con le opere d’arte reali e concrete, e dal sentimento del vero che mai non l’abbandona. E serba poi, continua, l’attrattiva di quegli scrittori i quali, oltre ciò che essi danno, additano e fanno intravvedere nuove ricchezze da conquistare. Pensiero vivo, che si rivolge ad uomini vivi disposti a elaborarlo e continuarlo” (4).

Ma sarebbe profondamente anticrociano e, riteniamo, oggettivamente lontano dalla realtà considerare il pensiero di un filosofo o l’opera di un qualunque studioso strettamente e quasi meccanicamente legata ai suoi predecessori e non, invece, alle condizioni storiche, culturali, politiche ed anche socioeconomiche di una data epoca. Un filosofo vuol rispondere ai problemi della sua epoca, alle polemiche e discussioni del momento storico in cui vive, e ciò facendo può o può non riferirsi ad altri, alla storia passata e trovare in essi spunti e suggerimenti per cercare di risolvere quelle che poi appaiono, e per certi aspetti sono, questioni universali.

Per comprendere dunque l’importanza attribuita alle “eterne questioni” dell’autonomia dell’arte, della creatività, della poesia, del rapporto fra forma e contenuto, del valore dei generi letterari o delle divisioni delle arti, bisogna tener presente che, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo, sia sul versante puramente filosofico che su quella della critica letteraria, dominava, sia pure parzialmente e con mille sfumature, la mentalità positivistica, che quelle questioni risolveva secondo criteri e metodi completamente diversi. E’ l’accenno che Croce fa, nelle pagine citate del Contributo, al naturalismo e al meccanicismo. (5)

Sappiamo quanto il filosofo avversasse i tentativi di estendere il metodo delle scienze empiriche, della scienza classica di origine newtoniana a tutte le altre forme dello spirito, per usare una terminologia allora in voga, e quanto questa pretesa gli sembrasse ancor più assurda se tendente a invadere il campo della poesia. Se sul piano squisitamente filosofico Croce tendeva a dimostrare l’assoluta, reciproca, autonomia di scienza e filosofia cercando di ricostruire, sulle fondamenta della filosofia classica, una logica precipua della filosofia, anche sul terreno della critica letteraria egli avversò ogni tentativo di sostituire ad un metodo l’altro. Sarebbe un’operazione indebita quella di collegare strettamente l’attività dei critici letterari dell’epoca al positivismo. Ma è fuori dubbio che anche i letterati furono, in qualche misura, influenzati dalla nuova tendenza filosofica. Ma al di là della filiazione diretta, che andrebbe provata e dimostrata, certo è che anche la cosiddetta scuola storica di origine carducciana, imperniata come fu, essenzialmente, sul filologismo congiurava a creare quel clima per cui la critica desanctisiana, la cosiddetta critica estetica, era stata, per molti aspetti, messa al bando. Eppure De Sanctis era stato il critico che più degli altri aveva sempre avuto, forte e schietto, il senso della storia. Ma qui per storia, in quell’epoca, s’intendeva qualcosa di diverso da ciò che il critico irpino prima e Croce poi vollero intendere. Se per i filologi bisognava rimanere strettamente legati al dato storico, al fatto ( e di qui la stretta parentela con il positivismo) quel dato storico, quel fatto, per De Sanctis e per Croce, non andavano di certo ignorati o sottovalutati, ma interpretati, con ciò riprendendo la grande lezione vichiana per cui verum et factum convertuntur e filosofia e filologia geminae ortae.

Ma, se queste, sommariamente descritte, sono le condizioni storiche e psicologiche nelle quali il giovane Croce si trova a vivere e se i riferimenti prossimi della sua estetica e della sua critica sono non solo le teorie filosofiche più accreditate o le poetiche dei maggiori poeti della letteratura italiana ed europea, vi è una genesi, un’origine del pensiero teoretico di Croce che abbiamo definito, per approssimazione ideale ma che, in effetti consiste nel recupero, che egli compirà nel tempo, della più grande tradizione, a suo dire, dell’estetica moderna e contemporanea. Da questo punto di vista, i due autori fondamentali sono Kant e Vico, e, accanto ad essi, Baumgarten, Fiedler, Schleiermaker e, via via, altri filosofi e poeti, come Baudelaire e Flaubert le cui suggestioni, nel lungo itinerario crociano, s’incroceranno con le sue meditazioni e riflessioni.

