L’individuo fra temporalità e storicità (di Lea Reverberi)

“…il soggetto non è un’essenza, non
è una sostanza, ma non è un’illusione.”
(E.Morin)

Introduzione

Il tema della individualità o, meglio, il problema dell’individuo, è oggi tornato attuale sotto ogni profilo, dalle prospettive più lontane. Innanzitutto sul piano politico o, se vogliamo, etico-politico. L’individualismo politico di origine liberale era stato, negli anni Sessanta e Settanta, quasi del tutto accantonato dal dibattito politico corrente e sembrava, in quegli anni, che tutto dovesse ruotare attorno ai concetti di collettività, comunità, Stato, società, uguaglianza, e così via. Chi difendeva le ragioni dell’individuo era generalmente isolato dal dibattito pubblico o considerato una sia pure nobile minoranza destinata ad essere superata dalla storia.
Con la crisi delle filosofie collettivistiche, se così possiamo chiamarle e, ancor più, con la crisi politica delle nazioni e degli Stati che si erano, sia pure impropriamente, riferiti ai sistemi filosofici totalizzanti, il tema dell’individuo e del suo rapporto con la società è ritornato alla ribalta e, negli ultimi anni, è ridiventato centrale anche sul terreno strettamente politico. Anzi, per taluni aspetti, l’individualismo liberale si è perfino troppo accentuato in alcuni settori della cultura ma, lo ribadiamo, soprattutto della cultura politica anche se nel nostro paese, l’Italia, meno che in altri.
Da qui l’urgenza di ritornare a discutere della tematica provandoci, naturalmente, ad uscire dal terreno strettamente politico per cercare di ritrovare le ragioni più strettamente filosofiche e storiografiche della questione.
D’altro canto, il tema dell’individuo non è, naturalmente, mai scomparso dal dibattito filosofico. Anzi, a partire dall’esistenzialismo degli anni Cinquanta a tutt’oggi, è sempre stato un punto di riferimento fondamentale del dibattito filosofico anche se, come si è detto, in alcuni periodi è rimasto nell’ambito della filosofia, della letteratura, delle arti, senza avere quell’impatto sul terreno sociale che ritorna ad avere soltanto oggi.
Chi può confessare di non aver mai provato lo sgomento che nasce di fronte alla percezione della fragilità e quasi dell’inconsistenza del nostro essere al cospetto dell’immensità della storia? Chi, almeno una volta nella vita, non ha sentito il malessere della propria impotenza di fronte al “corso degli eventi” che, pure, avrebbe voluto contribuire, in qualche modo, a deviare, modificare? Chi non è mai stato assalito dallo smarrimento e dall’angoscia della libertà, che accompagnano nel suo cammino, ogni essere umano?
Sono, tutti questi, i temi fondamentali connessi al problema dell’individualità che la nostra ricerca si è proposta di analizzare da un particolare punto di vista.
Il punto di vista che si è scelto è quello che considera l’individuo, la sua dimensione e il senso della sua esistenza, tra la temporalità e la storicità. Ci è sembrato che, considerata nella mera dimensione temporale, l’individualità non ha speranza, né conforto, né sostanza. E’ nulla più di un punto solitario su un grafico cartesiano che registra lo scorrere del tempo. Se la storia, nella quale ogni essere umano si trova a vivere è mero divenire, mero scorrere dei minuti e delle ore, all’individuo, rifiuto del tempo, non resta altro che aprirsi all’angoscia e alla desolazione accogliendole come la natura più intima e profonda del proprio essere. Il mito di Sisifo, come intuì Albert Camus, rappresenta la sua unica, vera e desolante condizione.
E’ allora nell’orizzonte della storicità che ci è sembrato dover collocare l’individualità ma non senza prima definire quell’orizzonte, nelle sue caratteristiche e nel rapporto che l’individuo intesse con esso. L’individuo, dunque, che si è andato definendo, è un individuo che vive nella storia nel senso che opera in essa aprendosi ad essa in una dimensione dialettica.
La storia, dunque, e l’individualità, come due facce della stessa medaglia. Non l’individuo-sostanza, la cui difesa non approda a risultati vantaggiosi, non la storia come ciò che scorre, sia pure pregna di senso e di finalità, sopra ed oltre e incurante degli individui. Piuttosto l’individuo etico, che tesse la storia, personale e dell’umanità, e che in essa, concepita come totalità organica, trova senso e conforto.
La ricerca si è articolata intorno a due momenti salienti della riflessione sull’individualità, che abbiamo cercato di tenere in costante relazione: lo storicismo assoluto di Croce e il tentativo, che Carlo Antoni condusse, di reinserire sul tronco di quello storicismo le esigenze del giusnaturalismo, sia pure di una particolare concezione del giusnaturalismo.
Se, infatti, come lo stesso Antoni costantemente riconosce, la filosofia crociana rappresentava il momento più alto raggiunto dalla riflessione sull’individualità, pure in essa riaffiorava talvolta il teleologismo hegeliano, lasciando insolute domande pregnanti e inappagate profonde esigenze umane.
Carlo Antoni, come altri studiosi della sua generazione, si trovava a riflettere negli anni a ridosso della inumana tragedia dei totalitarismi e della guerra mondiale. Sentiva pressante il bisogno di rifondare la possibilità stessa della speranza per il genere umano. Sentiva che quella libertà, di cui era impregnato l’intero sistema crociano, doveva farsi valore forte e guida dell’agire umano. Cercava, in altri termini, un fondamento filosofico che, pur tenendo ferme le conquiste teoriche ed etiche compiute dallo storicismo, ponesse, al contempo, riparo al relativismo di cui lo storicismo stesso si era reso colpevole.
Sono gli anni nei quali Primo Levi si domanda se possa considerarsi un uomo il prigioniero che vive l’oltraggio dei lager, Francesco Flora pubblica La città di Caino, Guido De Ruggiero fonda, con Adolfo Omodeo ed altri, il Partito d’azione e pubblica Il ritorno alla ragione; sono gli anni nei quali il vecchio filosofo Benedetto Croce sembra incupirsi di fronte alla verde e cruda vitalità, vera anima della umana natura.
Gli esiti ai quali Carlo Antoni perviene hanno il merito indiscutibile, oltre a quello di aver sollevato in maniera mai banale il problema, di aver creato una prospettiva nuova e seriamente preoccupata, nella quale collocare il pensiero Croce. Se oggi molti interpreti e lettori delle pagine crociane riescono ad avere una visione più meditata e consapevole della intera tematica, crediamo che di ciò si debba riconoscere il merito proprio allo studioso triestino, alla generosa e garbata tenacia della sua ricerca, alla sua sensibilità morale, alla sua intelligenza.
Il nostro studio si è articolato in due momenti. Il primo è stato dedicato alla riflessione sull’individualità: l’individuo nel mondo dell’arte, l’individuo nella filosofia hegeliana, la cattiva difesa che dell’individualità tentano le filosofie dell’esistenza, l’individuo nel pensiero di Benedetto Croce.
Da questa prima parte della nostra analisi è emerso che solo il mondo dell’arte è, per l’individuo, il mondo dell’assoluto, il regno dove l’individualità vive incontrastata. Nell’armonia del bello sembrano sanarsi tutte quelle lacerazioni di cui si compone la nostra vita terrena. Ciò è possibile grazie al fatto che la conoscenza intuitiva non è una forma di conoscenza relazionale, non pone il suo oggetto al centro del mondo di relazioni in cui tutti noi viviamo. Qui l’individuo regna su di un universo privo di contrasti, e perfino la sofferenza, il dolore, gli insulti non sembrano insidiare ed offendere l’umana condizione, non stridono perché aderiscono appieno alla sua natura. Oltre il mondo dell’arte l’individuo si confronta con l’altro da sé e si esprime nella storia.
Nella filosofia hegeliana, nella quale la storia non è cieco divenire, l’individuo acquista una sua collocazione ed una importante missione: è l’universale che, per vivere, deve concretizzarsi, farsi uomo. Ma di questo Universale, del suo disegno, gli uomini sembrano essere schiavi: se esso conferisce loro un orizzonte di senso, perché ogni cosa nella storia risponde alla sua finalità, non è a caso, dall’altra parte esso piega gli individui alla sua ragione, ne fa strumenti della sua astuzia. E’ il progresso lineare, figlio della hegeliana dialettica degli opposti, che finisce col calpestare l’individualità che, eroicamente, è destinata a soccombere.
Estranea all’incombere del progresso, al farsi della storia secondo un telos, immersa nel cieco e straniante divenire, non è più dignitosa la sorte dell’individuo quando questi rifiuti l’orizzonte etico dell’impegno e si rassegni a rimanere chiuso nella propria finitudine, che è angoscia, sofferenza, cupa e disperata assenza di senso. Collocata nell’orizzonte dell’assurdità, la dimensione umana è irrimediabilmente compromessa, destinata allo scacco assoluto compendiato dalle parole di Camus secondo le quali l’assurdo è “un peccato senza Dio” e nemmeno il suicidio può riscattare l’umana esistenza percepita come insensatezza contro la quale ci si può soltanto rivoltare privi di speranza.
Nella speculazione crociana l’individuo viene identificato con l’opera, che è il luogo della relazione che egli ha con il tutto. Ma vi sono alcuni punti della teoria crociana dell’individuo, che sembrano riportarci a posizioni simili a quelle hegeliane. La libertà sembra talvolta farsi necessità dettata dalla condizione storica, per cui l’individuo non sceglierebbe ciò che vuole ma ciò che deve. L’opera va assumendo i contorni di ciò che segna non tanto la presenza dell’individualità quanto una sorta di suo totale alienarsi e perdersi nell’universale divenire. La responsabilità, che è l’altra faccia della libertà, viene negata e ciò che resta dell’individuo sembra talvolta soltanto la mera natura vitalistica e cieca. La storia, infine, si fa accadimento, e sfugge definitivamente alla possibilità e al controllo umani.
Ci si è allora soffermati, nella convinzione che la teoria dell’individuo sia legata all’orizzonte filosofico generale in cui essa viene espressa, ad analizzare i concetti di categoria interpretativa e di potenza del fare, di storicità e realtà, di verità, di rapporto teoria prassi, di contemporaneità della storia.
La riforma crociana della logica e la teoria della distinzione hanno condotto la storia e l’individuo sullo stesso piano, in un rapporto inscindibile nel quale non vi è traccia dell’hegeliana destinalità. E’ l’individuo che tesse la storia futura, e la tesse con la tela che il passato, di cui la condizione reale è frutto, gli fornisce. Futuro e passato, per avere un senso, devono congiungersi: il significato del passato vive solo a patto che dal presente lo si evochi mentre il futuro si costruisce solo a patto che il passato dia ad esso luce, criterio, appiglio. L’individuo è il nucleo che dà senso al divenire, perché in esso il circolo teoria-prassi, che è il luogo del divenire, si realizza, conferendo unità al tempo, permettendo che il passato s’intrecci all’azione futura e diventino un tutt’uno organico, nel quale ogni accidente si fa, a pieno titolo, sostanza.
La seconda parte del nostro studio si apre con Carlo Antoni e l’apologia dell’individuo che egli tenta.
Facendo proprio l’orizzonte filosofico che Croce aveva delineato con il suo storicismo assoluto, il pensatore triestino muove garbatamente al suo maestro alcune obiezioni. Prima fra tutte quella legata al rapporto fra individuo ed opera. Antoni, rifiuta l’idea che, una volta entrata nella storia, l’opera perda qualsiasi legame con il suo artefice. L’individuo è, secondo Antoni, l’unità dell’insieme delle opere, piccole e grandi, che egli compie.
In un altro momento della sua speculazione, il pensatore triestino interpreta lo storicismo crociano come l’unico storicismo che, pur polemizzando, come gli altri storicismi, con l’astrattezza del Diritto naturale, abbia accolto l’istanza giusnaturalistica del valore dell’uomo come luogo e fonte del valore. La proposta di Antoni si articola sulla teoria del circolo teoria-prassi. Quando indaghiamo il passato mossi da un’esigenza del nostro presente, desumiamo da esso un’idea della natura umana che ci spinge ad oltrepassare la nostra condizione di fatto e a farci interpreti di quell’ideale nell’impegno etico e politico, ad agire secondo quel valore.
Nel capitolo conclusivo, partendo dall’approfondimento dei concetti crociani di volizione individuale, o opera, e di accadimento, e dalle riflessioni condotte da Raffaello Franchini sull’argomento, abbiamo provato a proporre, sulla scia di tali riflessioni, una lettura dell’individualità come componente di una totalità, si direbbe con linguaggio più moderno di una complessità, la quale, senza gli individui che ne tessono dall’interno la trama, non sarebbe possibile come tale. Né la somma degli individui, infatti, né quella delle loro opere potrebbe dare luogo ad una totalità organicamente unitaria, ossia ad una sintesi.
La filosofia crociana della circolarità dello spirito, dell’unità del reale, impone un’ultima regola: che dalla circolarità non si esca. Può l’individuo, una volta affermato il suo legame intrinseco con la storia, oltrepassare quel legame, tirandosi fuori dalla propria dimensione, scindendo nuovamente quanto tale legame, tanto faticosamente, aveva congiunto? Ogni individualità è il frutto, il risultato, del processo storico che è giunto sino a lui ma è anche soggetto di quel processo che, da altro punto di vista, vive grazie all’opera dell’individuo, che opera al suo interno. Così ciò che sembra effetto si tramuta in causa, per usare una vecchia e superata terminologia, e la causa si fa effetto in un perenne, inestricabile intreccio. Universale e individuale, storia ed individualità, scissi secondo una logica astratta che riduce un termine all’altro, e che non riesce ad identificarne la natura e il valore, vivono solo nel rapporto in cui il prodotto è sempre, nello stesso tempo, anche il produttore.
E’ forse questa prospettiva, alla quale il pensiero crociano è pervenuto negando la logica che potremmo definire riduzionista per affermare una logica della circolarità, l’eredità più significativa che il grande filosofo lascia alla riflessione dell’uomo contemporaneo perché si faccia interprete e artefice di quella universalità tutta affidata alla concretezza del proprio essere.

CAPITOLO I

L’individuo oltre il tempo e le relazioni

“La conoscenza ha due forme: o è conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti.” (1)
E’ questo il celebre incipit dell’Estetica di Benedetto Croce, nel quale è già in nuce gran parte della posteriore meditazione del grande filosofo.
Se si riflette attentamente, in queste poche righe è contenuta, in qualche modo, l’enunciazione del problema dell’individuo. E si tratta di un’enunciazione di metodo. Un conto è, infatti, riflettere sull’individuale, sulle “cose singole”, altro è tenere presente l’individuo “nelle sue relazioni”. A questa prima distinzione, in maniera quasi speculare, ne corrisponde un’altra, per cui l’individualità nella propria finitezza esistenziale, insieme di passioni, rimpianti, affanni, illusioni, miserie, speranze, rimorsi, gioie e dolori, è un qualcosa che coglie l’intuizione, mentre l’individualità nelle sue relazioni, nell’incontro-scontro con altre individualità, nelle opere e nelle azioni nelle quali si realizza, nell’orizzonte storico, politico e culturale nel quale è immersa, è un qualcosa che un altro tipo di conoscenza solo può cogliere, e questa è una conoscenza di tipo logico che ricorre, per potersi attuare, a categorie e concetti universali.
Croce affermerà che l’arte, ossia la conoscenza dell’individuale attraverso l’intuizione, è ciò che dà vita al mondo dell’individuo, mentre la conoscenza storica, che è capace di collocare l’individuo nel suo tempo e nel divenire di tutta la storia, è conoscenza dell’individuale attraverso la ragione, una ragione dialettica, complessa, relazionale, circolare e non lineare, comprensiva del mondo intuitivo ma da questo distinta. (2)
In maniera certamente schematica, ma utile alla comprensione di ciò che intende dire, il filosofo precisa: “Che cosa è la conoscenza per concetti? E’ conoscenza di relazioni di cose, e le cose sono intuizioni. (…) Le intuizioni sono: questo fiume, questo lago, questo rigagnolo, questa pioggia, questo bicchier d’acqua; il concetto è: l’acqua, non questa o quella apparizione e caso particolare, ma l’acqua in genere, in qualunque tempo e luogo si realizzi; materia d’intuizioni infinite, ma di un concetto solo e costante.” (3)
Croce specificherà più avanti il legame fra concetti ed intuizioni, fra universale e individuale, ricorrendo alla teoria dei gradi, per cui il secondo implica il primo e non viceversa. A questo punto della maturazione del suo pensiero, occorre segnalare che Croce non aveva pienamente elaborato la distinzione, sul piano dei contenuti, fra arte e storia, distinzione che si chiarirà più tardi, dopo una prima identificazione teorizzata con La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte.
Così, mentre l’intuizione non esprime giudizi ma rappresenta l’oggetto intuito, ne tratteggia il carattere, le inclinazioni, i difetti e le doti, costruendogli intorno un mondo che dia al meglio vita all’immagine, per così dire ferma nel tempo, che quell’oggetto le ispira, la ragione provvede a rintracciare le orme delle sue azioni e, poco interessata alle motivazioni personali che le hanno ispirate, ne valuta la portata storica, ossia relazionale, inserita nella realtà complessa di cui quelle azioni entrano a far parte.
Vedremo più avanti che Croce negherà valore all’idea che l’opera sia espressione dell’individuo che l’ha compiuta. Tale negazione assume diverse sfumature e tonalità, e mentre talvolta (4), come nel caso in cui l’opera viene definita la sola individualità concreta, sembra aderire ad un hegelismo radicale che richiama alla mente le pagine che il filosofo tedesco dedica all’eroe cosmico-storico, talvolta si presenta invece solo quasi come una esortazione a non perdesi dietro ricerche che, in definitiva, hanno scarso interesse. Certamente bisogna precisare che non è pensabile poter risalire, con procedimento meccanico e certo, all’autore partendo dal dato delle sue opere perché queste lo trascendono sempre e, soprattutto, che non si comprende a cosa servirebbe infine un simile esercizio. Ciò che va detto è che ogni opera, una volta realizzata, vive nel mondo, si concede al mondo, si confronta col mondo, si confonde con esso, si perde in esso e ciò che interessa è seguirne il cammino intricato e non andare a ritroso come se si stesse svolgendo un processo indiziario.
E’ dunque l’arte il mondo dell’individualità (5). Di quell’individualità che sempre, prima o poi, ritorna a reclamare una sua propria dignità esistenziale, un suo proprio valore “sostanziale”, un senso intrinseco e, per così dire, assoluto, al riparo dalle critiche, dalle interpretazioni e dalle sentenze degli altri, al riparo dalle offese alle quali l’esistenza ci espone, al riparo, se si vuole, dalla vita stessa.
Il dramma dell’individualità è proprio in ciò: ci si domanda cosa mai siamo, ciascuno di noi, al di là di essere figli, fratelli e sorelle, genitori, amici, discenti o docenti e così via; cosa valgano le nostre azioni al di là del giudizio degli altri; cosa sarà di noi oltre il ricordo che lasceremo nei nostri cari, al di là dell’orma, più o meno profonda, che sapremo imprimere nel cammino percorso durante la nostra vita terrena. E’ il dramma di chi anela a sottrarre l’individualità al giudizio, al dibattito, all’invadenza oltraggiosa degli altri individui. E’ il dramma del destino che l’umanità e la storia riservano al piccolo mondo che ciascuno reca in se stesso e che si vorrebbe proteggere da chi e da tutto quanto per quel mondo non nutre affetto, al quale non usa cura o riguardo. E’ il dramma rappresentato dal Pirandello più pensoso, dramma amaro, insoluto perfino nella rappresentazione artistica di una realtà che resta, infine, lacerata e mai ricomponibile.
E’ il dramma che ha spinto l’umanità a cercare conforto nelle religioni, nel dialogo fiducioso con un padre amorevole e comprensivo, nei miti, nelle filosofie; è il dramma che ha indotto gli uomini a consegnare all’arte il loro desolato lamento al cospetto del nulla di cui sentono consistere la loro fragile, fugace, eppure palpitante e amata esistenza.
La fragilità dell’individuo non è legata solo alla sua natura di essere mortale. Non è solo l’angoscia della morte, che ci attende in fondo al cammino, a consumare i nostri giorni. E’ la vita stessa, se ben si riflette, un qualcosa di minaccioso, pronta ad invadere i nostri tenui ripari e a fare saccheggio del nostro stesso essere. E’ l’incalzante travaglio che, a simbolo di ogni mortale esistenza, affronta il pastore leopardiano prima che l’orrida morte gli si pari dinanzi a reclamare quanto è, da sempre, stato suo: “per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,/al vento, alla tempesta, e quando avvampa/l’ora, e quando poi gela,/corre via, corre, anela,/varca torrenti e stagni,/cade, risorge, e più e più s’affretta,/senza posa o ristoro,/lacero, sanguinoso…”
Il dramma del contrasto fra l’individuo e la vita che incombe ad ogni istante come una minaccia è, ancora, rappresentato con scarna essenzialità, nel paragone col lombrico, la cui disarmata inconsistenza non vale a disarmare un nemico ignoto che è sempre in agguato: “Puoi essere un lombrico/ e vivere sotterra/ più nascosto dei morti./ Qualcuno sempre ti scaverà/ e ti metterà nudo sopra l’erba/ a torcerti al sole.” (6) Non è corretto, per quanto più volte con forza e fermezza sia ritornato sul tema per dichiararlo infine filosoficamente insussistente, affermare che Croce neghi valore esistenziale a tutto ciò. Il punto è che tutto ciò conserva una pregnanza esistenziale alla quale non può dare, se si preferisce non riesce a dare, la filosofia, una risposta in termini positivi, vale a dire non nichilistici, non irrazionalistici, non metafisici. Le filosofie dell’individuo hanno finito troppo spesso col nuocere alla causa dell’individualità (7), approdando all’unica risposta possibile quando l’individualità si vorrebbe, di fatto, ipostatizzata o, come dice Croce, quando si sia scaduti in forme di “personalismo deteriore”: quella del nichilismo nel quale ogni speranza naufraga senza rimedio.
Poter suggerire una risposta in termini non nichilistici non è indifferente giacché aprire la strada al nichilismo o all’irrazionalismo, o al misticismo, implica, sul piano morale, legittimare l’indifferentismo, l’incomunicabilità, alla fine l’atto gratuito. Non è un caso che il filosofo abbia dichiarato, discorrendo del personalismo che i “soli che abbiano trattato con serietà il movimento esistenzialista sono i cattolici, che l’hanno tirato a conclusioni cattoliche…” (8) Ma,se sul piano di una razionalità positiva non sembra potersi dare risposta, il mondo dell’arte, così come ci sembra delineato da Croce, sembra prestarsi ad accogliere l’anelito verso l’assoluto (che non è identificabile solo con l’immortalità) che anima ognuno di noi.
Sembra poterlo accogliere perché quello dell’arte è il mondo dell’assoluto, il paradiso terrestre che lo scorrere del tempo non offende e non minaccia, non consuma e non affanna. E’ il luogo in cui le delusioni non sembrano deludere, le lacerazioni non sembrano lacerare, la stessa morte non sembra uccidere e nullificare. E non perché l’arte sia il luogo delle favole belle, prive di affanni e di lacerazioni. Non perché, frutto della fantasia, esso sottragga e ripari dall’insulto di una realtà cruda e rapace. (9) Il dramma della vita umana è rappresentato in ogni sua sfumatura nelle opere d’arte, che non si limitano a mettere in scena l’idillio né un mondo incantato e irreale di pace e serenità. Ma proprio perché ciò che il poeta ritrae e immortala ad un tempo è l’anima stessa, potremmo dire, dell’individuo che ha in mente e che ha eletto a protagonista della sua opera e, finché vive in quell’opera, non sembra provare dissidio con le vicende che vive. Il mondo di quell’individuo si tinge dei colori che colorano le sue immagini, si riempie degli oggetti che affollano la sua esperienza, delle persone che racchiude nel suo cuore, delle vicende che si alternano nella sua esistenza. I colori, gli oggetti, le persone, le vicende non hanno invaso e oltraggiato il suo animo e i suoi giorni, ma sembrano essere state create per lui, solo per lui, dal poeta, cupi o luminosi che siano i colori, amati e cari o aborriti gli oggetti e le persone, liete o dolorose e amare le esperienze. Nel mondo dell’arte non sentiamo contrasto fra i personaggi, le loro esistenze e le vicende di cui queste si riempiono. Anche la sofferenza più atroce sembra appartenere all’intimo più rarefatto di un certo personaggio, e il lettore non se ne sente offeso, mentre l’esistenza continuamente sembra minacciare la nostra vita, oltraggiare il nostro animo, erigendosi a giudice impietoso del nostro stesso essere.
In altre parole, nel mondo dell’arte la storia, la vita, non sdoppiano l’orizzonte individuale, non si impongono, non invadono, non lacerano. Si percepisce anzi il sapore di una assoluta composizione, di una perfetta identità.
Ci sembra interessante, a questo proposito, riportare quanto afferma Edgar Morin allorché, affermando la necessità di un’etica della comprensione, distingue fra comprensione oggettiva (che in termini crociani equivarrebbe alla conoscenza empirica o astrante) e comprensione soggettiva, che consente di “comprendere ciò che vive l’altro” nella percezione della “nostra comune umanità”. Per meglio chiarire in cosa consista la comprensione soggettiva, Morin si rifà all’esperienza artistica, cinematografica o letteraria, perché, afferma, “ci risveglia alla comprensione dell’altro”. E scrive: “Siamo capaci di comprendere e di amare il vagabondo Charlot che disdegniamo quando lo incrociamo per strada. Comprendiamo che il padrino del film di Coppola non è solamente un capo mafioso, ma un padre, animato da sentimenti affettuosi per i suoi. Proviamo della comprensione per i carcerati mentre, fuori dal cinema, non vediamo in loro che dei criminali giustamente puniti. La letteratura, continua Morin, il romanzo, ci permettono di comprendere Jean Valejan e Raskolnikov perché sono descritti nel contesto delle loro esistenze, con la loro soggettività, con i loro sentimenti.” (10)
Nel mondo dell’arte, dunque, l’invadenza dl mondo sembra sopirsi, mentre si fa spazio, ed esprime tutta se stessa, l’individualità nella pienezza della propria essenza.
Ne La poesia, a proposito della possibilità della rievocazione e della tendenza, da parte della critica, alla storicizzazione dell’arte, Croce, prendendo ad esempio l’antica poesia greca e romana, afferma che non è necessario, per interpretarla, ricorrere a quelli che dovevano essere i sentimenti greco-romani giacché “quei concetti e sentimenti, e tutta la realtà di cui facevano parte, sono stati nella poesia trasfigurati e hanno perduto l’impronta storica e unilaterale per ricevere impronta umana e onnilaterale”. E poi, per precisare meglio il suo pensiero, il filosofo scrive: “L’episodio di Ettore e Andromaca e quello di Nausica e dell’isola dei Feaci non si svolgono in Grecia o in altra parte della terra, né in un particolare momento del tempo, ma in un paese ideale e in un tempo eterno.” (11)
Anche nell’orizzonte dell’arte l’individuo vive nel mondo e nel tempo. Non si tratta, come Croce avverte più volte, di un individuo astratto, falso. Non è infatti l’individuo come mero particolare l’oggetto della nostra ricerca: non è, abbiamo detto, il fratello, il vecchio, l’avaro, l’invidioso, il pavido. Tutto il mondo intero vive e palpita con l’individuo nel mondo dell’arte, un mondo intero creato per lui. E il suo animo si compone di tutte le umane sfumature. L’intero universo si raccoglie nelle pagine, nel marmo, nel bronzo, sulle tele, sui fotogrammi e fra le note delle opere d’arte. “In ogni accento del poeta, in ogni creatura della sua fantasia, c’è tutto l’umano destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori e le gioie, le grandezze e le miserie umane, il dramma intero del reale, che diviene e cresce in perpetuo su sé stesso, soffrendo e gioiendo”. (12)
Vi sono altri luoghi, nell’estetica crociana, che sembrano affermare l’assoluta, inviolabile coerenza di cui si costituisce il mondo dell’arte. Il concetto di unità di contenuto e forma, che Croce mutua dall’estetica di Francesco De Sanctis o, che è lo stesso, quello di identità di intuizione ed espressione, l’esortazione a scrivere “per saggi” le storie dell’estetica, la negazione della rintracciabilità di un progredire dell’arte che non sia un progredire ed un raffinarsi di tecniche e strumenti, la totale libertà lasciata all’artista rispetto a qualsivoglia elemento tecnico o stilistico, e, ancora, il concetto di rievocazione dell’opera d’arte, sono tutti elementi dell’estetica crociana che sembrano, in certo qual modo, dar conforto al pensiero che tutto il mondo al quale l’individuo anela in quanto individuo egli lo trova nella sfera dell’espressione artistica, sfera che, come abbiamo detto, Croce tenta di mettere al riparo da ogni interferenza, per così dire, esterna. Solo qui le lacerazioni che l’uomo avverte di vivere si ricompongono e ogni esistenziale stridore sembra farsi musica, armonia.
Fuori dall’orizzonte dell’arte l’individuo è costretto a fare i conti con la storia e con la tirannia del tempo; è costretto a misurarsi col mondo e con le sfide che, di continuo, deve affrontare e vincere, finché ha vita, per vivere ed avere senso. E non può, hegelianamente, saltare mai oltre la propria ombra. Fuori dal mondo dell’arte la vita è percepita come lacerazione, mancanza, e le risposte degli uomini devono farsi sagaci, consapevoli, non elusive, coraggiose. Giustificare le loro debolezze nel mondo della prassi, come lasciarli nell’incoscienza della propria natura non giova alla loro causa anzi le nuoce.

Note

1. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Laterza, Bari, p.4
2. Si confronti, soprattutto, oltre all’Estetica, la Logica come scienza del concetto puro, Laterza, Bari, 1905 -1909
3. B. Croce, L’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, cit, p. 27.
4. Si confronti il saggio crociano L’individuo e l’opera, in Etica e politica, Laterza, Bari, 1927
5. Carlo Antoni, nel suo volume Lo storicismo, ERI, Torino, 1968 (1957), a proposito della filosofia crociana, afferma che qui l’ arte è concepita “come intuizione della vita nella sua individualità”. Legando questo concetto dell’arte alla rivalutazione dell’individuo contro la ragione astratta dell’Illuminismo scrive: “Lo storicismo nelle sue origini settecentesche, in quanto rivolta al razionalismo, aveva fondato l’estetica, come teoria dell’originalità e spontaneità dell’arte, fuori di ogni regola sancita dall’intelletto. Croce, con il suo libro, Estetica, ha rivendicato la dignità dell’arte contro quel positivismo, che pretendeva applicare ad essa i metodi della psichiatria, ma, mantenendo fermo il principio dell’equilibrata distinzione, ha evitato l’estremismo romantico, quell’estensione dell’arte a tutte le forme dell’esistenza”. (p.186)
6. Gaetano di Maio, Inizio di dramma, in Verranno amici, Palomar, Bari, 1994, p. 48
7. Si confronti Carlo Antoni, Una cattiva difesa dell’individualità, in La restaurazione del diritto di natura, Nella sua polemica contro la difesa che le filosofie dell’esistenza tentano dell’individuo, Carlo Antoni assume spesso toni molto duri. Si rimanda, oltre al saggio citato, a quelli raccolti, a cura di Michele Biscione, nella sezione dedicata all’esistenzialismo ne Il tempo e le idee, ESI, Napoli, 1967.
8. B. Croce, Nuove pagine sparse, Laterza, Bari, 1966, p. 292. Si confronti anche il carteggio che Croce ebbe con Maria Curtopassi, Dialogo su Dio, a cura di Giovanni Russo, Archinto, Milano, 2007.
9. Si confronti A. Parente, La terza scoperta dell’Estetica crociana, dialettica delle passioni e suo superamento nell’arte, in Croce per lumi sparsi, La Nuova Italia, Firenze, 1975. Parente riprende qui gli spunti fondamentali dell’estetica crociana come superamento del sentimentalismo pratico nella rappresentazione conoscitiva dell’individuale che è l’arte. Ma prova ad allargare la questione all’intero metodo filosofico, per cui il superamento del sentimentalismo diventa anche la possibilità che nell’arte si superi la dialettica di fondo del mondo della prassi, che è generata dalla opposizione generale di piacere e dolore. Superamento, naturalmente, non significa appagamento o mortificazione delle passioni. E’ un superamento che avviene, infatti, nella sfera conoscitiva, che non pregiudica, letteralmente, in alcun modo, il libero dispiegarsi della prassi nella quale appunto la dialettica fra piacere e dolore vive e vivrà per sempre costituendone la dimensione stessa.
10. E. Morin, Etica, Cortina, Milano, 2005, pp.107-108)
11. B. Croce, La poesia, Laterza, Bari, 1966 (1936), p.77
12. B.Croce, Aesthetica in nuce, Laterza, Bari, 1928, p. 126. Si confronti la teoria della comicità dell’arte espressa da Croce nel saggio del 1920 Il carattere di totalità dell’espressione artistica e approfondita nell’Aesthetica in nuce del 1928. Partendo da questo tema, uno studioso americano, G. N. Orsini, nel volume L’estetica e la critica di Bendetto Croce, Ricciardi, Milano, 1976, ipotizza una sorta di platonismo crociano dopo la fase realistica, per così dire, del primo Croce.

CAPITOLO II
L’individuo fra universalità e particolarità

L’individuo in Hegel: dalla coscienza infelice all’eroe cosmico

Che il problema dell’individualità sia problema vero e sentito è testimoniato dal fatto che da sempre l’uomo si interroga su quale sia il valore dell’individuo e quali relazioni egli abbia nei confronti del tutto, dell’assoluto. E’ questo il nucleo del problema: in questa relazione, in questo rapporto, avvertito sovente come lacerazione altra volta come intrinseca unità, fra individualità ed universalità che si situa il senso stesso dell’umana esistenza. E si può essere certi che nessuna delle diverse risposte che i filosofi hanno tentato nel tempo sia stata priva di tormento come di dolorosa e profonda meditazione. Da queste dipende infatti la risposta alla domanda fondamentale, ossia se la vita valga la pena di essere vissuta o se, ciascuno di noi, subisca l’esistenza come un’imposizione priva di senso.
La posizioni simbolicamente più rappresentative perché, in certo qual modo, antitetiche, sono da un lato quella che potremmo individuare nella teoria hegeliana dell’individuo, secondo la quale questi ha senso solo nell’ambito dell’universalità, e dall’altro quella che potremmo identificare genericamente con la sensibilità esistenzialistica, che si rifiuta di riscattare l’insensatezza connaturata all’umana esistenza nel più vasto ambito della eticità perché disinteressata a rintracciare fuori dell’individualità stessa la sua ragion d’essere.
In Hegel , come è noto, la concezione dell’individuo si inscrive pienamente sulla sua concezione della dialettica, secondo la quale individuale ed universale, presi per se stessi, sono due astrazioni, due antitesi astratte, mentre l’unica concretezza è l’universale concreto, unità vivente di finito e infinito.
Questo brano, tratto dalle Lezioni sulla Filosofia della Storia offre una sintesi accettabile di ciò che per Hegel fosse il valore dell’individuo: “…quando si è parlato, in generale, dell’attuazione del fine della ragione per opera degli individui, il lato soggettivo di questi – cioè il loro interesse, quello dei loro bisogni e istinti, del loro parere e giudizio – è stato designato come il lato formale, ma insieme come tale che ha un infinito diritto a dover essere soddisfatto. Quando parliamo di un mezzo, ce lo rappresentiamo anzitutto come qualcosa di meramente esteriore rispetto al fine, di non partecipe ad esso. Ma di fatto già le cose naturali in genere, anche la più vile cosa inanimata, che venga usata come mezzo, dev’esser di natura tale da corrispondere al fine, deve avere in sé qualcosa che l’accomuni con esso. In quanto mezzi per il fine della ragione gli uomini si trovano meno che mai in quella situazione affatto estrinseca. Non solo essi soddisfano, con quel fine e in occasione di esso, ai fini, differenti da quello nel contenuto, della loro particolarità, ma hanno anche p a r t e in quello stesso fine della ragione, e sono perciò fini a sé stessi -fini a sé stessi non solo formalmente come ciò che è vivente in genere, la cui stessa vita individuale, secondo il suo contenuto, è già qualcosa di subordinato alla vita umana e vien quindi giustamente sfruttata come mezzo: gli uomini, gli individui sono invero f i- n i a s e s t e s s i anche secondo il contenuto del fine. In questa determinazione cade, appunto, ciò che esigiamo sia escluso dalla categoria del ‘mezzo’: moralità, eticità, religiosità. Fine a se stesso l’uomo è solo mercé il divino che è in lui – mercé quello che da principio è stato chiamato ragione, e, in quanto questa è in sé attiva e autodeterminantesi, libertà.”
La storia del mondo progredisce dunque sulle gambe degli individui, responsabili, nella loro libertà, del bene e del male del mondo perché in sé portatori del bene e del male. “E noi diciamo, continua infatti Hegel, che appunto religiosità, moralità, ecc. hanno qui il fondamento e la fonte, e perciò stesso, sono elevate di per sé al disopra dell’esteriore necessità e accidentalità. Ma occorre non dimenticare che qui noi parliamo di esse solo in quanto esistono negli individui, in quanto dunque sono affidate alla libertà individuale: e in questo caso è c o l p a degli individui stessi l’indebolimento, la corruzione e la perdita del senso religioso e morale.”
L’uomo, l’individuo, ha dunque una missione: la sua esistenza non è mera casualità, nonsenso. Ed infatti Hegel: “Il suggello dell’alta e assoluta missione dell’uomo sta in ciò, che egli s a quel che è bene e quel che è male, e che parimenti gli appartiene la v o l o n t à di compiere l’uno o l’altro…” (1)
Ma, per tornare al nostro problema iniziale, in che rapporto sono il bene individuale e quello universale? Hegel non lascia adito a dubbi: essi coincidono e, quando non dovessero coincidere, egli è certo su quale sia il vero bene: “Ma, considerando, in complesso il destino che hanno nella storia la religione, il costume, la moralità, non dobbiamo abbandonarci alla litania delle lamentazioni, deplorando che spesso, o addirittura nella maggior parte dei casi, le cose vanno male nel mondo per i buoni e pii, e bene, invece, per i cattivi e malvagi. Questo ‘andar bene’ significa, di solito, cose molto varie: anche ricchezze, onori esterni, e simili. Ma quando si tratta di ciò che è fine in sé e per sé, allora questo cosiddetto ‘andar bene’ o ‘andar male’, concernente singoli individui, non può essere elevato a momento dell’ordine razionale del mondo. Con più diritto che quello della sola fortuna, della felicità di singoli individui, si esige, dal fine del mondo, che fini buoni, morali e retti trovino con esso e in esso esecuzione e assicurazione.” E precisa ancora: “Ciò che rende gli uomini moralmente scontenti (di una scontentezza di cui traggono vanto) è il fatto che essi hanno in mente fini più universali nel contenuto, che per loro rappresentano il giusto e il buono…”(2)
In altre pagine, anche più note, Hegel parla dello Stato, nel quale solo l’uomo trova la razionalità della propria esistenza. “Ogni educazione, scrive, tende a che l’individuo non rimanga qualcosa di soggettivo”. In altre descrive ciò che definisce l’ “individuo cosmico-storico” che sembra, romanticamente, essere vittima ed artefice al tempo stesso del compiersi della storia. Artefice perché è grazie a lui che la storia si compie, vittima perché egli compie ciò che deve essere compiuto, “fa quel che va fatto”, è spinto irresistibilmente a compiere la sua opera e spesso, portato a compimento ciò che doveva, questo eroe muore. Ma il suo fine e quello della storia coincidono in un’unità inscindibile che solo gli interpreti meschini non riescono a comprendere. “Cesare doveva compiere quel che era necessario per rovesciare la decrepita libertà; la sua persona perì nella lotta, ma quel che era necessario restò: la libertà secondo l’idea giaceva più profonda dell’accadere esteriore”, scrive Hegel, perché l’idea “paga il tributo dell’esistenza e della caducità non di sua tasca, ma con le passioni degli individui.” (3)
L’individuo, dunque, che, in quanto insieme di passioni e inclinazioni soggettive è natura, per un altro verso è fine in sé, luogo del valore, votato all’alta missione di intessere di quel valore e con quel valore la storia, responsabile del destino dell’umanità, arbitro del bene e del male. Ma anche l’individuo che, fuori dello Stato, non possiede vera realtà, che fuori dello Stato si fa coscienza infelice, l’individuo che “fa quel che va fatto”, ciò che l’idea, o spirito, o storia, gli richiede, gli ordina di fare, l’individuo che, come Cesare, in ultimo sacrifica se stesso fino a perire nel nome della causa che abbraccia.
Vedremo più avanti che anche in Croce sembra esservi un’oscillazione fra momenti nei quali, per così dire, la storia prevale sugli individui e momenti nei quali l’individuo occupa pienamente il centro della scena. Va in ogni caso chiarito che il punto che distingue in modo netto e definitivo la visione crociana da quella hegeliana in merito alla relazione individuo-storia, non è tanto o soltanto il valore che l’individuo acquista nelle loro speculazioni quanto piuttosto l’idea di svolgimento storico che i due filosofi vengono formulando nei loro sistemi filosofici. Se infatti per Hegel lo svolgimento storico avviene in senso rettilineo, secondo una necessità intrinseca e incontrovertibile, per così dire, in Croce non è detto neanche che sia lecito parlare di svolgimento storico, dal momento che la sua concezione della storia è molto più simile al bergsoniano elan vital che non quella delle cosiddette filosofie della storia. (4). Pur senza mai approdare a forme di nichillistica negazione di un orizzonte di senso, la storia dunque, in Croce, perde, come l’universo, qualsiasi possibilità di riferimenti precisi, qualsiasi spinta verso un fine, qualsiasi possibilità, di conseguenza, di interpretazione univoca del suo svolgersi. Ne discende necessariamente la piena libertà (e responsabilità) del giudizio come dell’azione individuali. Dove però piena libertà non significa arbitrio, e in ciò egli si distingue anche dalle filosofie irrazionalistiche o nichilistiche.