Sono questi i veri precursori di Croce? Qui vale l’avvertimento, peraltro di umore crociano, del poeta argentino Luis Borges, che afferma che ogni pensatore, od ogni artista, crea i suoi precursori, e non viceversa. E’ questo il caso, naturalmente, di Croce, e a maggior ragione di Croce perché il filosofo teorizzò la contemporaneità di ogni storia, ossia l’origine soggettiva di ogni interpretazione.

Nella sezione dell’Estetica, che Croce dedica alla storia dell’estetica, c’è un indubbio apprezzamento della posizione di Kant e del suo predecessore Baumgarten ma il giudizio non è ancora, definitivamente e, vorremmo dire, completamente, positivo. E’ inutile dire che Croce pone a serrata critica gli aspetti intellettualistici o empiristi presenti nei due autori, nel generale wolfismo arida eredità di Leibniz e, nel filosofo che definisce empirio-critico, ossia Kant, egli rinviene alcuni elementi di sicura modernità. Non nella teoria generale dell’arte o nell’ Estetica trascendentale, ma in pensieri, per così dire, sparsi, nella valutazione che il filosofo di Konigsberg compie del concetti di bello ma ancora separato da quello dell’arte.

“La fantasia, scrive Croce, caratterizzatrice o qualificatrice, che è la qualità estetica, doveva prendere, perciò, nel libro Critica della ragion pura, il posto occupato dalla trattazione dello spazio e del tempo e costruire la vera Estetica trascendentale, prologo alla Logica. Così il Kant avrebbe inverato il Leibniz e il Baumgarten, e si sarebbe incontrato con Vico.” (6). Col che, sia detto di sfuggita, si testimonia, come abbiamo talvolta cercato di dimostrare, l’equidistanza di Croce fra puro idealismo e puro empirismo, essendo per lui l’origine della conoscenza nell’individualità e non nell’idea, nell’esperienza individuale intesa però come attività e non come passività gnoseologica.

Ma è con la Critica del giudizio che si compie ancora un ulteriore passo, allorché Kant, secondo Croce, si sbarazza dei sensualismi e degli intellettualismi in voga al suo tempo con l’affermare che è bello ciò che piace senza interesse o che è bello ciò che piace senza concetto (7) e, ancora, prosegue Croce, sono da tenere in conto le definizioni che Kant riferisce non all’arte, ma al giudizio estetico: “E’ bello ciò che ha la forma della finalità, senza la rappresentazione del fine. E’ bello ciò che è oggetto di un piacere universale.” (8) Ma manca, secondo Croce, una determinazione rigorosa di questo giudizio nell’ambito di una più generale filosofia della conoscenza, per cui Kant gli appare ancora avvolto da un certo misticismo, un misticismo non entusiasta, non convinto, ma non per questo meno dannoso.

E’ qualche anno più avanti, e precisamente nel 1907, che Croce, a proposito della prima traduzione italiana della Critica del giudizio, chiarirà definitivamente il suo debito con Kant. Scrive infatti: “Ma io ora voglio pormi in un punto di vista più modesto e, per così dire, più contingente; e domandare, non tanto quel che la Critica del giudizio significhi nella storia delle idee estetiche, quando piuttosto la precipua utilità che da essa si può cavare nelle condizioni presenti della nostra cultura. Voglio considerarla come medicina mentis, e indicare contro qual morbo serva da farmaco efficace.” (9) Ed è facile capire qual è il morbo che Croce intende combattere: il positivismo, l’empirismo estetico, il contenutismo o come altro si voglia dire. E Kant diventa il teorico, sia pure per certi aspetti ancora incerto, dell’autonomia dell’arte. Il filosofo tedesco non dubiterà più, scrive Croce, “che il dominio estetico non si può confondere né col logico né col pratico, e molto meno con la categoria psicologica del cosiddetto piacevole.” E, continua Croce, “Ai malanni del relativismo e positivismo estetici la Critica del giudizio si oppone, e si opporrà sempre, come rimedio di effetto sicuro.” (10)