Una cattiva difesa dell’individualità

Se, con Hegel, si ritiene essere riusciti a trovare un fondamento che non solo giustifichi l’esistenza umana ma che ne indichi con forza la necessità e l’importante missione, forti di una teleologia che assicura all’universo nella sua unità e totalità un fine da attuare, resta chi, a cominciare da Kierkegaard, non si rassegna a dover ricorrere alla storia che si svolge verso un fine posto sopra gli individui, che risolva fuori della mera individualità, nel suo operare, il dramma dell’esistenza. A tale espediente, essi preferiscono affrontare lo scacco definitivo, la negazione della possibilità stessa di un riscatto. Costoro hanno rimproverato ad Hegel, e alla posizione che egli rappresenta, di aver reso l’individuo un mero strumento della storia, le cui finalità soggettive sono sacrificate sull’altare del necessario divenire dello spirito, la cui astuzia fa “agire per sé le passioni”.
“Una grande figura, che procede innanzi, scrive Hegel con bella immagine a proposito dell’individuo cosmico-storico, calpesta più di un fiore innocente” (5).
I filosofi dell’esistenza rimproverano, in altre parole, al filosofo di Stoccarda di accettare l’individuo solo a partire dal momento in cui il nucleo stesso dell’individualità, il suo cuore pulsante e vitale, viene negato, per usare il linguaggio hegeliano, “calpestato”. Nella loro concezione individualità e universalità si scindono nuovamente e l’universalità è un Dio lontano dall’individuo, che vive nell’angoscia la sua irrimediabile lacerazione esistenziale.
La nostra ricerca non si propone un’analisi approfondita dell’esistenzialismo nelle sue diverse versioni. Il tema scelto, infatti, mira all’analisi dell’individualità all’interno dello storicismo e all’interno di tale tradizione, in sostanza, si prova ad identificare un ruolo forte, centrale, fondamentale per esso. Ci limiteremo, dunque, a tenere presente la posizione esistenzialista nella sua generalità, nella sua sensibilità che si ribella, e si contrappone per certi versi, allo storicismo. Lo faremo seguendo il ragionamento che Carlo Antoni condusse dal momento che la nostra analisi si articola intorno alle riflessioni che il pensatore triestino dedicò, in molti anni di studio, al tema dell’individualità.
E’ infatti Carlo Antoni a parlare di “cattiva difesa dell’individualità” a proposito dell’esistenzialismo. La sua analisi parte dall’accostamento della concezione hegeliana a quella kierkegaardiana. Hegel, sostiene Antoni, nega di fatto l’immortalità dell’anima individuale, concepita unicamente come “concetto animatore e organizzatore del corpo”. Kierkegaard, che rifiuta la negazione dell’immortalità dell’anima, non approda però ad un concetto dell’individuo troppo dissimile da quello hegeliano. Il filosofo danese aveva “il vecchio senso luterano della natura irrimediabilmente malvagia dell’uomo (…) E tuttavia era proprio questa individualità che egli voleva salvare”, afferma Antoni. (6)
L’individualità nella sua intima essenza, nella sua esistenzialità è in Kierkegaard, come in Hegel, coscienza infelice, “ansia, scrive ancora Antoni, di ricongiungersi all’Infinito e all’Eterno: è angoscia dinanzi all’abisso del nulla, che è però già un avvicinamento all’Essere.” (7)
Alla base della concezione hegeliana, dell’esistenza vi è infatti una metafisica simile, come vedremo, a quella kierkegaardiana. “L’esistenza era un’alienazione nello spazio e nel tempo, dice Antoni di Hegel, una proiezione ed estrinsecazione. Donde la necessità del finale ritorno dell’individuo nella Sostanza, dove viene a cessare l’infelicità della coscienza che, distaccata, avverte il proprio nulla e tende a ricongiungersi con l’Assoluto, con l’Essere in sé. Questa metafisica ontologica è parimenti alla base del concetto di esistenza in Kierkegaard, continua lo studioso triestino. Anche qui l’esistenza è un emergere dall’Essere compatto, un suo proiettarsi fuori di sé nello spazio e nel tempo. (…) Anche qui, conclude, la libertà, in quanto sforzo vano di arbitraria autonomia dell’individuo, è il male.” (8)
L’individuo Kierkegaardiano avverte il senso del peccato che è già un momento preliminare alla redenzione, annuncio e presentimento della vita morale che non riesce, però, a irrompere nella sua pienezza lasciando perciò l’individuo nella sua totale e disperata finitudine. L’angoscia esistenziale apre all’Essere, ma non è ricongiungimento all’Essere; rende possibile il senso della Grazia ma non è la Grazia che resta, infine, un qualcosa di esterno all’individualità. Il senso del peccato e l’angoscia è già sforzo di liberazione dal peccato, attesa della Grazia, ma la redenzione, ed è questo il punto nel quale Antoni individua il fallimento della posizione esistenzialista, non è nell’affermarsi della vita morale che fa dell’umanità la portatrice e la creatrice dei valori. “L’Infinito, che è l’Essere, chiarisce ancora Antoni, resta trascendente, cioè non è l’universale che si attua e si realizza nell’individuale concreto. L’individuo, nella sua finità sofferta, resta privo di valore, e pertanto non è difeso e giustificato. L’immanenza dell’Infinito (…) si ha qui soltanto nella coscienza della propria desolante finità astratta. Sospeso a mezz’aria tra l’Essere, che sta sopra di lui, e il nulla che sta al di sotto, l’individuo resta qualcosa di espulso, di gettato fuori: è individualità priva di universalità, perché l’universale è la Sostanza, l’Essere, che lo ha gettato fuori di sé, nell’accidentalità del tempo e dello spazio. Isolato nella sua finità, l’individuo è condannato alla solitudine, perché qualsiasi comunità (…) è un’astrazione”. (9)
Ancor più duro è, probabilmente, il giudizio che Antoni riserva all’analisi heideggeriana dell’individualità alla quale rimprovera di non essere riuscita ad approdare a risultati dissimili, infine, da quelli raggiunti da Kierkegaard. Lasciatosi alle spalle il volgare “Si” che non è riuscito a riscattare il suo esser per la morte, l’uomo accetta di vivere la propria dimensione storica che è di una storicità intesa però in senso destinale, ancora una volta lontana dagli ideali di impegno morale e di libertà creatrice che lo storicismo, anche quello Hegeliano, avevano posto come il senso più vero della vita. Qual è, si chiede Antoni, “il nocciolo di tutta questa macchinosa filosofia? Una verità assai grama e assai vecchia: che noi tutti, in quanto vitalità individuale, siamo destinati a morire e moriamo ogni giorno un poco. Essa sembra divenir tragica soltanto perché questa vitalità, per quanto ‘gettata’, per quanto descritta in tutta la sua nullità, è qui l’unica cosa importante.” (10)
E Antoni prosegue il suo discorso mettendo a confronto ciò che per lui è chiaramente una buona difesa dell’individualità con la difesa tentata dall’esistenzialismo con risultati che le premesse stesse avevano all’origine inficiati. E scrive: “Nella filosofia crociana, come è noto, questa individualità vitale era considerata la scoria, ed il valore era riservato alle opere dell’arte, del pensiero, del lavoro e della vita morale, alle opere immortali, attraverso le quali l’individuo entra nella storia e arricchisce l’umanità. Qui invece, ciò che deve determinare la decisione, ciò che porta alla vita autentica, è proprio questa natura, che è poi irrazionale ed oscura e si ‘aprirebbe’ soltanto, magicamente, al cospetto della morte. E la fedeltà a questa natura, che, se mai, per noi è schiavitù e miseria, è qui spacciata per libertà” (11)
L’esito dunque, di una cattiva difesa dell’individualità doveva essere il fallimento. Essa poteva, “in certi momenti storici, apparire una protesta contro quegli enti astratti, che col pretesto della mediazione -come lo Stato di Hegel- opprimevano e negavano l’individuo.” Ma era destinata a lasciare l’individuo nella sfera asfittica della propria meschinità e, venuta meno la fede in Dio, era destinata ad approdare al nichilismo.
Non analizzeremo tutte le pagine che Antoni dedica all’esistenzialismo heideggeriano e a quelle delle filosofie nichiliste di Sartre, Merleau-Ponty, Lévinas. Ci basta aver dato conto della posizione in generale che lo studioso triestino assunse nei confronti di quelle filosofie che vollero rivoltarsi contro i vecchi universali per ripiegare “sul dato elementare, immediato dell’esistenza” , nel nome di un’individualità che reclama “la semplice volontà di esistere e che, nel grande naufragio, cerca di afferrarsi alle sabbie dell’esistenza così com’è”. Anche se nel primo momento della critica quelle filosofie lasciavano presentire per l’individualità un destino migliore di quello che la filosofia classica riservava loro, non erano poi in grado di assicurare vero riscatto né prefigurare un migliore destino ad un individuo che rimaneva “confinato nella vitalità morale e quindi escluso dai valori eterni”.
Ci fa piacere concludere questo capitolo citando uno scritto di Croce che testimonia il carattere della posizione storicistica. Lo scritto si apre con l’affermazione che l’uomo “non cerca altro che la felicità” e che “la felicità che l’uomo cerca non è quella che egli ottiene, e ne ottiene sempre una incostante, temporanea, fuggente” (12). Di contro, la storia e la vita si manifestano all’uomo in tutta la loro tragicità, al cospetto della quale egli sembra impotente e fragile. Cosa gli resta, dunque, da fare? “All’uomo spetta, scrive Croce, (…) conoscere caso per caso la situazione in cui si trova e ascoltare la voce interiore per la nuova sua azione, e accogliere con animo forte gli eventi quali che siano, pensando che la sua opera si inserisce anch’essa, come momento originale ed essenziale, nel circolo che è la realtà, e concorre a generarla e rigenerarla, e questo gliene fa sentire la responsabilità e gliene comanda la bontà e lo fornisce di quel coraggio che viene dalle cose stesse. Anche quando la sua azione, continua il filosofo, apparterrà alla causa soccombente, (…) non sarà stata vinta, perché l’esigenza di bene che essa conteneva non si spegne(…). E poiché, conclude, al suo lavoro è posto un limite dal suo nascere, che è un ‘correre alla morte’, un cominciare a morire, la morte lo corona, ed alla morte, (…) egli anela divorando la vita…” (13)

Note

1. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze, 1972, pp98-99
2. Ivi, p. 100
3. Ivi, p. 98
4. Si confronti R. Franchini, L’idea di Progresso, Giannini, Napoli, 1979. Nel volume Franchini accanto alla storia dell’idea di progresso, propone una teoria del progresso che, negando il progresso rettilineo tipico delle filosofie della storia di stampo hegeliano e marxista, si sostanzia nell’idea del progresso come progresso morale, strettamente legato dunque al giudizio storico che prefigura la scelta morale e, dunque, legato alla responsabilità dell’individuo. Se l’individuo infatti fosse legato soltanto al progresso dal destino, in questo caso positivo, dell’accadere storico, non avrebbe alcuna possibilità di scegliere, di modificare tale destino e di essere moralmente libero. Franchini porta ad estreme conseguenze la critica crociana alle cosiddette filosofie della storia. A proposito del marxismo sottolinea che sono gli individui, e non le classi sociali, e ancor meno una sola di esse, gli artefici della storia.
5. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., p.79
6. C. Antoni, La Restaurazione del diritto di natura, Venezia, 1959, p. 63. Si confronti, dello stesso autore, L’esistenzialismo di Heidegger, pubblicato, a cura di Michele Biscione, da Guida, Napoli, 1972.
7. Ivi, p.64
8. Ibidem
9. Ivi, p.65
10. C. Antoni, Il tempo e le idee, a cura di M. Biscione, ESI, Napoli, 1967, p. 415
11. Ibidem
12. B. Croce, Storiografia e idealità morale, Laterza, Bari, 1967 (1950), p. 89
13. Ivi, p.96

CAPITOLO III

L’individuo in Croce

Croce “ha definito un concetto della natura umana, che a stento si era andato facendo strada nel pensiero moderno: il principio di un nuovo umanesimo, per cui l’uomo è attività produttrice di opere, che si inserisce nel mondo, nella società umana, nella storia, e arricchendola, produce la storia stessa, in quanto questa ha di positivo, cioè di effettivi valori dell’arte, della scienza, dell’intraprendenza economica, della vita morale. Il dualismo uomo e Storia, così opprimente nella prima metà dell’Ottocento e non sanato dal positivismo che alla Storia aveva sostituito la Società, era eliminato ed all’uomo era restituita quella iniziativa, che in maniera astratta ed antistorica gli era stata attribuita dall’Illuminismo. La storia tornava ad essere, come aveva insegnato Vico, opera dell’uomo (…)”. (1)
Con queste parole Carlo Antoni nel suo volume Lo storicismo introduce la filosofia di Benedetto Croce, inserendola nel solco di un nuovo umanesimo che, sottraendo l’individuo al giogo della necessità del divenire storico, lo pone contemporaneamente al riparo del nichilismo esistenzialistico da un lato e dagli esiti relativistici di un certo storicismo dall’altro.
Ma più avanti, nello stesso saggio dedicato allo storicismo assoluto, lo studioso triestino non esita a muovere al suo maestro quelle obiezioni che saranno poi, come vedremo in seguito, alla base del suo tentativo di reinserire il giusnaturalismo nel tronco stesso dello storicismo: “Non tutto, però, della teologia hegeliana della storia si può dire scomparso nel pensiero crociano. Malgrado che la sua intera opera di filosofo, di storico, di critico letterario sia tutta vibrante del senso della personalità creatrice, egli ha ritenuto di negare ogni valore, anzi, ogni consistenza al concetto di individuo. Lo ha definito, continua Antoni, un nome, una convenzione sociale, cui, tutt’al più, ha attribuito un’esistenza come mera vitalità: le opere immortali dell’arte, del pensiero, della vita morale non sono opere degli individui, ma dello Spirito del mondo e della storia, dello Spirito dell’umanità, che degli individui si serve come di strumenti.” (2)
Al pensiero di Carlo Antoni, che dedicherà al tema dell’individualità quasi tutta la sua vita, riserveremo un capitolo a parte giacché è parallelamente al suo ragionamento che si articola il nostro. Per ora fermiamo in questo punto, con questo giudizio, la nostra analisi della posizione del filosofo triestino e passiamo ad esaminare, alla luce di queste affermazioni, la filosofia di Croce e le sue argomentazioni a questo proposito.
Abbiamo accennato all’estetica crociana, sia pure in maniera non analitica. Abbiamo visto che l’individualità vive nel mondo dell’arte come nel mondo che le è proprio. Vive nella sfera estetica perché è attraverso l’intuizione che l’umanità coglie l’individualità, un’individualità non correlata all’universalità, non giudicata storicamente ma rappresentata. Vive, ancora, nella sfera estetica perché l’arte è libera creazione individuale.
Nella filosofia crociana il mondo dell’individualità è la premessa stessa della libertà di cui tutta quella filosofia è intrisa. Per esistere la libertà, deve esistere la varietà, la molteplicità che è garanzia della possibilità di scegliere, dunque l’individualità in tutte le sue manifestazioni (3).
L’individualità, infatti, è protagonista in tutto il sistema crociano (4). Anche il giudizio storico viene emesso da un individuo in una certa (individua) condizione ed ha, per così dire, come oggetto un fatto, o anche una serie di fatti, individuali o, meglio, individualizzati secondo una prospettiva a sua volta individuale. Esso è universale in quanto mette in campo delle relazioni in cui ciò che abbiamo definito oggetto del giudizio viene posto con la storia tutta. Allo stesso modo, l’azione morale è sempre un’azione individuale (di un individuo) che, “sebbene universale nel suo significato, scrive Croce, dev’essere sempre qualcosa di individualmente determinato”. A proposito dell’azione morale il filosofo precisa: “Quel che si mette in pratica non è la moralità in generale, ma sempre una determinata azione morale” e ricorda Hegel che sosteneva di non aver mai mangiato “frutta in generale, ma ciliegie, pere, susine, anzi queste ciliegie, queste pere, queste susine”. (5)
Fatta questa doverosa precisazione, proseguiamo nella nostra analisi. Se individuale è ogni concreta realizzazione storica, le ragioni dell’individualità, oltre che nell’orizzonte estetico, si affermano nell’orizzonte economico. Se l’arte è intuizione del particolare, l’attività “economica, scrive Croce, è quella che vuole e attua ciò che è corrispettivo soltanto alle condizioni di fatto in cui l’individuo si trova…”; ad essa corrispondono, precisa, “quelli che si dicono fini individuali”. (6)
Ma se tutta la realtà è individuata, se l’universale è, hegelianamente, sempre concreto, ossia individuo, cosa sono gli individui, gli uomini, quale la loro natura, quale il loro compito, quale il loro rapporto con l’universalità degli altri individui, con il divenire, con la storia?
Nel capitolo dedicato a Gli abiti volitivi e l’individualità, Croce, sostenendo l’importanza dei primi, afferma che in essi “ha fondamento l’ i n d i v i d u a l i t à, intesa come concetto empirico, nel qual caso non designa altro che un complesso di abiti più o meno duraturi e coerenti” (7). Tale posizione, precisa poco più avanti, “è quella che afferma il valore della particolarità o i n d i v i d u a l i t à nel campo pratico.” (8)
A proposito poi della relazione fra insieme degli abiti, o temperamento, e la virtù, chiarisce la propria posizione con nettezza affermando che abiti e virtù devono restare ben distinti, anche se “la virtù e il carattere richiedono abiti e passioni, delle quali porgono la sintesi volitiva e razionale, e sono la forma di quella materia. E come la materia astrattamente considerata non è né male né bene, così gli abiti e le passioni (…) non sono per sé stessi né virtù né vizi: sono fatti. E dei fatti bisogna tener conto..” (9)
Fin qui il discorso crociano a proposito degli abiti che il filosofo lega, come abbiamo visto, non all’individualità in generale ma alla “individualità intesa come concetto empirico”. Il ragionamento va ampliandosi infatti e si precisa la posizione di Croce allorché egli analizza l’idea di “vocazione”.
Dopo aver fermamente criticato l’astratto ideale di forzare il proprio temperamento in vista di una chimerica perfezione, afferma che la “realtà è diversità” e che “ciascuno è bravo se fa bene ciò a cui è c h i a m a t o”. Ma precisa subito dopo: “L’individuo non è una ‘monade’ o un ‘reale’, non è un’ ‘anima’, creata di un sol getto e impronta da un Dio; l’individuo è la situazione storica dello spirito universale in ogni istante del tempo, e perciò l’insieme degli abiti che per effetto delle situazioni storiche si sono prodotti.”
Individuo e situazione, afferma, “sono tutt’uno” E aggiunge: “Ma, definito così l’individuo, non resta men vero che ciascuno deve indirizzare la propria vita conforme agli abiti preesistenti, conforme alle disposizioni personali…”(10)
Il rapporto fra abiti e virtù si viene chiarendo ancora quando si riflette su L’universale nell’individuale e l’educazione. Scrive Croce: “Pure, se l’individuo non esaurisce l’universale, l’universale vive negli individui, la Realtà in ciascuna delle sue forme particolari. L’affermazione del diritto dell’individualità non nega il diritto all’universalità o lo nega soltanto in quel carattere astratto, in cui esso, a dir vero, si nega da sé medesimo. L’individuo ha l’obbligo di cercare sé stesso; ma, per fare ciò, ha l’obbligo insieme di coltivarsi come uomo in universale.” (11)
La tematica dell’individuo è, come si è detto, costantemente presente in tutta l’opera crociana ma noi faremo riferimento ad alcuni saggi che possono essere considerati topici dal nostro punto di vista.
Fra questi fondamentale è L’individuo e l’opera pubblicato nel volume Etica e politica (12) del 1931. Il ragionamento che Croce conduce è pressappoco sintetizzabile in questo modo: i concetti di merito e demerito non sono, propriamente, criteri di giudizio storico. Spesso ci capita, infatti, di chiederci se siamo buoni o cattivi, coraggiosi o vili. Ma tali domande non hanno senso, giacché ognuno di noi sa che, fuori da una condizione particolare, nella quale ci venga data l’opportunità di essere buoni o cattivi, vili o coraggiosi, non si danno riposte concrete. Non si danno risposte concrete perché non è giudicabile l’individuo in sé, che racchiude sempre tutti i caratteri dell’umanità intera, ma sono giudicabili, storicamente, le sue opere concrete, le sue scelte, le sue azioni. (13)
Per meglio comprendere la posizione crociana, è utile riportare una riflessione di Edgar Morin che, a proposito delle circostanze che conducono gli individui a determinati comportamenti e che, in qualche modo, fanno di loro ciò che essi sono, molto efficacemente, scrive: ” Degli eventi, degli accidenti possono attualizzare alcune delle personalità potenziali che ci portiamo dentro; così la Rivoluzione ha fatto nascere il genio politico o militare nei giovani destinati a una mediocre carriera in tempi normali; la guerra fa diventare eroi e carnefici; la dittatura totalitaria ha trasformato degli esseri insignificanti in mostri. (…) Al contrario, continua, queste possibilità non verranno mai alla luce nella vita normale: nella nostra epoca Cesare sarebbe stato un Commendatore, Alessandro avrebbe scritto una vita di Aristotele per una collana di libri tascabili, Robespierre sarebbe stato vicesindaco di Arras, Bonaparte sarebbe stato capitano di polizia.” (14)
Per chiarire meglio questa posizione, ci sembra interessante fare riferimento ad un’esperienza concreta molto distante ma, in certo qual modo, significativa ai fini del nostro ragionamento. Vorremmo proporre di riflettere sui principii ai quali decise di ispirarsi un uomo che fu posto nella condizione di dover giudicare l’operato di altri uomini per rendere merito alla loro bontà. Ci riferiamo a Moshe Bejnsky, che dovette affrontare questo problema allorché fu nominato Presidente del Giardino dei Giusti in Israele. Mentre infatti fino a prima di lui la ricerca degli uomini giusti si era indirizzata verso uomini integerrimi, di specchiata ed incontrovertibile moralità, Bejnski cambiò rotta, convinto che, se quel giardino avesse dovuto avere concretamente lo scopo di indicare alle generazioni future l’esempio da seguire, lo avrebbe fatto con tanta più forza quanto meno astratti, meno lontani dalla comune umanità fossero sembrati gli uomini e le donne dei quali lì si celebrava l’impegno a favore della vita. La sua battaglia più impegnativa e tenace fu, forse, proprio quella a favore di Schindler, personaggio corrotto sotto tanti aspetti eppure eroico sotto molti altri. L’opportunità che Bejnsky voleva offrire era quella dell’immedesimazione, ed è difficile, per l’uomo comune, immedesimarsi con i santi e i grandi eroi. (15) Del resto, non è Croce a ricordare il detto secondo il quale i grandi peccatori fanno i grandi santi?
Tornando al nostro discorso, nel saggio citato Croce precisa che i concetti di merito e di demerito non sono criteri storiografici perché, in realtà, quando anche vogliano applicarsi alle opere degli individui, e non agli individui, queste non solo appartengono alla storia, ma sono frutto della storia tutta e non di un solo individuo. Se ciò sembra palese per gli uomini d’azione, aggiunge, si è meno disposti e ragionare in questo modo per i grandi artisti, per i filosofi, gli scienziati e via dicendo. Ma “la migliore storiografia” è invece “tutta intenta a cercare non l’attribuzione individuale degli avvenimenti e delle opere, ma la loro qualità; non la fantastica genesi causale individuale, ma la genesi dialettica e ideale.” (16)
Nel saggio successivo a quello citato, Responsabilità, la posizione di Croce si chiarisce ulteriormente. A proposito della libertà o necessità dell’azione, il filosofo sostiene che si tratta di un problema privo di senso, giacché libertà e necessità non possono disgiungersi. “Azione libera, scrive, è quella che il nostro spirito crea perché non potrebbe crearne un’altra, l’azione pienamente conforme all’esser nostro nella situazione determinata, la soluzione del problema che il passato ci ha preparato ma che noi poniamo e risolviamo. Chi altrimenti credesse dovrebbe considerare non libero ma meccanicamente determinato l’uomo che ragiona seguendo la necessità della logica o il pittore che dipinge seguendo la necessità dell’arte.” (17)
Come si vede, il ragionamento crociano sembra stringersi sempre più intorno all’individuo e sempre più sembra costringerlo nella tenaglia di quella necessità storica che il filosofo italiano aveva rimproverato ad Hegel (18).
Immediatamente dopo il brano citato, Croce sembra rincarare la dose, affermando che “l’individuo non è responsabile della sua azione, ossia che l’azione non è scelta da lui ad arbitrio, e perciò non gliene spetta né il biasimo né la lode, né castigo né premio.” E continua, precisando: “Il che, se anche possa suonare paradossale, è comprovato dalla forma perfetta del conoscere, il conoscere storico, nel quale le azioni sono spiegate, qualificate e intese, ma non lodate o condannate, e non vengono riportate agli individui come a loro autori ma all’interno del corso storico, del quale sono aspetti.” (19)
Queste affermazioni sembrano negare quel carattere umanistico dello storicismo crociano al quale Antoni si riferisce nel brano col quale abbiamo iniziato questo capitolo. Sembrano riaprire, nuovamente, la frattura fra uomo e storia che la nuova filosofia sembrava aver finalmente superato quando affermava che “bisogna intendere che l’universale è universale di individualità ossia delle individualità in relazione l’una dell’altra che tutte lo compongono e in esso si unificano” (20)
Lo stesso Croce sembra accorgersene allorché, poche righe più avanti, si domanda: “Se, intrinsecamente considerando, nessuno è responsabile, come mai dunque si è responsabili?” E chiarisce di non aver mai inteso negare la responsabilità. “La risposta, continua, è semplicissima: non si è responsabili, ma si è fatti responsabili, e chi ci fa responsabili è la società, che impone certi tipi di azione, e dice all’individuo: ‘Se tu ti vi conformi avrai un premio: se vi ti ribelli: e, poiché tu sai quel che fai e intendi quel che io chiedo, io ti dichiaro responsabile dell’azione che eseguirai’.”(21)
Sembra, a questo punto della nostra analisi, che il valore dell’individualità, di cui si permeava tutta l’opera crociana, sfumi via insieme alla libertà degli individui, alla loro responsabilità al cospetto del divenire storico. Ci si sente di nuovo sperduti, travolti dal corso degli eventi che sembrano nuovamente muovere tutti i fili del nostro destino. Se ci si era assuefatti al pensiero che l’opera fosse dell’uomo e l’accadimento di Dio, che è altro modo per accettare la incontestabile e necessaria eterogenesi dei fini, adesso neanche più l’opera, l’unico vero legame fra l’individuo e la storia, sembra appartenere all’uomo, ridotto a mera particolarità, per dirla ancora con Hegel, a mera empiricità.
Se non ci si arrende ancora, se non ci si adatta ad accettare ciò che sembra evidente, è perché, se è comprensibile che Carlo Antoni muova a Croce il rimprovero di non aver del tutto risolto aspetti dell’hegelismo che finivano col mortificare l’individualità, è pur vero che, visto nella sua complessità, il sistema crociano sembra tuttavia sottrarsi ad una tale interpretazione.
Proviamo allora a cercare il conforto di altre citazioni, di altri luoghi nei quali il concetto di individuo non appaia così limitativo.
Nel saggio, Storia individuata e dovere individuato, pubblicato nel volume Il carattere della filosofia moderna del 1941, Croce spiega che il processo storico varia a seconda delle condizioni in cui si trovano, concretamente, gli individui e che ciascuno di essi “ricerca di volta in volta la verità storica che a lui urge per i suoi fini riportare alla coscienza” (22). Corollario pratico di tale affermazione è che “ciascun uomo ha volta per volta il suo individuato dovere, al quale deve intendere senza distrarsene col vagare ed errare in doveri che toccano gli altri in altre condizioni…”(23). Naturalmente, precisa a proposito delle tante individualità fra loro diverse, diversità “non è estraneità” e, in conclusione del suo ragionamento, scrive: “Storia individuata e dovere individuato, sono, dunque, termini correlativi; e la storia concepita sopra e fuori gli individui e che preme sugli individui imponendo presunte leggi e regole fisse e, tutt’insieme, annullamento della storia e annullamento di ogni dovere perché annulla l’unica realtà della operosa e travagliata vita spirituale.” (24)
Sempre nel volume del 1941, Croce propone un saggio del 1939 che venne pubblicato per la prima volta a New York. Si tratta di un panorama che il filosofo compie delle teorie filosofiche della libertà. A proposito del liberalismo di Stuat Mill, egli commenta: “Il concetto stesso di individui non è, in quel modo di teorizzare, elaborato criticamente, continuandosi a sostanziarlo quale monade o a naturalizzarlo quale persona fisica da rispettare e da garantire in quanto tale, invece di risolverlo nell’individualità del fare o dell’atto, ossia nella concretezza dell’universalità.” (25).
Sembra, qui, che Croce penda nuovamente per l’universalità, ma altrove afferma: “L’universale è in noi, ma non in quanto si sostituisca a noi, ci metta in ozio.” (26)
Le citazioni riportate sono state proposte volutamente un po’ alla rinfusa, a testimoniare il fatto che non solo Croce ritorna, più e più volte, sul tema dell’individualità, ma che al lettore può effettivamente sembrare, se ci si attiene alla lettera, che la sua posizione sia come oscillante fra negazione dell’individualità in favore dell’universalità ed affermazione di essa come luogo nel quale solo la storia, e dunque l’universalità, può compiersi.
Ma vogliamo, in conclusione, citare un passo che ci è sembrato più di altri interessante perché, al di là del suo tono colloquiale e poco specialistico, è in sintonia più di altri con quella che si sembra essere l’intera impalcatura del sistema filosofico di Croce, dalla quale non si può e non si deve prescindere. Ancora ne Il carattere della filosofia moderna, il filosofo ritorna, infatti, sull’argomento della relazione fra opera e individuo in un saggio, L’unità del contingente col necessario, nel quale rifiuta la distinzione fra contingente e necessario riducendola al punto di vista dell’interprete il quale, a seconda di quale sia l’esigenza che ha mosso la sua indagine, selezionerà (la domanda ermeneutica) l’oggetto della propria ricerca mettendo in secondo piano ciò che, per così dire, ha minore interesse dal suo punto di vista. Ma, per argomentare meglio la propria tesi, il filosofo ricorre ad un esempio, la creazione e il compimento di un’opera da parte del suo autore, che, se non chiarisce appieno la sua posizione, la espone, per così dire, in tutta la sua complessità. Vale perciò la pena di riportare per intero il brano anche se si tratta di un passo non breve, che va citato, a nostro avviso, senza apportare troppi tagli che ne farebbero perdere il senso complessivo. Scrive Croce che “l’autore di un’opera, quando se la vede finalmente dinanzi compiuta, la guarda con meraviglia e la riceve in sé contemplandola, non altrimenti che faccia un padre del figlio che gli sta dinanzi e che è suo e non suo.” Continuando nel suo ragionamento, scrive ancora: “E se l’uomo fattivo non ha (…) un modello dell’opera che egli farà, e che sarà il frutto maturato sull’albero della sua vita, che cosa ha egli? Ha in sé una spinta ideale, risponde Croce, un dio agitante o un demone istigante; e questo è il solo viatico col quale inizia la sua relazione e la sua lotta col corso del mondo.” Da questo momento il discorso si fa ancor più interessante e il rapporto fra l’individuo, la storia e l’opera più intricato: “Perché la sua opera, come sappiamo, continua, è collaborazione, e non si fa se non nell’intreccio con tutte le altre forze operose del mondo, che egli insieme accoglie in sé e contro cui reagisce. Si legano ad esse le sue gioie e i suoi dolori, e gli amori e le speranze e le vittorie e le sconfitte, tutto ciò in cui trova punti di sostegno, tutto ciò in cui urta come in ostacolo e che lo respinge indietro rudemente. Impegnato in questa lotta, egli sente il momento della estraneità e del contrasto tra sé e il corso delle cose, tra l’azione alla quale attende e gl’incidenti che di continuo sopravvengono e lo costringono a cangiare avviamenti e modi.”
Conviene non interrompere qui la nostra citazione e lasciar parlare ancora Croce che così conclude, dal nostro punto di vista, il suo discorso: “Senonché, giunto al termine dell’opera, quando è in grado di abbracciarla per intero e di penetrarla con l’intelligenza, dove sono andate quelle forze nemiche, quei casi interruttori e turbatori, quegli accidenti e quegli urti che pareva venissero dall’esterno, quel contrasto tra lui e il corso del mondo? Egli non riesce più, nonché a separare materialmente, a distinguere logicamente il sostanziale dall’accidentale, il necessario dal contingente, sé stesso dal corso del mondo, perché nel corso del mondo egli stesso si è formato e a sua volta lo forma.” (27)
Naturalmente la selezione dei passi crociani che abbiamo operato è soltanto una delle tante possibili in quello che potremmo definire un vero e proprio oceano di scritti, non ultimi quelli sulla Vitalità nei quali sembra affiorare un’idea dell’individuo intrinsecamente legato agli istinti, ad una natura torbida e peccaminosa. (28)
Chiudiamo il capitolo con il brano appena riportato invitando a riflettere non tanto e non solo sui concetti, quanto sulle parole e le immagini che Croce ha adoperato per descrivere la nascita di un’opera. Se fossimo degli intenditori di musica classica, sapremmo forse trovare il titolo dell’opera sinfonica che esprime al meglio con l’avvolgersi delle note, il loro urtarsi, il progredire fino al trionfo, il processo della storia del mondo che si fa, attraverso il contributo di tutti gli individui, di tutti i singoli individui.
Nell’ultima citazione sono infatti anticipate alcune tematiche la cui analisi rimandiamo al capitolo successivo, nel quale la riflessione sull’individualità si apre, per così dire, ad altri concetti che sono fondamentali per completare il nostro discorso, almeno per quanto riguarda la filosofia crociana.

Note

1. C. Antoni, Lo storicismo, ERI, Torino, 1968, pp.186-186
2. Ibidem
3. A proposito dell’individualità, intesa come varietà, che è alla base della possibilità della libertà, si potrebbe riflettere sulle tecniche alle quali ricorre il Grande Fratello dell’universo orwelliano per assicurarsi il dominio incontrastato sui suoi sudditi. Di fatto, ha cura che venga cancellata la differenza attraverso la pratica del bis-pensiero, in maniera che gli uomini vivano nell’uniformità del tempo e degli avvenimenti.
4. Si confronti Carlo Antoni, Commento a Croce, Neri Pozzi, Venezia, 1955. Il capitolo L’individuo si apre così: “Se vi è una filosofia, che è tutta celebrazione dell’individualità, questa è la filosofia crociana”. E Antoni prosegue analizzando il valore assegnato all’individualità nel pensiero crociano, dall’estetica all’etica, alla storia della filosofia e conclude questa sua breve introduzione affermando: “L’ethos che pervade l’intera opera crociana è la coscienza vigorosa della suprema dignità e fecondità della persona, in cui prende forma e si fa operosa la libertà” (pp.99-100). Si confronti il complesso saggio di Michele Maggi, La teorica dell’individuale, in La filosofia di Benedetto Croce, Bibliopolis, Napoli, 1998. Maggi ripercorre lo svolgimento, nel sistema crociano, della questione dell’individualità attraversando sia il campo dell’estetica, dove l’individualità appare nella forma conoscitiva della rappresentazione, sia quello della filosofia della pratica, dove si manifesta nell’ambito della volizione dell’individuale compiendosi definitivamente, attraverso gli sviluppi della logica, come unità di filosofia e storiografia. L’autore segnala come il pensiero crociano si intersechi con quello hegeliano ma anche con quello di Kant, nell’interpretazione che Croce compie della sintesi a priori, trasfigurandola dal campo delle scienze a quello dell’arte e della storia.
5. B. Croce, Filosofia della pratica, Bibliopolis, Napoli, p.219
6. Ibidem, p. 219
7. Ivi, p. 165
8. Ivi, p. 167
9. Ivi , pp. 170-171
10. Ivi, p. 171
11. Ivi, p. 173, il corsivo è nostro. A proposito dell’educazione Croce scrive poco più avanti: ” Una scuola, che fosse semplice cultura delle attitudini individuali, sarebbe addestramento e non educazione, fabbrica di utensili, non vivaio di attività spirituali e creatrici. (…) E conclude che equilibrato “è colui che conosce e adempie la sua propria e individuale missione così perfettamente da adempiere insieme, con essa e per essa, la missione universale dell’uomo.” (pp.173-174). Si confronti V. E. Alfieri, Pedagogia crociana, Morano, Napoli, 1967, in particolare il capitolo Lo storicismo come ideale educativo.
12. Citeremo dall’edizione dell’ Adelphi, Milano, 1994. Si confronti anche il saggio crociano Le opere, in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, nel quale, a proposito della concezione storicistica il filosofo scrive che con essa non si guarda “agli uomini nella loro vita che si dice personale o privata, ma alle loro opere ossia al loro lavoro. Le opere, continua, sono attuate certamente anche dai muscoli e dai nervi degli uomini, ma non si confondono con questi (…) Le passioni private circondano da ogni parte le opere degli uomini, ma queste rimangono distinte e superiori. E’ proprio delle opere il valore oggettivo, chiarisce ancora Croce, e rivolto all’universale. E chi le compie si appella volentieri all’ispirazione, quasi forza estranea che sia intervenuta benefica, e prova un sentimento ora di compiacenza ed ora di umiltà. Anche si avverte che sono opere nelle quali il mondo tutto in ogni sua parte concorre, onde sarebbe semplicistico quanto arbitrario riferirle unicamente a un individuo determinato.” Non a caso, infatti, le opere più alte dell’ingegno umano sono dette divine, conclude, “perché in loro più si sente il momento dell’accordo tra gli uomini…” (pp281-282)
13. Del bellissimo saggio Il peccato originale, pubblicato in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Laterza, Bari, 1967 (1952) è interessante citare questo passo nel quale Croce, dopo aver ribadito che in ogni uomo convivono bene e male (in ciò il peccato originale, dal quale non vi è redenzione possibile), nota come la poesia possa provare la sua posizione. Così Croce: “L’arte può fornire di questo la prova, perché noi non potremmo rifare in noi e comprendere le creature dell’arte senza partecipare alle loro passioni, e nell’arte gli esseri perfetti sono considerati figure convenzionali, e convenzionali altresì gli uomini demoniaci, e il nostro consenso va a tutti quelli che già Aristotele chiamava ‘mediocri’, cioè umani, nei quali ci possiamo riconoscere”.
14. Edgar Morin, Etica,Cortina Editore, Milano, 2005, p.110

15. Si confronti Gabriele Nissim, Il tribunale del bene, Mondatori, Milano, 2003. La lettura del volume è interessante perché, pur senza avere alcuna pretesa filosofica, conduce a riflettere sulle possibilità e la responsabilità degli individui in epoche nelle quali, come durante il nazismo, la libertà è repressa e soffocata e sul valore che la categoria del bene assume in quei momenti.
16. B. Croce, Etica e politica, cit, p. 143
17. Ivi, p. 146
18. In merito alla critica crociana della filosofia della storia di Hegel, commenta molto efficacemente G. Cacciatore nel saggio Croce: il concetto di progresso e la critica della filosofia della storia, (in Filosofia pratica e filosofia civile nel pensiero di Benedetto Croce, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, pp. 244-245), allorché scrive: “Ma, per Croce, non si tratta soltanto di un problema logico e conoscitivo, bensì anche etico, giacché affidare il corso della realtà a un disegno metafisico e provvidenzialistico significa incrementare il fatalismo e la passività”.
19. Ivi, pp. 146-147
20. B. Croce, Universalità e individualità nella storia, in Storiografia e idealità morale, Laterza, Bari, 1967 (1950), p. 53
21. Ivi, p. 147. Nel volume Il carattere della filosofia moderna, Laterza, Bari, 1963 (1941), si legga il saggio L’indagine dei responsabili, nel quale Croce distingue il lavoro del giudice da quello dello storico. Al secondo poco interessa la ricerca dell’autore di una data opera, avendo tale ricerca un’ “indole giuridica”. Lo storico ha il compito di “intuire il carattere e determinare logicamente la qualità dell’opera compiuta, sia un’opera di pensiero, o di scienza o di poesia e di politica o di religione, e perciò bisogna collocarsi (…)” nel punto “puramente contemplativo e teorico della grazia e della provvidenza.” (p.143)
22. B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, cit., p. 205
23. Ivi, p. 206
24. Ivi, p.209
25. Ivi, p.118. Il saggio a cui ci riferiamo è intitolato: Principio, ideale, teoria.
26. Citiamo dal saggio La traduzione in prosa della parola genio, in Indagini sullo Hegel e schiarimenti filosofici, Laterza, Bari, 1967 (1952), p.159
27. B. Croce, L’unità del contingente col necessario, in Il carattere della filosofia moderna, cit., p.183. Il corsivo è nostro.
28. Sulla Vitalità si confrontino soprattutto i saggi Intorno alla categoria della vitalità e Il peccato originale, contenuti nel volume Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Laterza, Bari, 1967 (1952). Come è noto, la teoria della Vitalità, che occupa gli ultimi anni della vita del filosofo e che non riuscì ad essere pienamente compiuta dallo stesso Croce, ha dato luogo a molte interpretazioni che hanno fatto accostare il pensiero crociano all’esistenzialismo e perfino al marxismo. Ma anche all’interno della stessa tradizione crociana, vi è stato chi, come Alfredo Parente, ha visto una notevole mutazione divenendo la Vitalità, insieme alla moralità, “modo categoriale”, ossia un accompagnamento, per così dire, costante e polare delle categorie classiche della logica e dell’estetica. C’è stato chi, invece, come Raffaello Franchini, ha segnalato i momenti di continuità, considerando la Vitalità un rinnovato richiamo all’importanza, alla necessità, del momento della forza e dell’utilità per comprendere l’intero circolo dei distinti. Nel volume Storiografia e idealità morale, (Laterza, Bari, 1967, p. 23), Croce scrive: “Realtà storica è solo il carattere delle opere che gli uomini compiono e non già il carattere degli individui, che, staccato dalle opere a cui collaborano, non è determinabile e appartiene alla comune umanità”. E’ chiaro che qui Croce intende affermare che ciascun uomo è, in sé, buono e cattivo, perché in ciascuno di noi c’è sempre, come possibilità, sia il male che il bene. Solo in precise circostanze egli compie azioni buone o cattive. Si ragiona dunque delle sue azioni, mentre sarebbe poco corretto emettere giudizi complessivi su quell’uomo. In un altro passo dello stesso volume Croce si domanda, a proposito dell’ Universalità e Individualità nella storia, quale sia “il soggetto della storia, Dio o gli uomini, l’universale o gl’individui?” E continua rispondendo che “l’universale è universale di individualità ossia delle individualità in relazione l’una dell’altra che tutte lo compongono e in essa si unificano. Donde mai vengono le vocazioni o disposizioni che ogni individuo scopre in sé, se non dall’universale che tesse nella storia la sua unità? Donde vengono gli ‘uomini provvidenziali? E gli ‘uomini del destino’, ai quali Hegel assegnò la risoluzione delle crisi storiche e che a torto separò dagli altri come solo essi ‘individui storici’ dimenticando che ogni individuo è storico e che la storia è crisi continua in ogni sua parte, per minima che si dica essenziale al pari di ogni altra? E per questo abbiamo sempre battuto sul punto che il soggetto della storia sono le opere e non già l’astratto universale o gli astratti individui.” (p.53).

CAPITOLO IV
La logica della circolarità e l’individuo

Logica, verità e storia

Una ricerca che abbia come argomento l’individuo fra temporalità e storicità non può esimersi, a nostro avviso, dal riflettere su alcuni concetti fondamentali, quali quello di realtà, di storicità, di verità, sulle loro relazioni e sulla relazione che tali concetti hanno con quello di individualità.
Se, infatti, una concezione immanentistica della realtà, ed il conseguente abbandono di posizioni di tipo metafisico o assolutistico, consente di dare pieno fondamento alla dignità, alla libertà (che non è arbitrio) e dunque alla responsabilità degli individui, e sul piano politico di esorcizzare il totalitarismo, dall’altra il rifiuto di valori assoluti sembra diminuire ogni cosa, abbandonarla alle correnti del relativismo, in ultima istanza, sembra sottrarre senso e significato all’esistenza stessa.
D’altro canto, su questo tema Croce ritornò in uno degli ultimi suoi scritti dal sintomatico titolo, L’uomo vive nella verità. Si tratta di una conversazione tenuta all’Istituto Italiano per gli Studi storici (1). Emerge, in questo scritto, con evidenza quale sia la posizione non relativistica del filosofo che, pure, nulla concede a forme di universalismo astratto. “Dunque, scrive, fu anche a me somministrata la dottrina che l’uomo può bene acquistare via via una massa di verità al plurale e con la minuscola, ma non deve chiedere né sperare mai di ottenere la Verità al singolare e con la maiuscola. Era, del resto, questa dottrina convalidata dal Positivismo, allora prevalente, col suo Inconoscibile. Ma di certo, continua Croce, non era una dottrina da riposarvisi, delusiva come io la sentivo e mortificante; pure, non riuscivo a confutarla, e per allora la sorpassai, e quasi la dimenticai, nell’impeto del vivere, che è cosa che torna più facile ai giovani che agli uomini maturi e ai vecchi; e mi contentai delle verità al plurale, delle ricerche letterarie e storiche particolari, mettendo a dormire gli studi filosofici…” (2) Poi il filosofo si chiede se, accanto alle verità particolari, una volta ritornati allo studio filosofico, al pensiero profondo, non vi sia soltanto una verità e se, dunque, non sia inutile affannarsi nella ricerca delle verità particolari. Risponde che in realtà le due verità non possono contrapporsi, ed è qui che entra, sia pure non esplicitamente, nel ragionamento, la fondamentale dimensione della storicità. Scrive: “Poiché la verità si intreccia con la vita dell’azione e l’azione è incessante creazione del mondo, e a ogni moto che si crea nuovo, il pensiero deve pensarlo e riportarlo all’universale, e rivolgergli sopra la luce di esso (…); le verità particolari non sono frammenti di una Verità non mai riconoscibile nel suo tutto, ma sono la vita operosa, la vita drammatica, e anche la vita tragica, della Verità stessa che è vita nella vita; e di qui la loro importanza e la loro necessità, e non già nel vano conato contro natura di afferrare la Verità come nella corda a un palio il quale si allontani ad ogni passo che si muova; né già nella trascendenza della Verità ma nella sua immanenza. Tutte le affermazioni o giudizi sono sufficienti nelle condizioni date e tutti sono resi insufficienti dalle nuove domande che i fatti nuovi sollecitano; e tutti sono da integrare e perciò non si dissipano ma si serbano nei nostri nuovi giudizi come i fatti nei fatti; e sillaba di Dio non mai si cancella.” (3)
Nel seguito della citazione, che trascriviamo, si comprende fino in fondo quale sia l’intreccio stretto fra teoria e prassi, filosofia e storia, responsabilità dell’individuo che nella storia è sempre immerso ma che, col pensiero e con l’azione dalla storia si eleva per determinarla così come Croce aveva già specificato nel volume del 1938 sulla storia. Scrive infatti: “Le nuove definizioni presuppongono le antiche e le legano a loro; e a questa prova vanno soggette anche le definizioni della Verità totale, che ne rilevano e lumeggiano or uno or altro aspetto secondo le occasioni storiche, e non contestano con ciò quella Verità, ma la confermano.” (4)
Queste affermazioni di Croce sembrano rispondere pienamente ai quesiti che ci siamo posti all’inizio di questa nostra ricerca. Ciò non pertanto, per poter consistere, l’individuo sente di dover essere libero ma sente altresì la necessità di potersi ancorare a riferimenti saldi, non soltanto perché condivisi quantitativamente ma perché qualitativamente consistenti. Se, sartrianamente, la libertà lo fa sentire spaesato, la mancanza di libertà ne soffoca l’anima e la vita stessa. Se egli invoca il divenire delle cose e il loro mutare per assicurare un significato, assegnare un ruolo, alla propria esistenza, avverte fortemente l’esigenza che tale divenire sia sensato che non sia governato dalla cieca casualità. Fra questi opposti aneliti, forse mai conciliabili, si consuma il dramma del significato e del valore della vita umana.
Riflettere sul valore dell’individualità significa allora riflettere sui concetti fondamentali della filosofia stessa.
Prima di proseguire nell’analisi del pensiero storicista, soprattutto nella sua versione crociana, ci sembra significativo citare un passaggio di un filosofo per alcuni aspetti dimenticato, e di provenienza culturale diversa che, pure, per tanti aspetti, può essere discusso in rapporto al pensiero crociano. Si tratta di Luigi Pareyson che, infatti, pur nella distanza di alcune posizioni, ebbe grande e profondo rispetto per il filosofo abruzzese. Nel volume teoretico forse più importante, Verità e interpretazione, a proposito della questione della temporalità, della storicità e dell’individualità di cui stiamo discorrendo, scrive: ” Il pensiero rivelativi è sempre insieme espressivo, perché la verità non si offre se non all’interno di ogni singola prospettiva: la verità è accessibile solo mediante un insostituibile rapporto personale e formulabile solo attraverso la personale via d’accesso ad essa. (…) Si può credere di scoprire la verità prescindendo da noi stessi e dalla nostra situazione, ma allora la verità dilegua, perché non abbiamo saputo adoperare l’unico organo di cui disponiamo per coglierla, cioè la nostra stessa persona.” (5) Dunque l’uomo si troverebbe o a perdersi nella temporalità che dileguerebbe anch’essa la sostanziale immutabilità di una verità certa e assoluta ovvero dovrebbe poter accedere ad essa con non si sa quale strumento, essendo l’unico strumento disponibile la propria personalità che è sempre, invece, immersa nella storia o, se meglio si vuol dire, nella storicità. Ma ecco la risposta di Pareyson che si può mettere in relazione al pensiero crociano e, forse, anche al giudizio prospettico di Raffaello Franchini (6) che di esso è un approfondimento e una prosecuzione. Scrive il pensatore valdostano: “La situazione storica, lungi dall’essere un ostacolo alla conoscenza della verità, quasi che potesse deformarla storicizzandola e moltiplicandola, ne è l’unico veicolo, purché si sappia recuperarne l’originaria apertura ontologica: allora l’intera persona, nella sua singolarità, diventa organo rivelatore, il quale, lungi dal volersi sovrapporre alla verità, la coglie nella propria prospettiva, e quindi ne moltiplica la formulazione nell’atto stesso che la lascia unica. Il pensiero rivelativo attesta in tal modo la propria pienezza: ancorato all’essere e radicato nella verità, esso ne deriva direttamente i propri contenuti e il proprio significato, e la situazione si fa via di accesso alla verità solo in quanto vi diventa sostanza storica della persona.” (7)
Ci sembra che la filosofia crociana proponga, dal nostro punto di vista, una soluzione interessante se si tengono insieme alcuni momenti fondamentali a cominciare dalla riforma della dialettica hegeliana (8), che nega l’esistenza di uno svolgimento in senso lineare (9) della storia rispetto al quale gli individui, pur largamente considerati, di fatto si trovano a vivere una condizione di passività. Relativamente a tale riforma, è bene tornare a riflettere sul valore che assumono in Croce i concetti di sostanza e accidente e, soprattutto, quelli di volizione individuale, o azione, e di accadimento (10). Legati a questa prospettiva, ancora, la teoria del giudizio storico considerata alla luce del rapporto teoria-prassi e alla concezione della storia come storia contemporanea (11).
Lo storicismo assoluto, come il filosofo volle denominare il suo pensiero, pur negando in maniera risoluta e definitiva ogni ritorno alla metafisica, pone, se abbiamo bene inteso, un suo assoluto. Lo pone nella storia, non solo e unicamente nella storicità intesa come divenire, come scorrere temporale, e nemmeno in una storicità che ricordi una filosofia della storia di stampo hegeliano. Rispetto allo storicismo in generale, quello di Croce rappresenta il superamento della mera temporalità mediante l’affermazione della storicità in senso forte, ed in ciò può essere rintracciata una ennesima “anomalia”, per citare un’espressione di Girolamo Cotroneo, della sua filosofia. (12)
Raffaello Franchini, ci sembra, esprime con molta incisività e chiarezza questa punto di vista: “…la storicità, scrive, non ha nulla a che fare con la temporalità, di cui anzi è la condizione: il tempo storico è durata nel senso in cui Bergson genialmente parlava di durèe rèelle: esso non diviene senza essere. Il passato, questo spettro della immaginazione volgare, diventa così il significato stesso del presente, fuori del quale è inconcepibile.” (13)
La differenza fra storia e temporalità nella filosofia crociana è rintracciabile, del resto, anche se di difficile comprensione, in molte pagine della sua opera, nelle quali il problema viene affrontato da punti di vista e prospettive diverse. Nel Saggio sullo Hegel, Croce scrive: “Il vero divenire ideale non è qualcosa di indifferente o di divergente rispetto al divenire reale, ma è l’intelligenza del divenire reale, al modo stesso che l’universale non è divergente o indifferente rispetto al particolare, ma è l’intelligenza del particolare: talché universale e particolare, divenire ideale e divenire reale, sono il medesimo. Fuori del divenire ideale non rimane già quello reale , ma soltanto il temporale, cioè il tempo aritmetico, che è una costruzione dell’intelletto astratto; come fuori dell’universale non rimane l’individuo reale, ma l’individuo empirico, isolato, atomizzato o monadizzato. L’eternità e il tempo reale coincidono, perché in ogni attimo è l’eterno e l’eterno è un attimo.” (13)
Ma per chiarire meglio e trovare un fondamento a questa posizione ci sembra necessario proporre una lettura di alcuni punti della logica crociana che vorrebbe provarsi ad “angolare”, per così dire, i concetti tenendo conto, più che del loro svolgimento storico, della prospettiva dalla quale li si considera.