Ma l’autore di Croce per eccellenza rimane Giambattista Vico. Perché Vico, com’è noto, è il filosofo della storia, è il primo ad introdurre con piena consapevolezza l’idea che filosofia e storia si spiegano vicendevolmente, sono anzi, per certi aspetti, identificate anche se di un’identificazione dialettica, come con chiarezza e maggior precisione affermerà Hegel, l’Hegel dell’universale concreto. Così come per Kant, anche per Vico potremmo distinguere due momenti essenziali del confronto con Croce. Nella prima fase del suo pensiero, il filosofo tedesco pone l’estetica all’origine del suo sistema filosofico non intendendo con ciò, come si è detto, collocare l’arte all’origine della conoscenza. Però, ed è qui una prima vicinanza al pensiero crociano, egli, pur identificando la conoscenza con la soggettività, ne colloca l’iniziale fondatezza nell’individualità e non nel concetto o idea. Ciò che in Croce, appunto, sarà l’identificazione dell’arte come forma aurorale della conoscenza o come conoscenza dell’individualità, fermo restando, naturalmente, il rapporto inscindibile fra esperienza e giudizio. Anche Vico sembra procedere allo stesso modo. Scrive nella famosa LIII Degnità: “Gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura.

“Questa degnità è il principio delle sentenze poetiche, che sono formate con sensi di passioni e d’affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocini: onde queste più s’appressano al vero quanto più s’innalzano agli universali, e quelle sono più certe quanto più s’appropriano a’particolari.”

Vico così sembra, sia pure, come lo stesso Croce afferma, fra tanti ripensamenti e a volte palesi contraddizioni, superare già il problema di Kant il quale, si è visto, solo nella Critica del giudizio riconsidererà la questione aprendo la strada all’estetica moderna.

Non è un caso che Croce, nell’Estetica , inizi il lungo capitolo dedicato a Vico con un’affermazione che non dà luogo ad equivoci: “Il rivoluzionario, che, mettendo da parte il concetto del verisimile e intendendo in modo nuovo la fantasia, penetrò l’indole vera della poesia e dell’arte, e scoperse, per così dire, la scienza estetica, fu l’italiano Giambattista Vico.” (11)

Così il filosofo della storia è anche il filosofo “scopritore dell’estetica” e, con ciò, colui che apre veramente la strada alla filosofia moderna intesa alla maniera di Croce. Certo, Croce sottolinea come spesso, in Vico, i due momenti, della filosofia e della storia, più che unificarsi dialetticamente sembrano giustapporsi o distinguersi arbitrariamente. Da un lato la poesia appare come una eterna categoria dello spirito, che vive solo nella sua concreta storicità, altrove appare storicamente determinatasi in un’epoca, con ciò perdendo forza e universalità. Ma, in fin dei conti, afferma Croce, nel succo del pensiero vichiano, è facile rinvenire il germe della moderna filosofia una volta scoperta l’autonomia del mondo estetico, scoperta “dovuta al genio di Giambattista Vico”.

E non cambierà idea, Croce, negli anni successivi. Cosicché ribadirà, nel classico La filosofia di Giambattista Vico: “L’estetica è da considerare veramente una scoperta del Vico: sia pure con le riserve onde s’intendono sempre circondare tutte le determinazioni di scoperte e di scopritori, e quantunque egli non la trattasse in un libro speciale, né le desse il nome fortunato col quale doveva battezzarla, qualche decennio più tardi, il Baumgarten.”(12)

L Estetica Croce

Non c’è dubbio dunque che, se sul piano della filiazione storica, è De Sanctis l’autore di Croce per eccellenza, sul piano ideale rimangono Kant e Vico, e soprattutto Vico, i punti di riferimento essenziali (con Hegel naturalmente) per l’intero suo sistema filosofico ma soprattutto per quanto riguarda l’estetica. Ma è evidente che il recupero della storia e della tradizione non si arresta qui e tanti altri sono i filosofi o gli artisti che Croce recupera, collocandoli all’origine ideale del suo pensiero. E fra questi, fondamentale, sulla scia delle prime meditazioni di Leibniz, Baumgarten, cui spetta il titolo d’onore di aver usato per primo il termine estetica in senso moderno, ossia riferito alla filosofia dell’arte e non solo a quella dell’esperienza. Nel saggio Rileggendo l’ ‘Aesthetica’ del Baumgarten, del 1932, che amplia e riconsidera quello pubblicato nella prima Estetica, scrive: “Se anche il Baumgarten avesse errato nel venir poi a determinare quel che è il proprio della poesia, resterebbe sempre che egli intravide, presentì o indovinò, e affermò, che la poesia ha qualcosa di originale e bisogna perciò assegnarle una posizione indipendente e una scienza corrispondente, e, per bene fermare questo punto, conferì a questa scienza un nome che le fosse proprio, il quale le rimase acquisito. Ma, in verità, il Baumgarten (…) fece di più, e determinò la sfera estetica come una sfera teoretica e una sfera teoretica anteriore idealmente a quella logica o intellettiva.” (13)