Le categorie come forme della realtà
Su di un piano che potremmo definire strettamente gnoseologico, la filosofia crociana accoglie l’insegnamento kantiano, sia per quanto riguarda la teoria della sintesi a-priori, sia per quanto riguarda la rivoluzione soggettivistica (di una soggettività intesa in senso universale, anche se concepita da Kant ancora come separata dalla realtà sulla quale riflette) che il filosofo di Konigsberg operò nella tradizione filosofica dell’Occidente.
Le categorie, o concetti puri, sono le forme nelle quali l’umanità colloca la realtà (che per Kant è ancora immobile ed esterna, per così dire, al soggetto) ed “opera” su di essa conferendo, appunto, una forma, ossia una spiegazione, a ciò che, diversamente, resterebbe da un lato indistinto, confuso, e dall’altro separato, privo di senso e, dunque, inintellegibile o, che è lo stesso, privo di forma e di relazione. Tali categorie sono universalmente “condivise” da tutti i soggetti in modo formale ed in questo senso oggettivo, e vivono solo nella sintesi con contenuti della realtà che l’uomo percepisce attraverso sensazioni, o meglio diremmo intuizioni, che sono già esse stesse frutto di un’attività e che rappresentano, nella complessa tradizione razionalistica fino a Kant ed Hegel, un primo gradino della conoscenza: in Croce la conoscenza della realtà individuale. (15)
Da un punto di vista logico, invece, la filosofia di Croce fa tesoro della lezione vichiana ed hegeliana che concepisce la realtà non come una cosa in sé, un qualcosa di altro, di separato, definito autonomamente rispetto al soggetto, ma in stretto rapporto, dialettico con esso, secondo il principio vichiano per cui l’uomo conosce ciò che fa e quello hegeliano dell’identità di razionale e reale.
Se, per un lato, infatti, le categorie sono principii interpretativi, dall’altro esse sono principii costitutivi: sono potenze del fare, forgiano, cioè, quella realtà che la ragione, hegelianamente, “riconosce”, ossia è in grado di interpretare. Le interpretazioni stesse, per Croce, contribuiscono alla costituzione di una realtà che è ancora in fieri, sempre in fieri: della quale, dunque, non può mai dirsi parola definitiva.
In questo orizzonte i dualismi pensiero e azione, pensato e pensante, soggetto e oggetto, vengono ricomposti in un’unità dialettica senza, però, mai appiattirsi e annullarsi reciprocamente. E’ anzi qui, in questo rapporto che non è mai annullamento, che si colloca il cuore stesso della dialettica, del divenire. ” Se il tentativo di cancellare la distinzione di questi due momenti dello spirito, scrive Croce a proposito del rapporto teoria-prassi, non fosse puerilmente ingenuo, il suo effetto sarebbe di distruggere la vita dello spirito …” giacché fuori della circolarità ogni unità è “statica e morta”. ( 16)

Realtà e verità
Ma, per entrare nel merito della logica crociana, è necessario precisare quale sia il rapporto che i concetti, ossia, come abbiamo detto, quelle categorie del pensiero che sono anche potenze dell’umano agire, hanno con la realtà, e cosa si debba intendere per realtà da un lato e per verità dall’altro.
La “verità” di un dato oggetto non è mai definibile una volta e per tutte, giacché la “sua verità”, la sua ragion d’essere, va definendosi storicamente, di volta in volta, e sempre di fronte ad un soggetto che con quell’oggetto entra in relazione, è in relazione. “La verità, scrive Croce, è il pensiero”. Non, dunque, questo o quel pensiero, questa o quella teoria: la verità non esiste mai come qualcosa di oggettivo, posto davanti al soggetto, immutabile nella sua essenza, così come la realtà non è un dato, ma ciò che il soggetto assume come oggetto della propria attenzione.
La posizione del filosofo napoletano considera la realtà in movimento e, dunque, anche la sua verità. La realtà di un sasso muta col mutare delle situazioni: può essere un’arma, un minerale, un fermacarte, a seconda dei casi. Nessuna di queste realtà nega le altre. Nessuna di esse rimanda ad una “realtà più vera” che sta, per così dire, sotto tutte queste. Ognuna di esse è vera in modo assoluto nel momento in cui si rivela come tale. Perfino quando l’oggetto della nostra indagine è passato, e sembra apparentemente incapace di evolvere ancora la propria essenza, esso continua invece a vivere nel divenire e ad operare in esso.
A conforto di tale visione delle cose vogliamo citare Edgar Morin che in una delle sue Lezioni messinesi (17) discorrendo della propria formazione, dice: “…Lefevre ha fatto un altro corso sulla storia delle interpretazioni della rivoluzione francese durante l’Ottocento e il Novecento e ha mostrato che in ogni epoca storica la visione della rivoluzione cambia in funzione della situazione storica in cui si trova lo storico che la ricostruisce. Infatti durante la Restaurazione si è avuta una interpretazione reazionaria della rivoluzione francese; successivamente se ne è avuta una repubblicana e poi, all’inizio della terza repubblica, una parlamentare. Ancora dopo, se n’è avuta una socialista con Jaurés che ha evidenziato forme di lotta di classe durante la rivoluzione; poi si è avuta una storia di ispirazione bolscevica con Mathiez che ha fatto l’apologia del terrore di Robespierre e nello stesso tempo l’apologia del terrore dello stalinismo; poi ancora la storia anarchico-libertaria che vedeva nella rivoluzione l’emergere degli arrabbiati, che erano i più violenti dell’epoca; e infine si è avuta l’interpretazione post-staliniana di Furet, oggi molto nota.”
Morin così commenta la pluralità delle interpretazioni: “Da tutto ciò ho tratto l’idea che la storia non è una cosa consolidata; o meglio, che i fatti e i dati sono consolidati, ma che l’interpretazione e la visione di essi cambia continuamente. Insomma ogni ‘presente’ cambia la visione del passato.” (18)
Il pensiero non ha nessuna realtà definita da adeguare, perché non esistono realtà, per così dire, oggettive, compiute, esterne al soggetto, all’atto col quale il soggetto le evoca e le conosce.
E’ chiaro quanto profondamente tale posizione chiami in causa gli individui, gli uomini che sono, infine, coloro ai quali la verità è affidata non perché la cerchino là dove essa si nasconde, ma perché ne facciano il loro impegno.
Nel saggio Il primato del fare, Croce caratterizza la filosofia moderna, e lo storicismo in particolare, per il suo carattere di “mondanità”, ossia per il riconoscimento che essa ha operato del “primato della ragion pratica” e per aver adeguato all’ “infinità del vero” l’ “infinita potenza acquisitiva del vero”. Esplicitamente egli afferma che “la verità non è copia di una realtà trascendente e assoluta” e che “le proposizioni differiscono tra loro non in rapporto a questa presunta realtà oggettiva.”
Sono dunque i diversi punti di vista, le possibili prospettive dell’osservatore, le sue esigenze storicamente determinantesi, ad orientare il suo atteggiamento nei confronti di un determinato oggetto. Oggetto, è necessario precisare, che è, per così dire, comprensivo della soggettività stessa, mai indipendente da essa perché considerato (forse potremmo anche dire “chiamato in vita”) secondo una prospettiva, secondo precise esigenze pratiche e conoscitive, nell’orizzonte di punto di vista storici e soggettivi.
Si modifica e si compie, così, anche la teoria diltheiana secondo la quale vi sono due diversi modi di concepire la realtà oggettivamente determinati dalla realtà stessa, dalle sue diverse, intrinseche, caratteristiche. Nella prospettiva crociana, la verità non si costituisce né nella oggettività né nella soggettività, ma nella loro dialettica reciprocità, nel loro rapporto. (19). La coscienza, per usare un termine medievale caro ad Husserl, è intenzionalità, è sempre intenzionata nei confronti di un oggetto che essa stessa costituisce come tale (20). D’altro canto, la coscienza, o soggettività o come altro si voglia definirla, nel determinare la realtà, nel selezionarla, per così dire, è parte essa stessa di questa realtà, per cui solo apparentemente sembra che l’una possa modificare l’altra o viceversa. Ciò perché la realtà, come la ragione umana che ne è parte, è unità, e non vi sono, al suo interno, lacerazioni né divisioni di sorta: soggetto e oggetto sono nient’altro che la loro relazione. Questa come quella è un composto unitario, di cui ogni parte è relazionata al tutto e, come prodotto del fare umano, contiene e rispecchia in sé i caratteri di quel fare. Vichianamente, categorie e potenze del fare, verum et factum, coincidono.
Tale premessa è indispensabile giacché bisogna costantemente tenere presente che, discutere delle categorie, per quanto astratto possa apparire, significa sempre anche, concretamente, realisticamente, discutere della natura stessa della più tangibile e materiale realtà. La realtà storica, come si diceva un tempo la realtà esterna, non è divisa in comparti, e neanche in categorie.

Idealità della distinzione e unità del reale: dalla dialettica degli opposti al circolo dei distinti
Le categorie crociane sono quattro, indivisibili, inseparabili ma distinguibili logicamente: due di esse, secondo la terminologia del filosofo, appartengono alla sfera pratica dell’umano agire, due a quella teoretica, conoscitiva. Sul piano pratico, dell’azione, della non-teoresi, l’uomo produce due diversi ordini di azioni: quelle utili e quelle morali, quelle legate alla sfera dell’individualità e quelle volte al bene della collettività e alla storia della civiltà.(21) Sul piano teoretico, l’uomo intuisce la realtà percependola nella sua individualità attraverso i sentimenti e le sensazioni che essa suscita in lui. Oppure la conosce, dopo averla intuita, attribuendole una ragion d’essere, conferendole significato, senso e valore in rapporto con le altre individualità. Ciascuna categoria, in sede logica, ha un suo ambito specifico, definito, autonomo. Un’azione che stiamo valutando dal punto di vista della sua efficacia, della sua utilità, non rimanda ad un’esigenza insoddisfatta di moralità: essa va giudicata secondo la categoria dell’utilità e non riprovata, ad esempio, perché utile soltanto al singolo individuo, efficace limitatamente alla sua sfera egoistica. Così un’opera d’arte non è, come la tradizione razionalistica pretendeva fino ad Hegel, una conoscenza imperfetta che anela ad essere perfezionata e riscattata dall’intervento di categorie razionali o “più razionali”. Né può essere condannata moralisticamente perché indecente o disimpegnata sul piano etico. Nessuno, del resto, ha mai realmente giudicato il valore di un artista in quanto artista in base alla sua condotta morale o ai guadagni realizzati, ossia da un punto di vista etico e meramente utilitario.
In questo senso ogni categoria è un distinto (22). Ha, in altri termini, una propria autonomia, uno statuto che la definisce e secondo il quale soltanto è lecito giudicare i suoi prodotti. Prodotti, è bene chiarire, che sono, peraltro, sempre prodotti dell’insieme intero delle categorie, nella terminologia crociana di tutto lo spirito e, dunque, non sembri contraddittorio con quanto appena detto, analizzabili dal punto di vista di ciascuna di esse. Il punto è che non vanno confusi i punti di vista: le distinzioni sono logiche, ideali, mai reali. (23) Quando si vuole, ad esempio, giudicare artisticamente un’opera, non ci si deve domandare se essa esprima contenuti eticamente positivi. Ciò non toglie, d’altro canto, che vi sia sempre la possibilità di giudicare una data opera sul piano etico. In questo caso poco interesseranno i suoi pregi estetici.
Tale, in sintesi estrema, la teoria dei distinti e in essa la riforma della dialettica hegeliana che Croce opera (24). I distinti non sono opposti che attendono, come realtà imperfette, un’ulteriore sintesi che li superi: all’arte non si oppone la filosofia, né questa rappresenta una migliore e più alta prospettiva rispetto a quella. L’opposizione è interna a ciascuna categoria, è logica, non reale: all’arte si oppone la non-arte, al bene il male, e così via. E ciò perché, vale la pena ripeterlo, un’opera d’arte realizza sempre appieno la umana necessità di esprimere l’intuizione che si ha di un determinato, individuale aspetto della realtà e della vita, così come una fruttuosa operazione finanziaria appaga il desiderio di ciascuno di noi di soddisfare le esigenze o le ambizioni personali. Anche se, non va dimenticato, alla realizzazione di una qualsiasi opera concorre sempre tutto lo spirito, come afferma Croce, che è poi il motivo per cui è possibile giudicare la realtà da più di un punto di vista.
E’ lecito anche, se mai si volesse, identificare l’opposto con il diverso, dire che all’arte si oppone la filosofia in quanto non-arte ma, con essa, le si oppone tutto l’universo in quanto diverso (25). Anche affermare che un dato oggetto è, poniamo, una penna, significa negare che esso sia tutto il resto, tutto quanto non è quella penna. Ma non si tratta di un’opposizione fra due termini, di un procedimento binario, si potrebbe dire in linguaggio matematico.
E’ a partire da questa concezione della dialettica, che Croce nega la linearità del divenire, la filosofia della storia, la sua deducibilità aprioristica ed approda, in certo qual senso, ad una posizione più vicina alla teoria dello slancio vitale teorizzato da Bergson.
Nella riforma crociana della dialettica, nella quale gli opposti sono, come si è detto, logici e non reali, non rimane naturalmente, spazio al non essere, ossia alla non-arte, al male, all’inutile, al falso (26): sebbene ogni aspetto dato della realtà solleciti l’uomo a superarne i limiti, che inappellabilmente appartengono a ciò che è in fieri, transeunte, soggetto al divenire, aperto verso il futuro, verso il non-essere-ancora (27). Ma non è logicamente possibile pensare il nulla, il vuoto, il non-essere, né peraltro mai ci è capitato di imbatterci, nella nostra vita concreta, si potrebbe dire percettiva, in niente di simile. Ciò che allora è non-arte, ad esempio, sarà filosofia, storiografia, demagogia, o tentativo riuscito di guadagnare successo e denaro. Ogni opposto, logicamente interno ad una categoria distinta, sarà sempre prodotto di un’altra categoria, disvalore secondo determinati principii e da determinate prospettive, valore secondo altri.

Il giudizio e la storia
Le categorie dunque che, in senso kantiano, si predicano della realtà nel giudizio, sono in Croce i quattro distinti attraverso i quali l’uomo conosce e produce, a un tempo, i diversi aspetti di un’unica, indivisibile, realtà che può essere, di volta in volta, e secondo le nostre esigenze storiche, indagata dai diversi punti di vista che contiene in sé, ossia dal punto di vista etico, o pratico-economico, artistico, filosofico e via discorrendo. Come per Kant, anche in Croce la conoscenza si identifica con il giudizio sintetico a-priori, unità di soggetto e predicato, che nel filosofo italiano viene messo in movimento, entra nella storia e nella realtà, si fa giudizio storico. La conoscenza, universale nella sua forma, ossia nel procedimento che la determina, è sempre giudizio espresso da un individuo su uno spaccato individualizzato della realtà, in un dato tempo della storia. E’ storico sia perché avviene nella storia e sulla storia, dal momento che tutta la realtà non è altro che storia(28), divenire, e perché si fa storia a sua volta, tesse la storia (29). “Non basta dire, scrive infatti Croce, che la storia è il giudizio storico ma bisogna soggiungere che ogni giudizio è giudizio storico, o storia senz’altro. Se il giudizio è rapporto di soggetto e predicato, il soggetto, ossia il fatto, quale che esso sia, che si giudica, è sempre un fatto storico, un diveniente, un processo in corso, perché fatti immobili non si ritrovano né si concepiscono nel mondo della realtà. E’ il giudizio storico, continua il filosofo, anche la più ovvia percezione giudicante (se non giudicasse, non sarebbe neppure percezione, ma cieca e muta sensazione): per esempio, che l’oggetto che mi vedo innanzi al piede è un sasso, e che esso non volerà via da sé come un uccellino al rumore dei miei passi, onde converrà che io lo discosti col piede o col bastone; perché il sasso è veramente un processo in corso, che resiste alle forze di disgregazione o cede solo a poco a poco, e il mio giudizio si riferisce a un aspetto della sua storia.”(30).
La storicità del giudizio, vincola l’uomo moralmente (31), giacché egli non può contare su regole astratte cui fare riferimento, né su rivelazioni alle quali ricorrere e deve, come vedremo più avanti, fondare la propria azione sulle scelte che compie nella situazione che vive in quel momento. Ogni scelta umana è infatti legata al giudizio, che si emette al cospetto della situazione che ci si trova a dover affrontare. Destinato a rientrare nella storia contribuendo al suo corso, il giudizio inchioda l’uomo ad un senso di responsabilità cosmica, per così dire, al quale mai egli può sperare di potersi sottrarre.
Con ciò non si vuol affermare, naturalmente, che l’individuo sia imediatamente responsabile di ciò che Croce definisce l’accadimento. Ciò che si vuol sostenere è che ogni nostra azione, anche la apparentemente meno significativa, entra a far parte del tutto, contribuisce per parte sua a determinarlo e a modificarlo. E’ forse in questo senso che Edgar Morin parla di “comunità di destino”, soprattutto a proposito della tutela ambientale, alla quale ognuno deve responsabilmente contribuire in una dimensione comunitaria, e dunque etica, dell’individualità .
Nell’orizzonte dello storicismo assoluto, la stessa filosofia, concepita come metodologia della storia, abbandona le antiche pretese assolutistiche e metafisiche ed apre, come afferma Raffaello Franchini, la sua elaborazione sull’infinito (32).
Va infatti precisato chese il giudizio storico è sempre universale, nessun giudizio può essere emesso sulla totalità o sull’universalità della storia giacché la realtà stessa, nella sua totalità, è in fieri, come del resto anche le più moderne teorie scientifiche sostengono allorché si parla, ad esempio, di universo in espansione. Nessun uomo, come abbiamo visto, nemmeno voltandosi indietro al passato in apparenza già concluso, o ad un oggetto, apparentemente definito nella sua forma ed essenza, può cogliere l’interezza del loro significato come fosse un dato non più capace di evolversi in infinite, impercettibili e imperscrutabili possibilità fattuali o interpretative. E non è dato, liebnitzianamente, se non a Dio, che l’immanentismo crociano ha escluso per sempre dalle possibilità della logica, avere presente l’interezza del divenire, sia in senso temporale che in senso, per così dire, spaziale. Il divenire, poi, è, laicamente, affidato alle cure delle braccia e delle menti degli uomini che lo rendono, di volta in volta, attuale.
In questa stessa direzione si muove il pensiero ermeneutico di Gadamer, che oggi si cerca di accostare per tanti rispetti allo storicismo italiano. E’ suggestiva, proprio per le affinità che mostra con la posizione crociana, questa affermazione di Gadamer che ci sembra utile riportare. Scrive il filosofo tedesco in Verità e metodo: “La tradizione storica si può capire solo nella misura in cui si tiene presente la sua permanente vitalità e lo sviluppo ancora in atto dei suoi effetti; allo stesso modo, il filologo che ha da fare con testi poetici o filosofici, sa che essi sono qualcosa di inesauribile. In entrambi i casi è lo sviluppo dell’accadere ciò per cui l’oggetto di trasmissione storica appare in nuovi aspetti significanti. Attraverso la riattualizzazione che subiscono nell’atto dell’interpretazione, i testi vengono inseriti in un autentico accadere allo stesso titolo per cui gli eventi storici permangono vivi nei loro effetti e sviluppi” (33)
Bergsonianamente, il divenire non segue il disegno destinale di un solo, divino, artefice, sia esso un Dio, l’Idea, l’Essere. Agli uomini è dato cogliere la realtà dal loro limitato punto di vista, la loro realtà, secondo uno spaccato individuale e mutevole che, attraverso il giudizio, trova le connessioni necessarie per rendersi intellegibile, ossia sensata e “spiegabile”. Ma senza di loro la storia non esiste, non ha senso, e nemmeno si fa. E’ l’universale concreto di Hegel che ritorna, per aperta dichiarazione di Croce, nella nuova logica secondo la quale ogni impercettibile atomo della realtà contiene in sé, compresenti, quelle categorie universali di cui essa è, come si è visto, il frutto e mediante le quali ritrova, appunto, il suo nesso con l’intera storia. Una storia che, tessuta dagli individui, non ha un telos che sovrasta e, per così dire, travolge gli individui con la propria interiore e ferrea necessità direzionata. Se il suo disegno globale sembra sfuggire agli individui è perché è inconcepibile, nel pensiero crociano, un qualcosa che abbia contorni finiti, così come uno sviluppo storico leggibile in maniera univoca e complessiva. “Se la storia è razionalità, scrive Croce, una Provvidenza la conduce di certo, ma tale che si attua negli individui e opera non sopra o fuori di loro, ma in loro. E quest’affermazione della Provvidenza è anch’essa non già congettura o fede, ma evidenza di ragione. Senza codesta intima persuasione, chi troverebbe in sé la forza per vivere? Donde trarrebbe la rassegnazione nei dolori, il conforto a resistere e persistere?” (34)

Lo storicismo assoluto: dalla temporalità alla storicità
La negazione crociana della possibilità di cogliere il senso dello svolgimento storico nella sua totalità, la sua negazione di una filosofia della storia, la riforma che il filosofo compie della dialettica hegeliana che della filosofia della storia era il fondamento teorico, conduce dunque all’estremo relativismo? Abbandona l’individuo all’ impossibilità di orientarsi? Lo getta dunque, con l’inesorabilità che deriva dal ragionamento logico, nell’assoluto nichilismo? Dall’ultimo brano crociano che abbiamo citato, si comprende che non è così.
Occorre, a questo punto, fare una premessa che non è secondaria dal punto di vista della comprensione del complesso pensiero crociano. Precisazione che rende, in qualche modo, il senso della ricerca che ci siamo prefissi di condurre. Affermazioni come quelle secondo la quali la realtà è storia, la verità è storica, la comprensione è un fatto storico, intendono attribuire, a nostro avviso, un valore forte alla realtà, alla verità, alla comprensione, sottraendole al pericolo della relativizzazione, della debolezza, della indifferenza alle quali ogni teoria antimetafisica, di fatto, le espone con gravi conseguenze sul piano etico. (35)
Se, infatti, non è possibile cogliere ed interpretare nella sua totalità lo svolgimento storico, è vero altresì che, dall’altro lato, tale svolgimento rappresenta, in ogni suo momento, un unicum, una totalità. Una totalità che, tutta assieme, è in fieri. Il futuro andrà ad inserirsi in essa, a fondersi col passato. Di più, il futuro, per realizzarsi, dovrà proiettare nel proprio orizzonte il passato, lavorarlo e fonderlo dando ad esso nuova vita.
Storicismo assoluto, definizione che lo stesso Croce volle usare per definire la sua filosofia, non è affatto sinonimo di assoluta temporalizzazione. Nei termini crociani, anzi, se solo si pensa al concetto di storia etico-politica ad esempio, si comprende come alla storia sia affidato il compito di fornire senso assoluto ad ogni più piccola e apparentemente insignificante particella di quel processo che, pur non essendo concepito, hegelianamente, in senso rettilineo, totalizzante, è comunque un unicum, all’interno del quale soltanto ogni cosa riesce a trovare una sua collocazione, coordinate proprie, significato, importanza, assoluta necessità. Potremmo dire: solo all’interno della storicità gli accidenti divengono sostanza, acquistano valore, ritrovano le loro relazioni con la storia intera, perdono quelle caratteristiche che sembravano connotarli come estranei ad un processo, lacerati rispetto ad un contesto che potesse conferire loro un senso. (36)
Temporalità e storicità non sono, dunque, nella prospettiva crociana che interessa al nostro problema, da intendesi come sinonimi. Anzi, è vero piuttosto che, se la temporalità sottrae senso, la storicità ne conferisce uno profondo e sostanziale. Ma qual è il procedimento attraverso il quale Croce può affermare tale distinzione e fondare in maniera forte senso, valore e dignità a tutto quanto sembra invece essere transeunte, effimero, caduco, sottoposto com’è alle leggi del divenire? E quale è lo strumento attraverso il quale tutto ciò che è in apparenza accidente si trasmuta in sostanza, ritrovando coordinate e parametri? E come accade che, nell’irrefrenabile divenire della storia tutta, non venga perso il senso di questo divenire, ed esso appaia, pur negandogli Croce ogni direzione determinabile ed univoca, non accidentale e meccanico, ma guidato e governato?
La risposta a questi interrogativi racchiude anche il senso più intimo e peculiare della filosofia crociana, la sua originalità, la sua modernità, il suo valore intrinsecamente e assolutamente liberale.

L’individuo e l’unità della storia
Cominciamo col dire subito che al centro di questa filosofia vi è l’uomo, l’individuo inteso come complesso di razionalità, sentimenti, passioni. Diciamo poi che è l’uomo il luogo in cui la temporalità, nella quale sembrano essere gettati e quasi persi sia l’individuo che la realtà tutta, si tramuta in storicità, ossia ritrova un’unità sostanziale, non certamente quella quantitativa delle storie universali, unità che fornisce il contesto di relazioni all’interno del quale ogni semplice “fatto” può trovare una collocazione, una sua propria ragion d’essere. Di più, attraverso l’uomo quel “fatto” acquisisce nuova vitalità irrompendo nel suo orizzonte progettuale ed intrecciandosi con un futuro non ancora compiuto, non ancora scritto.
Questa, che potremmo definire trasmutazione della temporalità in storicità si compie, nei termini del pensiero crociano, nel rapporto teoria-prassi e si realizza sempre e soltanto attraverso le individualità storiche. L’uomo, per potere agire, pensa, conosce, né, va subito aggiunto per sgomberare il terreno da ogni tentazione di stabilire primati metafisici (o temporali, che a questo proposito sarebbe lo stesso), conoscerebbe mai alcunché se non vi fosse condotto da un bisogno, da una necessità della vita, e l’oggetto di quel pensiero, quel pensiero stesso, egli inserisce nel suo proprio orizzonte progettuale unificando (con un’unificazione che non è identificazione) passato e futuro, teoria e prassi.
Proviamo a chiederci, di quale materiale, per così dire, si avvale l’umanità per costruire la storia futura? Secondo il pensiero di Croce, ed è qui il passaggio fondamentale a nostro avviso, l’uomo utilizza il passato, ossia la storia passata, che plasma di nuovo secondo la propria prospettiva e riporta nel proprio orizzonte d’azione, intreccia quel passato alla propria interpretazione e fa di questa la guida per il proprio futuro. In questo processo il divenire si sostanzia, si fa unità ed in questo senso le categorie interpretative sono potenze del fare. Come afferma Croce, “le categorie che formavano i giudizi, operano non più come predicati di soggetti, ma come potenze del fare”. (37) In questo processo, ancora, l’individualità supera la dimensione puramente razionale in cui la tradizione filosofica l’aveva relegata fino al primo Kant ed entra in carne ed ossa sulla scena della vita. (38)
Ci sembra doveroso, a questo punto, per meglio comprendere il nostro tema, fare una breve ma necessaria precisazione. Avendo Croce negato, come abbiamo visto, valore reale alla distinzione, che ha senso solo sul piano logico, egli nega anche il concetto di un prima e di un dopo reali. Viene prima il pensiero o prima l’azione? Ora, essendo la realtà compresenza dei due termini, sarà azione tutto quanto (compreso il frutto del pensiero stesso) è, in questo momento, oggetto del pensiero. Scrive infatti Croce che “se il conoscere è necessario alla praxis, altrettanto la praxis è necessaria al conoscere, che senz’essa non sorgerebbe. Circolarità spirituale, che rende vana la domanda del primo assoluto e del secondo dipendente col far del primo perpetuamente un secondo, e del secondo un primo”. (39)
Tornando al nostro problema, proviamo a dire di più. Nel momento in cui conosce, l’individuo conferisce senso, al passato, al presente, a se stesso, alle proprie ambizioni, ai propri progetti. E’ in ragione di quel senso che egli ha saputo “trovare” in ciò che gli interessa, che egli agisce, guidato, dunque, da un progetto che non è cieco ma è esso stesso guidato dal giudizio formulato. Ecco perché, da questo punto di vista, si è potuto affermare che il giudizio che, di fatto si esercita sempre sul passato, o sulla situazione di fatto che, agostinianamente, si ritrae immediatamente nel passato, è invece collocabile nel nostro futuro, ossia nella nostra prospettiva.
In questo processo ogni uomo è solo: non ha modelli precostituiti, se non quelli che ha egli stesso stabilito di eleggere a propri modelli; non ha modo di adeguarsi al corso delle cose, perché è egli stesso a stabilire quale corso avranno le cose per quanto lo riguarda, e a decidere se impegnarsi a mutare o a supportare (che è sempre un agire nuovo) condizioni già definite a seconda di quanto riterrà giusto o conveniente fare. Egli è solo come ogni uomo libero e, come ogni uomo libero, è responsabile delle scelte che prenderà. Per questo motivo abbiamo innanzi affermato che una concezione storicistica della vita inchioda l’uomo alla propria responsabilità. (40)
Abbiamo visto, analizzando la posizione crociana in merito alla responsabilità dell’individuo, che essa sembra oscillare. Talvolta l’individuo viene concepito come libero e responsabile, altre volte la sua volontà sembra stretta dalla condizione in cui opera, la sua responsabilità si sottrae alla sfera individuale e sembra appartenere ad altri, che fanno responsabili gli individui con le loro leggi e le loro regole.
Ma il problema della responsabilità è legato al rapporto teoria-prassi giacché l’azione, la storia, che scaturisce dal giudizio, il pensiero, non è determinata da quel giudizio. Se ciò accedesse, l’azione non sarebbe libera, il processo sarebbe governato dalla meccanicità e, soprattutto, fra pensiero e azione verrebbe a cadere la distinzione che, come abbiamo visto, è garanzia del divenire.
Nel saggio Il carattere preparante e indeterminante della storiografia rispetto all’azione, Croce chiarisce la sua posizione. “E’ chiaro dalle cose dette, scrive, che il rapporto fra storiografia e attività pratica, tra conoscenza storica e azione, pone bensì un legame tra le due, ma non punto un legame casualistico e deterministico. L’azione ha a suo precedente un atto di conoscenza, (…) ma, in quanto azione, sorge soltanto da un’ispirazione originale e personale, di qualità affatto pratica (…).” (41)
Un esempio, espresso con molta chiarezza, della fondatezza della posizione crociana, e dell’incontrarsi di pensieri apparentemente distanti fra loro, viene da un filosofo lontano dalla tradizione storicistica, Edgar Morin, il quale, discorrendo della sua formazione, ricorda: “All’Università è arrivato un professore di storia, di nome Giorgio Lefevre, storico della rivoluzione francese, che ci ha fatto un corso sull’origine della rivoluzione. Egli ha dimostrato che all’origine di essa c’è stata una reazione aristocratica, che voleva approfittare della debolezza del potere reale, perché in Francia la monarchia assoluta nel ‘600 aveva tolto ogni potere all’aristocrazia.”
Morin continua narrando le vicende che portarono alla convocazione degli Stati Generali, alla certezza del clero e dell’ aristocrazia di poter contare sulla maggioranza dei voti, all’innesco della rivoluzione da parte del terzo stato.
“L’idea importante, commenta, che si desume da questo avvenimento è che il risultato di un’azione non risponde al desiderio e all’aspirazione di coloro che l’hanno iniziata”. E conclude: “io ho chiamato questo fatto ‘economia dell’azione’. Intendo con ciò dire che quando si comincia un’azione, essa entra in un gioco di interrelazione, di interazione e di retroazione con l’ambiente politico e sociale circostante. Allora può succedere che essa ritorni come un boomerang sulla testa di colui che ne è stato il promotore. E questa è una cosa banalmente comune nella storia e nella vita umana.” (42)
Il pensiero crociano, d’altro canto, ha influenzato molti settori della filosofia costituendo certamente un precedente della cosiddetta filosofia ermeneutica. Basti pensare all’influenza che ebbe su Gadamer il pensiero di Collingwood la cui teoria della logica come risposta a domanda è, sostanzialmente, la teoria crociana fin qui riassunta (43)

Note

1. Croce fondò l’ “Istituto per gli studi storici” a Napoli, nel 1946, anche se il proposito era nato molti anni prima, già sul finire della prima guerra mondiale. Ne redasse lo Statuto nel quale era dichiarata l’ispirazione vichiana e l’intento di contribuire “alla formazione e all’accrescimento della classe intelligente e dirigente del nostro paese”.
2. B. Croce, Dieci conversazioni, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli, 1993, p. 6. Il saggio a cui ci riferiamo fu pubblicato nel volumetto Storiografia e idealità morale, Bari, Laterza, 1950.
3. Ivi, p.9
4. Ibidem
5. L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano, 1971, p.17
6. Si confronti R. Franchini, Teoria della previsione, Giannini, Napoli, 1964 e il volume Il sofisma e la libertà nel quale la questione è approfondita sul terreno etico-politico già sondato in altri scritti .
7. L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano, 1971, pp.17-18
8. Accanto alla bibliografia, per così dire, classica sull’argomento, innanzitutto il fondamentale saggio crociano Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, e l’opera gentiliana La riforma della dialettica hegeliana del 1913, Croce chiarisce la sua posizione nei confronti dell’idealismo considerato come neologismo nel famoso saggio Il concetto della filosofia come storicismo assoluto, in Il carattere della filosofia moderna, Laterza, Bari, 1941. Rimandiamo inoltre a Girolamo Cotroneo, Un idealismo anomalo, in Questioni crociane e post-crociane, ESI, Napoli, 1994
9. Si confronti R. Franchini, L’idea di progresso, Giannini, Napoli, 1979
10. Si confronti B. Croce, Filosofia della pratica, Laterza, Bari, 1908
11. Si confronti B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Laterza, Bari, 1917 e La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari, 1938
12. Non è un caso che Girolamo Cotroneo, sia quando si è trattato di riconsiderare il presunto idealismo di Croce, che quando si è trattato di comprendere il suo liberalismo, di origine storicista e non empirista e razionalista, abbia usato l’aggettivo anomalo. In entrambi i casi, a leggere i saggi di Cotroneo, e a tener presente l’intera sua impostazione, non si tratta, evidentemente, di una svalutazione ma di una connotazione che individua assieme la problematicità e l’originalità del pensiero del grande filosofo.
13. R. Franchini, Pensieri sul “Mondo”, a cura di R. Viti Cavaliere, C. Gily Reda, R. Melillo, Napoli, Luciano editore, 2000, p.25
14. B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, in Saggio sullo Hegel, cit, pp148-149
15. Nell’Estetica Croce afferma che “le cose sono intuizioni”.
16. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari, 1973 (1938), p.31
17. E. Morin, Lezioni messinesi, a cura di Annamaria Anselmo e Giuseppe Gembillo, Armando Siciliano editore, Messina, 2006. Il volume riproduce tre lezioni che Edgar Morin tenne all’Università di Messina nel marzo del 2002.
18. Ivi, p. 34.
19. Si confronti R. G. Collingwood, Tre saggi di filosofia della storia, Liviana editrice, Padova, 1969. E’ interessante infatti notare come, nella concezione storiografica riassunta da Collingwwod in questa sua prospettiva, ritorni quella logica di domanda e risposta che è l’evidente trasposizione della logica crociana e della sua successiva teoria della storia come storia contemporanea.
20. Esiste un criterio che ci consenta “oggettivamente”, ci si scusi il bisticcio, di definire oggetto un oggetto? In realtà siamo noi, nel momento in cui prendiamo in considerazione questo o quell’avvenimento, o un insieme di avvenimenti ad attribuire loro la caratteristica di essere oggetti della nostra attenzione e considerazione. E’ il punto di vista a fare di un oggetto, o di un loro insieme spaziale o temporale, un oggetto. In questo senso il soggetto è parte dell’oggetto che indaga, l’esperimento asettico e assolutamente valido non è possibile. A questo proposito si confronti il volume di R. Franchini, L’oggetto della filosofia, Giannini, Napoli, 1967 e il saggio di G. Gembillo, Il giudizio prospettico e la fisica contemporanea, in AA.VV., Il diritto alla filosofia, a cura di G. Cotroneo e R. Viti Cavaliere, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002. In L’idea di progresso (Giannini, Napoli, 1979), Franchini cerca di definire la natura di ciò che noi abbiamo chiamato oggetto ma che il pensatore napoletano chiama, più appropriatamente “fatto storico” e scrive: “I fatti in realtà non sono cose che si possano vedere, prendere o spostare a piacimento e nemmeno sono classificabili secondo i contenuti; la distinzione, ad esempio, fra fatti storici e fatti naturalistici è del tutto arbitraria e di comodo.” Poco più avanti, dopo aver affermato la irripetibilità di un fatto storico, aver ribadito che esso è sempre un “farsi”, e aggiunto che “un fatto è pur sempre un’interpretazione, una scelta dello storico o dell’uomo”, conclude che esso “non è mai neutrale perché è pur sempre una creazione dello storico, sia pure operata con tutti i crismi dell’attendibilità: non è una fantasia, non è un romanzo ‘misto di realtà e d’invenzione’, ma è pur sempre un’angolazione, una prospettazione, una rievocazione ‘interessata'” (pp. 22-24)
21. Si confronti B. Croce, Filosofia della pratica, Laterza, Bari, 1918
22. Si confronti B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Laterza, Bari, 1905-1909
23. E’ questo il motivo per cui non ha senso, secondo la filosofia crociana, discutere del cominciamento. La realtà è sempre e solo una, non si può distinguere in essa il prima e il dopo esattamente come non è possibile scinderla nei suoi aspetti. Questi possono essere distinti in sede logica, mai scissi e distinti nella realtà.
24. Per la riforma della dialettica hegeliana operata da Croce, si confronti Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, ora in Saggio Sullo Hegel, Laterza, Bari, 1909.
25. Raffaello Franchini, nel volume Le origini della dialettica (Giannini, Napoli, 1976), con forte acume critico scorge nella filosofia platonica le origini, non solo della dialettica in generale ma, in particolare, di quella che sarà poi la compiuta riforma crociana della dialettica in logica dei distinti o logica della circolarità. Platone, di fronte al grande problema lasciato aperto dalla filosofia di Parmenide, ossia il problema della impossibilità di qualificare il non-essere, propone la qualificazione dell’opposto dell’Essere come si un diverso rispetto a ciò che noi riteniamo essere l’Essere. Nei termini crociani, il negativo è sempre un negativo in relazione a un positivo ma, al tempo stesso, è una qualificazione, per cui serve per riconsiderare la questione dal punto di vista della complessiva relazione.
26. Va detto che nemmeno in Hegel, né in Marx, rimaneva, propriamente, spazio al nulla, giacché il non essere, il negativo, era comunque un momento concreto, e dunque positivo, sia pure in senso temporale oltre che logico, del divenire.
27. Rimandiamo alla riflessione di R. Franchini, che ha fatto tesoro delle suggestioni heideggeriane riguardo alla concezione dell’esserci come essere che vive nella temporalità, proiettato vero il futuro, verso il “non ancora”.
28. Si confronti D. D. Roberts, Nothing but History, University of California Press, 1995
29. Qui si situa la differenza sostanziale con Kant: la storia, nella quale è immerso il giudizio che ritorna ad essa mediante l’azione, o volizione di un individuo che, anche nell’orizzonte conoscitivo, non è più solo considerato nella sola dimensione della pura razionalità, ma è individuo concreto, intero.
30. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit, p. 23
31. Croce nega che l’uomo sia vincolato moralmente dalla storicità del giudizio, che tiene a distinguere dalla prassi, dunque dalla moralità. In Franchini invece, la dimensione morale, la responsabilità degli individui, pur nella fermezza della distinzione e nella indeterminatezza dell’azione rispetto al pensiero, si fa più viva e presente. Anche Antoni, come vedremo, reclama un orizzonte di responsabilità meno rarefatto.
32. Si confronti R. Franchini, Metafisica e storia, Giannini, Napoli, 1977, p. 79. Sul tema si leggano inoltre, fra gli altri, il saggio crociano La filosofia come idea antiquata o l’idea antiquata della filosofia, in La storia come pensiero e come azione, cit.,
33. H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1983, p. 431
34. B. Croce, Filosofia della pratica, cit., p. 182
35. Si confronti R. Franchini, Storicismo e relativismo, in Esperienze dello storicismo, Giannini, Napoli, 1953 e il già citato volume di C. Antoni, Lo storicismo, ERI, Torino, 1957
36. Si confronti R. Franchini, La teoria della storia di Benedetto Croce, a cura di R. Viti Cavaliere, Esi, Napoli, 1995
37. B. Croce, La Storia come pensiero e come azione, cit., p.39.
38. Girolamo Cotroneo, nella Prefazione all’edizione postuma di Teoria della previsione di Raffaello Franchini, (Siciliano, Messina, 2001), mostra come il Kant della prima Critica viene modificato dal Kant della Critica del giudizio nella quale si mostra che il particolare non è più sussunto sotto l’universale e così il giudizio perde il carattere puramente determinante. Qui l’origine fondamentale che Cotroneo rinviene del futuro pensiero crociano e, naturalmente, della rielaborazione critica che Franchini ne compie.
39. B. Croce, La distinzione di azione e pensiero, in La storia come pensiero e come azione, cit., p. 31
40. Nella Filosofia della pratica, a proposito della libertà di scelta, Croce chiarisce che “bisogna guardarsi dall’enunciare questo rapporto in forma falsa, come accade nella cosiddetta teoria della l i b e r t à d i s c e l t a, nella quale la volontà viene concepita come facoltà che sceglie una volizione tra le altre e la fa sua. La volontà non isceglie una volizione (fuorché per metafora), ma sceglie, per così dire, la scelta stessa, ossia si fa volontà tra i desideri, che non sono la volontà.” E chiaro che qui Croce non nega la libertà bensì la libertà come pura immaginazione, come puro ottativo e non come concreta scelta in una condizione storica reale. Si può scegliere fra due possibilità, non fra due impossibilità puramente immaginate o fra una possibilità e una impossibilità. (p. 158). Ancora nella Filosofia della pratica, Croce ritorna sulla questione della libertà della volizione: “In effetto, scrive, la volizione nasce (…) non già nel vuoto ma in una situazione determinata, con dati storici e ineliminabili, sopra un accadimento o complesso di accadimenti,i quali, poiché sono accaduti, sono necessari. A quella situazione la volizione è correlativa, e staccarnela sarebbe impresa vana: variando la situazione, varia la volizione; tale la situazione, tale la volizione. E ciò importa che essa è n e c e s s i t a t a, ossia condizionata sempre da una situazione, e da quella, per l’appunto, sopra cui sorge.” E aggiunge subito dopo: “Ma ciò importa insieme che la volizione è l i b e r a. Perché, se la situazione di fatto è la condizione, la volizione in quanto tale non è la condizione, ma il condizionato; e non si sta ferma alla condizione di fatto, né la ripete col formarne un duplicato(…). La volizione produce alcunché di diverso, cioè di nuovo, che prima non esisteva e ora viene all’esistenza; ed è iniziativa, creazione, a t t o d i l i b e r t à. Se così non fosse, la volizione non sarebbe volizione, e la realtà non cangerebbe, non diverrebbe, non crescerebbe sopra se stessa.” Infine conclude il suo ragionamento riassumendo la sua posizione: “Come senza necessità non si ha libertà, perché senza situazione di fatto non si dà volizione, del pari senza libertà non si dà necessità, ossia non si formano le situazioni di fatto, sempre nuove e necessarie rispetto alle nuove volizioni…” (pp. 131-132)
41. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit., p. 171
42. E. Morin, Lezioni messinesi, a cura di A. Anselmo e G. Gembillo, Siciliano, Messina, 2006, pp. 32-33
43. Si confronti H. G. Gadamer, Verità e metodo, cit., pp. 427-437