Questi dunque i momento fondamentali di quella che potremmo definire l’ideale origine del pensiero estetico di Croce. Ma non vi è dubbio che sulla sua formazione e maturità influirono altri e spesso poco noti autori e che, soprattutto, lo stesso Croce, nel ripercorrere la storia della formazione del concetto dell’arte, recuperò e qualche volta “scoprì” autori generalmente poco, o quasi per niente considerati, dalla storiografia tradizionale. E’ il caso di Fiedrich Schleiermaker, che occupa un ruolo fondamentale nella Storia dell’estetica di Croce. Croce tornerà, come è suo costume, sull’interpretazione dei filosofi a lui più vicini, cercando di conferire loro un “posto” adeguato nella storia del pensiero. E così, nel 1933 (14), conclude il suo saggio: “I pensatori non si giudicano da quel che in essi permane di vecchio né dalle contraddizioni in cui incorrono, ma dai nuovi problemi che pongono e risolvono, dai nuovi concetti che definiscono. E di problemi e di concetti nuovi non pochi lo Schleiermaker offerse alla filosofia moderna, non solo nelle sue indagini di etica, ma anche in queste di estetica; le une e le altre, ma più le seconde, non tenute dagli studiosi di filosofia nell’alto pregio che meritano.” (15)

E almeno un’altra “scoperta” va ascritta al merito precipuo di Croce, ed è quella della teoria della pura visibilità del Fiedler, autore non sistematico, né filosofo puro, ma acuto e originale pensatore. Occupandosi in particolare di questioni di arti figurative, egli intravide, secondo Croce, la moderna teoria dell’arte come autonoma rispetto alle altre forme dello spirito, dell’arte come forma della conoscenza pre-logica. (16).

Se volessimo cercare un filo rosso che attraversi i filosofi citati e renda organico il riferimento costante di Croce ai suoi autori, ai suoi ideali predecessori, questo è senz’altro quello che identifica il concetto dell’arte come forma autonoma della conoscenza. E’ questo il nodo centrale che Croce tenterà di sciogliere negli anni della sua formazione e che diventerà, in seguito, il nucleo attorno al quale ruoteranno gli altri fondamentali concetti dell’estetica crociana. Se l’arte è autonoma, vuol dire che fonda la sua ragion d’essere, la sua “necessità” perché essa s’identifica con la conoscenza dell’individuale, senza la quale nessun’altra conoscenza, nessuna azione, sarebbero possibili. Vuol dire, ancora, che essa non è immediatamente etica, non è immediatamente utilità, non è pensiero. E quindi qualsiasi giudizio si voglia dare su di un’opera, deve essere dato in base a questa sua specificità: poco importa, ai fini del giudizio estetico, se essa esprime un concetto morale o immorale, se è politicamente scorretta o corretta, se serva o non serva a qualcosa, se sia vera o falsa secondo il criterio della filosoficità o della scientificità.

Ma, naturalmente, l’arte non è priva di moralità, non è inutile e non è falsa. Perché la sua autonomia è una distinzione, non una opposizione. L’arte non è morale, ma non è nemmeno immorale. E’, per così dire, al di là del bene e del male nel senso più vero e autentico di questa affermazione. Essa è morale in quanto è una riuscita espressione dello stato d’animo con il quale un poeta, un’artista o un uomo qualunque, rappresenta e conosce il mondo nelle sue manifestazioni individuali, ossia senza preoccuparsi di darne una ragione, senza porre relazioni, senza valutarlo nella sua storicità. L’arte è utile perché tutto ciò che la storia produce è, in qualche modo, utile, ma la sua specifica utilità non va ricercata al di fuori di se stessa, ossia della soddisfazione dell’espressione artistica.

Che poi le opere d’arte, la storia dell’arte, possano essere utilizzate come oggetto di studi storici, sociologici, psicologici, politici e così via, è altro discorso: a nessuno è vietato interpretare la Divina commedia per cercare di comprendere la vita e i costumi di una certa fase del Medioevo; non è vietato leggere il decadentismo francese per cercare di penetrare il proprio di quell’epoca o anche per individuare dei tratti psicologici specifici di un gruppo di uomini o di particolari donne, di bambini, e così via. Il punto è non confondere tutto ciò con il giudizio estetico, che è come dire evitare di creare una gran confusione.