CAPITOLO V

L’apologia dell’individuo in Carlo Antoni
Se è vero, come già affermava Kant, che a volte un interprete può comprendere meglio dello stesso filosofo studiato il suo pensiero, è altrettanto vero che è regola di prudenza ermeneutica riferirsi innanzitutto a ciò che l’autore stesso ha chiaramente e fermamente dichiarato. Senza lasciare spazio ad ambiguità o a perplessità.
Così Carlo Antoni, presentando il suo La restaurazione del diritto di natura del 1959, riassume la propria posizione filosofica e, assieme, dichiara la sua posizione politica, a quella strettamente connessa. Scrive, a proposito dei saggi che compongono il volume: “La raccolta potrebbe essere considerata un mio secondo Commento (1) che però riguarda il pensiero crociano nei suoi riflessi politici. Ma come, in quel mio libro, dall’illustrazione dello storicismo crociano traevo la necessità di svolgerlo ulteriormente nel senso di un’affermazione teoretica del concetto di individuo, qui, sul terreno della politica, ho avvertito la necessità di porre questo medesimo concetto a fondamento del liberalismo crociano.”(2)
E qui già si impone una rapida riflessione: l’evidenza che Antoni non voglia pur riproponendo il giusnaturalismo, in nessun modo “superare” o contraddire il pensiero di Croce ma, appunto come afferma, svolgerlo in tutte le sue possibili conseguenze. Ma appare a tutti chiaro, d’altro canto, come in questa ermeneutica, per tanti aspetti, il pensiero di Antoni sembra invece andare ben oltre quello del suo maestro.
Antoni così precisa il suo pensiero per evitare equivoci ponendo, al tempo stesso, una questione di non facile risoluzione filosofica e dagli ampi risvolti etico-politici. Scrive infatti: “L’individuo del vecchio giusnaturalismo era però un utilitaristico contraente di un patto. Anche in seguito individuo ed egoismo sono stati sinonimi. (…) Era necessario pertanto, spezzare l’equazione, così da porre a base di un nuovo giusnaturalismo il concetto dell’individuo come fonte di tutti i valori universali e da sostituire al concetto del patto sociale, come principio e criterio della struttura e legislazione dello Stato, questo universale concetto.” (3)
Antoni quindi ritorna a riflettere su se stesso, sul lavoro svolto in quegli anni difficili e scrive: “Riaffermando nel Commento a Croce il concetto di individuo, avevo dato espressione ad un’esigenza sentita e manifestata anche da altri interpreti e critici del pensiero crociano (…)L’apologia dell’individuo, qui trasferita dal campo speculativo a quello politico, sociale, economico, apparirà a molti, che si ritengono all’avanguardia del progresso umano, come un anacronistico ricorso di vieti e superati motivi, dettato da retrivi interessi. A costoro dichiaro che se a questa apologia ho dedicato agli anni della mia maturità e se oggi mi risolvo a renderla pubblica, vi è che la considero una liberazione dalle idolatrie più opprimenti e più inumane del nostro tempo, rispondente all’aspirazione profonda del nostro tempo angosciato.” (4)
La posizione di Antoni si articola dunque su tre livelli che, naturalmente, si intersecano e si condizionano vicendevolmente. Quello squisitamente filosofico, che pone la questione della sostanza, o della natura dell’individuo e della sua pensabilità; quello storiografico che tende a ricostruire, nell’angolatura dello storicismo crociano, il processo che conduce alla discussione contemporanea e quello etico-politico, che prova a rintracciare il ruolo che l’individuo svolge nell’azione.

La natura dell’individuo

In Commento a Croce, l’autore proclama apertamente la sua adesione al concetto crociano di individualità. Scrive infatti: “Se vi è una filosofia, che è tutta una celebrazione dell’individualità, questa è la filosofia crociana. E’ una filosofia dello spirito universale, che è reale solo in quanto si individua e si fa quindi soggetto di storia. E’ così che essa elimina il dualismo di storia e di metafisica o teologia, ed essa ha potuto esser fraintesa come un culto delle cose finite, proprio perché, escludendo un infinito vuoto ed astratto, vede l’infinito nella sua concreta individuazione.” (5)
Il filosofo triestino, per chi conosce le polemiche sorte attorno alla filosofia crociana, dichiara con fermezza che non si può accusare Croce di aver sottovalutato l’individualità o di averla annegata nello Spirito o nel provvidenzialismo, e così via. Già per Hegel, teorizzatore dell’universale concreto, ma ancor più per Croce, non è lecito, secondo Antoni, pensare ad una filosofia metafisica che intenda oltrepassare la storicità concreta nella quale sempre opera l’individualità in tutti i suoi aspetti.
Ristabilita dunque una corretta interpretazione del pensiero crociano, Antoni affronta il tema di fondo, di cui già si è discusso precedentemente, che è quello del riconoscimento dell’individualità soltanto attraverso l’opera. E Antoni, fino ad un certo punto, concorda con Croce, sostenendo infatti che la critica crociana all’individuo astratto, all’individuo empirico, all’individuo, potremmo dire della carta di identità, è una critica giusta e sensata.
E’ l’opera, come si è visto, piccola o grande che sia, opera di pensiero o opera pratica, ciò che veramente ciascuno di noi realizza e che, concretamente, resta di noi nella storia. Ma, si chiede Carlo Antoni, esplicitando il suo dissenso, è possibile immaginare una vita dell’opera totalmente distaccata dall’individuo che l’ha creata? E, se così fosse, quale sarebbe mai la responsabilità che l’individuo ha dell’opera stessa? Si finirebbe con il tranciare di netto il legame fondamentale che costituisce l’etica e che, forse diremmo con linguaggio contemporaneo, la responsabilità con l’etica della responsabilità. Si spezzerebbe anche l’altro fondamentale legame, quello dell’individuo con l’universalità, in quanto solo l’opera entrerebbe in relazione dialettica con il tutto, con lo scorrere e il divenire della storia, mentre all’individuo in carne ed ossa rimarrebbe la sola funzione che il vecchio Croce individuò nella categoria della vitalità. Un Io individuale che si sostanzia soltanto della sua volontà utilitaria di soddisfare le sue esigenze e i suoi bisogni.
Ciò detto, però, Antoni, come è il suo solito procedere, riconquista, per così dire, il pensiero di Croce, ritrovando, ancora una volta, la soluzione del problema all’interno della filosofia del maestro. “Come si è visto, scrive, la categoria crociana non è la categoria aristotelica che resta al di fuori dell’ineffabile sinolo. Né vi è, nel sistema crociano, un’esistenza separata dal valore, ché giudizio di esistenza e giudizio di valore coincidono. Né, infine, vi è l’accidente che resti fuori dall’universale concetto. La categoria è l’eterna madre, che tutta s’incarna in tutta la sua creatura. Questa creatura, però, è l’intera vita individuale, nella sua unità e continuità di svolgimento. Questa forza vivente, che opera dalla nascita alla morte, costituisce individualità, di cui i singoli ‘atti’, le singole ‘opere’ sono fasi, che non si possono intendere isolatamente, cioè astrarre. In ogni opera d’arte, in ogni trattato filosofico, in ogni impresa noi avvertiamo la presenza inconfondibile di quella concreta determinazione dell’universale vita, che è l’irripetibile individuo. Poiché l’individualità dell’autore non è separabile, se non per convenzione, dalla individualità dell’opera, si ha un’unica individualità o personalità, che è empirica e insieme ideale.” (6)
Nel volume Lo storicismo, icasticamente, Antoni disegna il suo pensiero nella forma risolutiva: “Comunque si può osservare che la negazione del concetto di individuo rischia di separare ancora una volta l’uomo dalla storia e di togliere alla libertà la sua base. Le opere infatti, attraverso le quali gli individui si inseriscono nel corso della storia e in essa si perpetuano, se assegnate all’Unico Spirito Creatore, cessano di fungere da mezzo nel rapporto tra uomo e storia, e l’individuo, di cui è sottratta la dignità di creatore di valori, rischia di perdere, nella mera vitalità in cui è confinato, il suo diritto alla libertà” (7)

La questione dell’Illuminismo
Sul terreno storiografico un filosofo come Antoni, con la sua formazione e la sua indole, non poteva non recuperare il tema teoretico generale sul terreno dell’indagine storica e, soprattutto, storico-filosofica. Fare i conti, insomma, con l’Illuminismo, ossia con quella grande, irripetibile stagione storica nella quale la concezione giusnaturalista trovò la massima diffusione e la più larga applicazione etico-politica.
Una fable convenue, come sostiene Girolamo Cotroneo nel suo Croce e l’Illuminismo (8), ha voluto presentare un Croce radicalmente antiilluminista. Ma, appunto, si tratta di una favola ermeneutica giacché, come già Antoni mostra, la questione è molto più complessa. Per il discorso del filosofo triestino sarebbe stato facile costruirsi un bersaglio polemico semplice da sconfiggere.
Per chi sostiene infatti la tesi della necessità di un ritorno al Diritto di natura a compimento di un lungo itinerario storicistico, avrebbe potuto rappresentare un vantaggio poter sottolineare la propria distanza del filosofo dello storicismo assoluto, considerato fiero avversario dell’Illuminismo. Ma tutto ciò non corrispondeva alla realtà dei fatti, né ad una corretta interpretazione dell’Illuminismo come del pensiero crociano.
Carlo Antoni tenta invece di recuperare lo stesso storicismo crociano come strumento di un’interpretazione più pacata e comprensiva dell’Illuminismo e della sua portata storica. D’altro canto, è il suo intero percorso culturale che persegue tale fine. Basti pensare al volume La lotta contro la ragione (9) nel quale appunto, mettendo in movimento il suo pensiero e facendo tesoro della sua formazione culturale, fortemente legata alla cultura tedesca, afferma con vigore le ragioni della Ragione, per così dire, ossia dell’Illuminismo anche se, naturalmente, interpretato in maniera ampia e sofisticata, lasciandosi alle spalle le formule e le formulette stratificate della storiografia divulgativa come della propaganda politica.
Centrale, in questo senso, il peculiare Kant dell’Aufklarung.
D’altro canto, qualche anno dopo Girolamo Cotroneo, nella monografia citata, chiarisce fino in fondo la questione, rendendo giustizia a Croce. Egli sostiene, infatti, che l’interpretazione corica, in gran parte favorevole, dell’Illuminismo, non è soltanto, per così dire, metodologica, ma entra anche nel vivo delle questioni concrete e reali. Secondo la metodologia dello storicismo di Croce, infatti, nessun periodo storico si può ritenere definitivamente o del tutto negativo. Ogni epoca presenta i suoi aspetti positivi e, dunque, anche l’Illuminismo. La storia, sostiene ancora Croce, non può che non farsi, in fondo, che del positivo, ossia lasciando emergere quei fattori che, a volte anche soltanto per la loro natura polemica nei confronti degli errori passati, appaiono e sono sostanzialmente positivi.
Non è soltanto per questo motivo, afferma Cotroneo, che non si può considerare Croce un anti-illuminista e basta. E’ perché, inoltre, egli non rinnega mai quegli ideali etici e politici che animarono quegli anni e che, ancora oggi, possono e devono “scaldare” gli animi ed orientare l’azione.
L’altro elemento che Cotroneo individua, anch’esso fondamentale per comprendere il pensiero di Croce nella sua completezza, è la polemica che il filosofo abruzzese condusse essenzialmente nei confronti di Rosseau, e che non è lecito estrapolare e considerare soltanto come una polemica anti-illuminista. E’ il Rousseau che astrae dalla concreta realtà, quello che spezza indissolubilmente il legame fra particolare e universale rendendo l’universale ma vuota generalizzazione priva di contenuti reali il vero bersaglio polemico del grande filosofo italiano.
Scrive Girolamo Cotroneo: “L’argomento conclusivo di questo discorso (quello di Croce) ci riporta a quello con cui avevamo aperto la discussione su questi problemi, e cioè l’opposizione fra intellettualismo e sentimento, tra istituzioni ‘geometriche’ e costruzioni passionali, tra Illuminismo e Storicismo in una parola: ma il problema di fondo in esso contenuto resta quello, di cui abbiamo discusso, circa l’errore logico che sta alla base della dottrina di Rousseau, errore da cui poi scaturivano tutti gli altri, e che consisteva, per usare la terminologia logica, nella rottura dell’equilibrio fra i due elementi, il particolare e l’universale, costitutivi della sintesi, a tutto vantaggio del secondo che veniva pertanto svuotato di contenuto.” (10)
Ora, naturalmente, né Antoni, né Cotroneo prospettano un Croce che accolga in toto l’Illuminismo. Rimane invece la fine interpretazione di un Croce che, potremmo dire, accoglie e insieme supera gli ideali che quel movimento proponeva. D’altro canto, è istruttivo, per la chiarificazione di questo tema, la polemica, anch’essa sempre rispettosa, che Carlo Antoni condusse con Guido De Ruggiero che, nel suo volume Ritorno alla Ragione, aveva preso le distanze dal pensiero crociano in maniera evidente e, forse, qualche volta brusca.(11)
Ma, per tornare alla considerazioni di fondo, è forse bene leggere lo stesso Antoni. Citando il Croce che, nella Prefazione a Materialismo storico ed economia marxistica (12) si era detto grato a Marx per averlo reso immune dalle “alcinesche seduzioni” delle Dee Giustizia e Umanità, io studioso triestino afferma che il filosofo abruzzese aveva in realtà accolto nel suo pensiero, assimilando tutto quanto di buono poteva provenire dal loro insegnamento, quelle due Dee, sviluppando da esse la concezione della libertà come ciò che muove e di cui si sostanzia la storia. Scrive Carlo Antoni: “In ogni caso è certo che ponendo, nel 1934, al centro della storia come unica forza motrice la coscienza morale, e specificando che ciò che più propriamente si intendeva sotto il nome di storia era la storia morale e civile, Croce non soltanto abbandonava il concetto realistico della politica e della storia, ma addirittura elevava ciò che un tempo gli era apparso come fatua ed ipocrita ideologia a principio e sostanza stessa della storia.” (13) Di più, poche righe più avanti, Antoni si spinge ad affermare: “Ora Croce, quando così scriveva, forse non aveva chiara coscienza della differenza che separava la sua filosofia dello spirito da quello storicismo. Non si rendeva conto di un fatto, che, credo, non è stato mai finora osservato, e cioè che, malgrado i suoi attacchi all’astratta e semplicistica mentalità giusnaturalistica, nel contrasto tra storicismo tedesco e giusnaturalismo, egli apparteneva al campo di quest’ultimo. E’ un fatto che a tutta prima può apparire paradossale, ma che spiega come egli abbia potuto respingere con orrore quell’idea dello Stato etico, che era la conseguenza necessaria della negazione hegeliana del diritto di natura, come abbia potuto sviluppare, senza bisogni di conversioni, il suo liberalismo nella lotta contro il fascismo.” (14)
Ma, meglio ancora, chiarisce la questione con queste poche parole: “Fedele alla tradizione italiana della distinzione, Croce mirò semplicemente a mantenere autonoma, contro tutti i moralismi, la politica.” (15)
In verità noi propendiamo per l’interpretazione di Raffaello Franchini (16) che su questo tema, da lui indagato soprattutto sul versante della cosiddetta svolta vitalistica del pensiero crociano, tende a parlare di diversità di accenti di Croce, a seconda degli avversari che si trovava di fronte più che non di veri e propri cambiamenti teoretici. E non ci sembra casuale che, Girolamo Cotroneo segnali fra le peculiarità del liberalismo crociano, peculiarità profondamente positive, il senso della distinzione come elemento centrale di quello stesso liberalismo.
Altro discorso è poi quello che riguarda, per usare ancora la terminologia di Cotroneo, l’ “anomalia” del liberalismo crociano (17) come quella, già segnalata, del suo idealismo, che impegnerebbe una discussione generale sullo storicismo di Croce, sui suoi riferimenti a Vico e sul rapporto fra queste filosofie e le filosofie di tradizione empiristica e razionalistica.