L’estetica di Croce, dunque, rappresentò lo sforzo di chiarire, distinguere, argomentare tutto quanto concerne il mondo dell’arte, una particolare ma essenziale regione dell’essere che andava identificata e liberata da pregiudizi ed equivoci. Distinzione ed argomentazione puramente filosofiche, perché Croce non intendeva e non intese mai concepire una nuova poetica, ossia formulare un’estetica prescrittiva che consigliasse o inducesse, in qualche modo, poeti ed artisti a seguire particolari regole precetti. L’estetica di Croce anzi, nel mentre affermava un chiaro e preciso concetto dell’arte, cercava di combattere tutte le astratte regole delle antiche estetiche, delle vecchie poetiche, delle retoriche, delle grammatiche, e così via. Ma, nell’avvertenza alla V edizione dell’ Estetica, egli stesso determina le origini e lo sviluppo del suo pensiero: “Il nervo di questa prima trattazione consisteva nella critica, da una parte, dell’Estetica fisiologica, psicologica e naturalistica in tutte le sue forme, e dall’altra, dell’Estetica metafisica, con la conseguente distinzione dei falsi concetti, da esse forgiati o avvalorati, nella teoria e nella critica dell’arte, contro i quali faceva trionfare il semplice concetto che l’arte è espressione, espressione, ben inteso, non già immediata e pratica, ma teoretica, ossia i n t u i z i o n e. Intorno a questo concetto chiaramente stabilito, e che non ho avuto mai ragione alcuna di abbandonare perché mi si è dimostrato saldo e duttile, non cessai da allora in poi di lavorare col determinarlo in modo più esatto; e i due principali svolgimenti che ne ho dati sono: 1) la dimostrazione del carattere lirico dell’intuizione pura (1908); e 2) la dimostrazione del suo carattere universale o cosmico (1918). Si potrebbe dire che il primo si rivolge contro ogni sorta di falsa arte, imitazionistica o realistica, e il secondo contro la non meno falsa arte di sfrenata effusione passionale o romantica che si dica.”

Note

1) B.Croce, Contributo alla critica di me stesso, Adelphi, Milano, 1989, p.55. Si confronti inoltre, E.Paolozzi, Benedetto Croce. Logica del reale e il dovere della libertà, Cassitto, Napoli, 1998, e Paolo Bonetti, Introduzione a Croce, Laterza, Bari, 19

2) Cfr: Ernesto Paolozzi, Vicende dell’estetica, Loffredo, Napoli, 1989 e V.Stella, La trasparenza del valore, Bibliopolis, Napoli, 1998

3) B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Laterza, Bari, 1909, p.413

4) Ibidem, p.425

5) Cfr. G. Gembillo, Filosofia e scienze nel pensiero di Croce, Giannini, Napoli, 1984

6) B.Croce, Estetica, cit.,p.319

7) Su questo tema sarebbe utile rileggere le pagine di Rosario Assunto, un acuto e originale critico troppo frettolosamente accantonato, nelle quali l’autore, opportunamente, collega il giudizio disinteressato di Kant sia all’estetica sia alla libertà, poiché il giudizio estetico, in questo senso, fonda, per certi aspetti, la libertà e, com’è ovvio, trova la sua possibilità di esistenza soltanto nella libertà. Disinteresse significa infatti liberazione dalla meccanicità, dalla pura determinazione e non disinteresse in senso psicologico, ossia non interesse per la vita morale, politica, etc. Fra i tanti scritti di Assunto, fondamentale è Libertà e fondazione estetica, Bulzoni, Roma, 1975.

8) B. Croce, Estetica, p.320

9) B. Croce, Saggio sullo Hegel, Laterza, bari, 1967, p. 326

10) Ibidem, p. 326

11) B. Croce, Estetica, cit., p. 247 e segg.

12) B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Laterza, Bari, 1997, p.52

13) B.Croce, Ultimi saggi, Laterza, Bari, 1963, p. 89

14) B. Croce, Storia dell’estetica per saggi, Laterza, Bari, 1967

15) Ibidem, p. 213

16) Si confronti B.Croce, La teoria dell’arte come pura visibilità, in Storia dell’estetica…, cit. L’intera opera di Carlo Ludovico Ragghianti, fra i maggiori critici d’arte italiani, si sviluppa, non casualmente, come prosecuzione del pensiero di Croce e della dottrina di Fiedler.

Ernesto Paolozzi

* In via di pubblicazione