La restaurazione del Diritto di natura
Il ragionamento che Antoni conduce sul ruolo dell’individuo nell’azione si connette strettamente alle prime due tematiche di cui abbiamo parlato e ruota, fondamentalmente, attorno al tema del diritto naturale che il pensatore triestino ripropone nell’ambito stesso di quello storicismo che era nato proprio come sua negazione. Dunque non solo lo studio della storia dello storicismo, ma soprattutto La restaurazione del Diritto di natura rappresentano i cardini sui quali si articola la posizione di Carlo Antoni.
L’ esigenza che lo ispira è, come si è detto, di natura etico-politica, e nasce sugli orrori dei quali gli uomini della prima metà del secolo scorso si erano mostrati capaci. “Noi possiamo criticare e svuotare d’ogni contenuto speculativo ed etico le utopie e le ideologie, scrive Carlo Antoni. Però la loro efficacia e il loro continuo riapparire indicano che un principio universale è indispensabile all’azione degli uomini, che cioè, abbiamo bisogno, per agire, di credere nella verità o in qualcosa che assomigli ad essa” (18). In queste parole si sintetizza non tanto la posizione filosofica dello studioso, quanto la sua posizione morale e psicologica: l’uomo sa che deve impegnarsi per accrescere il valore nella storia, ed è disposto alla lotta, al sacrificio e alla solitudine per questo. Ma ciò gli è di fatto negato se è negata la speranza della verità o, come dice, di “qualcosa che somigli ad essa”.
Antoni imputa allo storicismo, e soprattutto ad un certo storicismo, giacché egli tende a distinguere fra i diversi storicismi (19), di aver negato, nella critica all’Illuminismo filantropico, l’esistenza di valori umani universali a favore di un’individualità chiusa e, nella critica al giusnaturalismo, ogni diritto e valore all’uomo. Accusa lo storicismo di essere approdato al relativismo scettico da un lato e al teleologismo dall’altro, scindendo colpevolmente gli individui dalla storia.
Lo storicismo crociano, come abbiamo visto, fa tesoro della lezione del cristianesimo ed approda ad un nuovo umanesimo nel quale tale scissione può trovare la possibilità di ricomporsi. Ma anche in Croce il cammino è tortuoso e non sono rari i momenti in cui la frattura torna a proporsi e quella teleologia hegeliana che la distinzione aveva superato, s’impone nuovamente defraudando gli individui della loro forza creatrice.
Fin qui le critiche che Antoni muove allo storicismo al quale riconosce il grande merito di aver denunciato i falsi miti che si ponevano come valori fuori dell’individualità.
Per analizzare più da vicino la sua proposta, occorre tenere presente la teoria crociana della storia come pensiero e come azione. Perché l’individuo, afferma Antoni, possa farsi promotore di quei valori dei quali si intesse la storia prima e dopo di lui, egli deve oltrepassare la condizione di fatto sulla quale si emette il suo giudizio. Deve, in altre parole, paragonarla, per così dire, ad un’idea più grande, più universale, ad un’ideale, deve recuperare in essa il valore che la sovrasta e alla quale si dovrebbe tendere e di quel valore deve fare la guida della sua azione che, seppure indeterminata ossia libera, non è possibile ritenere cieca, casuale. Questa universalità, questo valore, Antoni definisce, forse contribuendo a rendere più difficile da interpretare la sua posizione, Diritto di natura, esigenza giusnaturalistica. Diritto di natura che egli non pensa affatto, in ciò concordando pienamente con Croce, sia da confondere con le leggi positive che nella storia sono venute affermandosi. Antoni è ben consapevole che queste sono evidentemente transeunti e mai identificabili con la moralità. “Certo è, scrive, che il motivo originario del diritto di natura è eterno. E’ l’aspirazione a rendere le forme dell’esistenza umana rispondenti all’idea, che abbiamo raggiunta, dell’uomo. E quando, ad un dato momento della storia, abbiamo conquistato un’idea della natura dell’uomo, che si impone con la forza stessa della verità, questa idea ci appare necessaria come una legge di natura” (20)
Da qui il tentativo che egli conduce di inserire nel tronco dello storicismo assoluto l’esigenza giusnaturalistica di un valore, che non è esterno perché ha sede nell’essenza stessa degli individui, che guidi la loro azione politica. Lo storicismo assoluto teorizzato da Croce, che considera, come si è visto, la storia come storia della libertà, come storia etico-politica, come progresso etico, ponendo il valore dell’etica al centro della sua considerazione, sembra prestarsi al tentativo dello studioso triestino. “Storicismo crociano e giusnaturalismo, scrive Antoni, si incontrano là dove Croce afferma che l’etica modifica, rinnova, rovescia, sostituisce le istituzioni e gli ordinamenti.” (21)
Ma lo stesso storicismo assoluto ha bisogno, per accogliere la prospettiva di Antoni, di approfondire e meglio determinare il luogo in cui storia e individuo si incontrano, ossia il rapporto teoria-prassi che unifica la scansione temporale in un unicum capace di conferire senso al divenire. “La conoscenza storica della situazione di fatto, scrive Antoni, non basta a suscitare e suggerire l’azione. Affinché l’azione sorga occorre che qualcosa ci impedisca di accettare la situazione, di trovarla razionale e giustificata. Conciliarsi col reale, come pretendeva Hegel, significa non agire. Nel caso dell’azione economica è l’immediato bisogno vitale, che provoca l’azione, ma là dove l’azione ha un più vasto orizzonte, che impegna la nostra coscienza morale, è l’intervento di un principio o ideale etico, che libera l’azione.”
“Questo momento ha però un contenuto determinato, è cioè l’idea determinata del Bene. Questa idea, che fa sì che l’azione non sia meramente utilitaria, ma acquisti la dignità di azione etica o politica, è l’idea dell’uomo, della natura umana, dello spirito e dell’universale umanità.” (22)
E l’esistenza di tale idea, la sua possibilità, indispensabile, come abbiamo visto, ad Antoni per svolgere il suo ragionamento, è plausibile e rinvenibile proprio nella logica crociana: “Lo svolgimento hegeliano, scrive Antoni, è oggettivo, è la realtà stessa che ‘diviene’, come una pianta. La realtà di Croce è invece l’essenza o struttura del nostro spirito, che è eterna e sempre identica. Qui non c’è progresso ed in questo senso l’uomo è sempre il medesimo, e questa identità rende possibile la conoscenza storica, cioè la comprensione dell’animo umano di tutte le età. Ciò che progredisce è la nostra visione di questa realtà, che si fa più nitida e definita” (23)
Antoni si riferisce qui alla dottrina delle categorie di Croce, racchiusa da questo un celebre passo crociano, nel quale il filosofo, forse con linguaggio antico, distingue fra categorie e concetti delle categorie, che qui riportiamo “Né le categorie cangiano, e neppure di quel cangiamento che si chiama arricchimento, essendo esse le operatrici dei cangiamenti: perché, se il principio del cangiamento cangiasse esso stesso, il moto si arresterebbe. Quelli che cangiano e si arricchiscono sono non le eterne categorie, ma i nostri concetti delle categorie, che includono in sé via via tutte le nuove esperienze mentali, per modo che il nostro concetto, poniamo dell’atto logico, è di gran lunga più ammaliziato e più armato che non fosse quello di Socrate o di Aristotele, e non di meno questi concetti, più poveri o più ricchi, non sarebbero concetti dell’atto logico, se la categoria logicità non fosse costante e ritrovabile in essi tutti.” (24)
Nel giudizio storico il predicato, che rappresenta l’universalità ed illumina l’azione, è dunque, come abbiamo visto, non altro che la concezione che gli uomini hanno della natura umana.
Torniamo così alla questione centrale della nostra ricerca, ossia quella del rapporto fra individuo, temporalità e storicità. E’ evidente a questo punto che l’individuo non ha, se non sul terreno strettamente psicologico, alcun rapporto con la temporalità. Per questo motivo, filosoficamente fondato e meditato, Antoni, come abbiamo potuto vedere, ha potuto parlare dell’esistenzialismo come di una “cattiva difesa dell’individualità”.
Raffaello Franchini, che di Antoni fu amico e, per certi aspetti, discepolo, nel recensire (25) l’opera postuma del pensatore triestino, L’esistenzialismo di Heidegger (26), ricorda con commozione che, negli ultimi giorni di vita, discorrendo appunto di questa sua ultima fatica, Antoni così gli diceva: “Sono caduto combattendo contro Heidegger e Sartre”. Franchini, che pure nella interpretazione generale del filosofo tedesco si differenzierà da Antoni, sottolinea come questa affermazione, per tanti aspetti drammatica, di un uomo sempre avversario di ogni forma, sia pure larvata, di retorica, stia a testimoniare di un impegno morale di altissimo livello.
Ed è infatti questo il punto centrale della speculazione e, vorremmo dire della preoccupazione, dell’autore di Commento a Croce: l’individuo, immerso e schiacciato nella e dalla temporalità, perde ogni significato morale perché perde ogni responsabilità. Se noi siamo trascinati, nella nostra vita quotidiana, dal destino che si esercita, ad esempio, nella temporalità come fatto fisico, come ciò che ci conduce irrimediabilmente alla morte, e non abbiamo la possibilità di ribellarci, di modificare il nostro destino secondo le nostre possibilità e le nostre opportunità, allora non vi è più la libertà e, con essa, la possibilità di scegliere e, dunque, non vi è più la responsabilità morale.
L’individuo dunque può essere messo in rapporto soltanto con la storicità, e qui la preoccupazione di Antoni, lo abbiamo visto sia nei confronti di Hegel che di Croce, è che l’individuo possa sciogliersi e, per così dire perdersi, anche nella storia. Perdersi perché assorbito dall’universalità, come nel caso di Hegel, oppure, se così fosse lecito esprimersi, perdersi, come nel caso di Croce, per un eccesso di individualismo, componendosi la personalità morale dell’individui nelle opere da lui prodotte. E’ qui lo sforzo compiuto da Carlo Antoni: quello di recuperare un’universalità dell’individuo, una sua eternità o perennità, pur collocandolo nel divenire della storia. “L’individualità, scrive, in quanto universale concreto, comprende in sé tutte le forme e categorie universali dello spirito, e come è individualità vitale-economica, così è individualità o genio artistico, così è individualità del pensare, così è individualità etica, che è quella del santo e dell’eroe.” (27)
In queste stesse pagine del ragionamento conclusivo condotto ne La restaurazione del diritto di natura, così chiarisce ulteriormente la sua posizione nei confronti di Croce: “Ciò che conta nel mondo, ciò che ha un assoluto valore, non è l’opera, distaccata dall’individuo ed entrata nel mondo e nella storia. Ma l’individualità, che incarna e rappresenta nell’esistenza l’universale e che, nella propria operosità, si afferma e produce. Nelle cosiddette opere – opere di poesia e d’arte, opere di pensiero, opere del lavoro pratico, opere della volontà politica e morale – è la personalità dell’autore che incontriamo e comprendiamo. Ed il mondo altro non è che questo vario affermarsi e svilupparsi dell’individualità della vita, sicché l’etica, che è l’attività diretta alla difesa e promozione dell’universale vita, non può non essere che amore dell’individualità. Ogni altra etica è astratta ideologia. Ogni ideale o programma etico o politico non può non avere, come suo fine ultimo e sua giustificazione che lo sviluppo della libera individualità” (28)

Note
1. Si riferisce, naturalmente, al celebre Commento a Croce (Venezia, 1955), che rimane fra i libri decisivi per l’interpretazione del pensiero del filosofo abruzzese.
2. C. Antoni, La restaurazione del diritto di natura, Venezia, 1959, p.
3. Ibidem
4. Ivi, p.11
5. C. Antoni, Commento a Croce, cit., p. 99
6. Ivi, p. 108
7. C. Antoni, Lo storicismo, Torino, 1957, p. 193. E’ di particolare interesse notare come il rapporto fra Antoni e Croce fosse veramente strettissimo. Rapporto nel quale Antoni mantenne sempre un atteggiamento da affettuoso e ammirato discepolo e che Croce ricambiò sempre con una profonda stima e con un profondo senso di amicizia. Per ciò che concerne la nostra ricerca, è interessante porre all’attenzione questo documento privato, e forse per ciò ancor più chiarificatore. Antoni, il 3 giugno 1948, inviava a Croce gli scritti di due suoi giovani allievi, il Fraiese e Giovanni Ferrara, figlio del crociano, amendoliano e antifascista Giovanni Ferrara. La questione riguardava il rapporto fra opera, accadimento ed individuo. Croce, il 18 giugno, così rispondeva dopo essersi congratulato per l’acume dei due giovani: “E quella trattazione dell’azione e dell’accadimento mi parve, qualche tempo dopo che l’avevo pubblicata, non abbastanza precisa, e la venni precisando e correggendo. Ferma la premessa che l’individuo trascendentale è l’universale individualizzato, e perciò l’avvenimento o l’opera che si dica nel suo farsi, ne ho tratto la conseguenza che altra conoscenza filosofica e storica insieme non v’ha che di questa, di cui si discerne caso per caso la qualità o la categoria direttamente operante e la s’innalza a predicato. Da questa conoscenza restano fuori i giudizi di bene e di male, di bello e di brutto, ecc, riguardanti le azioni della persona; ma questi cosiddetti giudizi, ossia non sono atti logici ma atti pratici e fanno corpo con tutta la vita pratica, la quale si foggia la personalità, la responsabilità, la lode, la condanna, tutti stimoli e aspetti della sua azione.” (B. Croce – C. Antoni, Carteggio, Napoli, 1996)
8. G. Cotroneo, Croce e l’Illuminismo, Napoli, 1970
9. C. Antoni, La lotta contro la ragione
10. G. Cotroneo, Croce e l’Illuminismo, cit., p.185
11. In merito a tale polemica si confronti fra gli altri il denso saggio che C. Antoni scrisse nel 1951 intorno al volume di De Ruggiero, L’ideale, pubblicato a cura di M. Biscione nella raccolta Il tempo e le idee, ESI, Napoli, 1967. “In uno dei suoi ultimi volumi, nel Ritorno alla Ragione, Guido De Ruggiero formulò una sorta di’invito ad un ritorno a posizioni illuministiche. Dopo tanto imperversare d’attivismo e dinamismo, di mistiche, di miti, d’intuizioni ‘geniali’, egli avvertiva l’urgenza di riportare nei programmi politici e negli ideali la ordinata chiarezza del ragionare”. Così esordisce lo studioso triestino, e continua: “Però questo suo appello prese allora la forma anche d’una critica allo storicismo” che limitava il “compito della ragione alla conoscenza della storia, cioè del passato”, finendo con l’escluderla dalla sfera dell’azione. E, riprendendo le confutazioni che lo stesso Croce aveva opposto alle accuse rivolte allo storicismo, Antoni indica la premessa errata del ragionamento di De Ruggiero. “La premessa, scrive, è che tra la contemplazione della realtà storica e l’ideale pratico vi sia un distacco, che cioè l’ideale non sia già operante nella stessa contemplazione del reale. L’ideale non può essere, chiarisce, una costruzione astratta dell’intelletto, un dover essere che non si realizza mai e non può realizzarsi, e che, come sappiamo, Hegel giustamente scherniva”. E conclude ribadendo la propria posizione in merito alla questione: “La richiesta di De Ruggiero d’un trapasso dalla contemplazione storica all’idealità del fare sarebbe vana, se già questa idealità non fosse costitutiva della visione storica stessa. Questo momento, che è destinato a farsi luce dell’azione, è, a mio avviso, lo stesso predicato del giudizio storico.” Non è la sola volta, naturalmente, che Antoni affronta la proposta deruggeriana. Ancora su De Ruggiero, nel già citato volume Lo storicismo, a proposito della necessità che un principio etico guidi l’azione trascendendo la situazione di fatto, scrive: “E’ quanto ha avvertito Guido De Ruggiero, che, però, vagheggiò, nel suo libro Ritorno alla Ragione, una nuova forma di Illuminismo, che tenesse conto delle esperienze dello storicismo. Egli esprimeva l’esigenza di radicali riforme che, caduto il fascismo, animava il Partito d’Azione. In realtà, commenta Antoni, non c’è bisogno di uscire dai termini dello storicismo crociano, ma di proseguire nella stessa direzione del suo sviluppo, che era quella dell’unità del pensiero e dell’azione.” (p. 195) Si confronti anche E. Paolozzi, Il liberalismo come metodo, Fondazione “Luigi Einaudi”, Roma, 1995.
12. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, Laterza, Bari, 1961 (1900)
13. C. Antoni, il tempo e le idee, cit., p234
14. Ivi, p. 236
15. Ivi, p. 237
16. Si confronti R. Franchini, La doppia scoperta dell’utile, in Esperienza dello storicismo, Giannini, Napoli, 1970
17. Si confronti l’Introduzione di Girolamo Cotroneo all’antologia da lui curata degli scritti crociani sulla libertà, La religione della libertà, SugarCo, Milano, 1986
18. C. Antoni, Il tempo e le idee, cit., p. 203
19. Si confronti C. Antoni, Lo storicismo, cit. Scrive Antoni a questo proposito: “E’ ormai chiaro che non si può parlare di uno storicismo, ma di più storicismi, che si differenziano profondamente a seconda delle diverse tradizioni nazionali e che determinano anche diversi orientamenti politici e quindi i destini delle nazioni europee.” (p. 22)
20. C. Antoni, Il tempo e le idee, cit., p. 242
21. Ibidem
22. Ivi, pp. 240-241. A proposito dello stoicismo assoluto e del giusnaturalismo, nel volume citato Lo Storicismo, Antoni, icasticamente, scrive: “In effetto una situazione storica non è univoca, non detta da sé l’azione, ma può suggerire anche il supino adattamento o l’evasione. Affinché un’azione acquisti il carattere dell’eticità, occorre un principio etico, che trascenda la situazione e sia, in fondo, il vero fine dell’azione stessa.” (p.195)
23. C. Antoni, Il tempo e le idee, cit., p.446
24. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit, p. 28 Per questo aspetto della filosofia crociana si legga, fra gli altri, R. Franchini, Il circolo di pensiero e azione, in La teoria della storia di Benedetto Croce, ESI, Napoli, 1995 (1966), pp. 117-118
25. R. Franchini Metafisica e storia, Giannini, Napoli, 1977, p. 345. Nello steso volume Franchini traccia un profilo della ricostruzione dello storicismo compiuta dal pensatore triestino.
26. C. Antoni, L’esistenzialismo di Heidegger, Napoli, 1972
27. C. Antoni, La Restaurazione del diritto di natura, cit., p.60
28. Ivi, p. 61

CAPITOLO VI

L’individuo dalla metafisica alla storia
L’itinerario sin qui percorso attraverso l’esperienza dello storicismo italiano ci induce ad una prima considerazione di carattere generale: che la considerazione del tema o questione dell’individuo sia andata trasformandosi da problema squisitamente metafisico a questione puramente filosofica nell’ambito di una specificazione sostanzialmente ermeneutico-dialettica.
Abbiamo visto che questioni generali quali “che cosa è l’individuo in sé e per sé” non si sono più potute proporre all’attenzione del dibattito contemporaneo. Chi potrebbe dire che il dasein (esserci) heideggeriano si possa veramente riferire alla filosofia classica greca anche se il filosofo tedesco con quella mentalità si è spesso voluto incontrare?
Se ciò non accade per un filosofo dal profilo volutamente metafisico, possiamo facilmente immaginare quanto la questione sia andata divenendo sempre più un’altra questione.
Nelle prime pagine abbiamo visto come da un lato la problematica metafisica si sia abbandonata, soprattutto sul versante della riflessione della filosofia politica. Ma anche in una prospettiva più generale, la ricerca attorno all’individualità si è sempre strettamente connessa con quella del suo rapporto con l’universalità. Potremmo affermare che il problema è quello del rapporto individuo-universale. Ed è sembrato, sino ad ora, che le soluzioni proposte siano state essenzialmente di due tipi: quello che privilegiavano il momento individualistico e quelle che privilegiavano il momento universalistico.
Nell’ultimo autore da noi trattato, Carlo Antoni, si potrebbe pensare che, paradossalmente, date le premesse del filosofo triestino, si sia finito col privilegiare il momento dell’universalità pur affermando a chiare lettere che si voleva, invece, proporre una difesa dell’individualità.
Abbiamo potuto notare come, nel filosofo di riferimento di Carlo Antoni, ossia Benedetto Croce, generalmente anche se superficialmente accusato di aver annegato l’individualità nell’universalità, era possibile rintracciare un individualismo addirittura eccessivo, in quanto la disintegrazione dell’individuo persona non avveniva, come in Hegel, in favore dello spirito universale, ma in riferimento alla singola opera individuale, unica e vera reale esistenza. Ma la questione non è così semplice.
Essa si complica se si va a fondo della problematica e si pensa che, nel primo caso, la difesa della individualità consiste nel determinarne, appunto, il carattere di perenne universalità. E’ questo il grande sforzo che compie Carlo Antoni. Si potrebbe dire, se volessimo riassumere in una formula, che l’unico universale esistente è l’individuo e che, perciò, è necessario inchinarsi di fronte ad esso sul piano etico come su quello politico, sul terreno economico come su quello religioso. E’ questa la vera natura umana che va rispettata e difesa. Difesa da ogni attacco, da ogni oltraggio. Ma poiché la natura dell’individuo non è statica, non è, appunto, metafisica, ma è quella di essere immersa sempre e soltanto nella storicità, la difesa dell’individuo è anche la difesa della storia.
Un ragionamento analogo si potrebbe fare per Croce. Perché se è vero, come abbiamo detto, che per il filosofo italiano l’individualità s’identifica con l’opera, grande o piccola che sia, teoretica o pratica, che l’uomo compie, è altrettanto vero che il filosofo sa bene che l’opera trova un senso soltanto nella storia. Anche questo nuovo modo di concepire l’individualità, dunque, non può che non inserirsi nell’orizzonte della storicità.
Da qui il problema al quale abbiamo già ampiamente accennato, della responsabilità dell’individuo che in Croce talvolta sembrerebbe scomparire in quanto, essendo l’individuo l’opera, non può, evidentemente, assumersi responsabilità di alcun tipo.

L’azione e l’accadimento
Ritorna così il tema specifico della nostra ricerca. Se abbiamo abbandonato il terreno della definizione universale dell’individuo per avventurarci nel campo della sempre diveniente storicità, ci sembra di ritrovarci ora di fronte al dilemma, è più importante l’individuo o l’universale? E, spostandoci sul terreno dell’etica, la responsabilità dell’azione è riconducibile all’individuo o all’universale che, nella nuova dimensione, è diventata la storia?
E’ su questo punto che è necessario riflettere attentamente.
Scrive Croce nella Filosofia della pratica: “La storia è l’accadimento, il quale (…) non si giudica praticamente, perché trascende sempre i punti di vista particolari, che soli rendono possibile l’applicazione del giudizio pratico. Il giudizio della Storia è il fatto stesso della sua esistenza: la razionalità sua è la sua realtà. Questa trama storica, la quale è e non è l’opera degli individui, è l’opera dello Spirito universale, del quale gli individui sono manifestazioni e strumenti.”
Questa citazione è utilizzata da Raffaello Franchini per iniziare un discorso che potrebbe, in qualche modo, avvicinarci alla soluzione del dilemma sopra esposto. Il pensatore napoletano, innanzitutto, interpreta la posizione crociana in modo diverso da come è in qualche modo accaduto nella storiografia meno approfondita. Avverte che qui Croce non ha voluto, tutto sommato, semplicemente ripetere una posizione hegeliana di quel “deteriore hegelismo da lui stesso criticato”. Ha voluto invece mettere in luce l’innegabile “fatto” che l’individuo, in ogni caso, si trova immerso in una situazione data e che, quale che sia la sua intenzione, provoca, soggettivamente o oggettivamente, nella storia avvenimenti di cui nessuno poteva immaginare il significato e la portata. (1)
Non si tratta solo, come si vede, dell’indeterminatezza dell’azione individuale rispetto al giudizio, sulla necessità della quale si è già discusso. Si tratta dell’accadimento come sintesi dell’insieme delle volizioni individuali, che può essere giudicato solo storicamente, ossia accettato in quanto accaduto.
Potremmo chiederci anche, a questo punto, se vi sia differenza, dal punto di vista storico, fra azione individuale ed accadimento giacché ogni azione individuale, ci sembra, è sempre accadimento nel momento in cui si esprime concretamente, entra nella storia. Dall’altro lato, è vero anche che nessun accadimento si darebbe senza il concorso dell’insieme delle singole azioni individuali nate sulla base di giudizi liberi e a loro volta libere ed originali, se non vogliamo confondere libertà con arbitrarietà o meglio, come Croce ha precisato più volte, vuota immaginazione.
Se riflettiamo sul tema dell’accadimento e dell’azione individuale legato a quello della responsabilità degli individui, potremmo forse affermare che l’individuo è responsabile dell’azione che compie nel momento in cui egli la sta compiendo, prima che essa, immettendosi nella storia, agisca in essa con conseguenze inesauribili, inimmaginabili dal suo autore come da tutti gli uomini che verranno dopo di lui.
. Commentando il passo crociano riportato poco più sopra, Franchini ammette che esso possa suonare come un ricorso alla metafisica storica ma aggiunge che, “a ben considerare le cose, risulta evidente il suo carattere metaforico e iperbolico, che va attenuato e interpretato”. (2) E qui veniamo al punto cruciale della sua riflessione, giacché in questo modo egli interpreta, a nostro avviso in maniera convincente: gli individui, afferma, sono “le componenti di una totalità e solo in questa accezione è lecito se non debito parlare di una loro sottomissione all’universale, il quale non potrebbe, per il principio stesso della dialettica, attuarsi senza individui.” (3)
E qual è il luogo, domandiamoci ancora, nel quale si compie, per così dire, l’universalità degli individui? Abbiamo visto che esso è rappresentato dall’opera. E sappiamo che essa non si compie se non nel circolo teoria-prassi. E sappiamo anche che in tale circolo l’individuo e la storia come totalità si incontrano, legandosi indissolubilmente, e dando vita ad un divenire unitario ( ma non unidirezionato), ad una sintesi. L’opera, scrive Franchini citando Antoni, “a sua volta non consiste in una finta e astratta universalità, bensì è, come mostrò l’ Antoni, sempre e soltanto opera individua.” E continua il suo ragionamento: “Del resto, se la storia fosse riconducibile a mere azioni individuali, essa non risulterebbe che una somma e non certo una sintesi di volizioni diverse o contrastanti, e in tal modo alla sintesi a priori logica, di cui è fatto il giudizio storico, non corrisponderebbe una sintesi a priori pratica, un universale etico-politico o etico-economico, con conseguente rottura dell’unità dello spirito (…). L’accadimento, conclude Franchini, è dunque il punto d’incontro non solo delle singole volontà, ma del pensiero con l’azione, dialetticamente congiunti qui in un nesso che è la vera matrice dello storicismo…” (4)

L’individuo come “parte in causa”
Se proviamo a riflettere ancora sul concetto di circolo pensiero-azione, e a quanto abbiamo detto in merito, notiamo che ci siamo messi da un punto di vista, per certi aspetti, unilaterale. Abbiamo affermato che con esso si compie l’unità del divenire storico, quella sintesi di passato e futuro che è garanzia di un orizzonte di significato. Ma abbiamo considerato la tematica quasi esclusivamente dal punto di vista dell’universale. Dell’individuale ci siamo limitati a dire che esso è il luogo fondamentale in cui la storia avviene e diviene, si tesse, e la temporalità si fa storicità, ossia durata. Poco abbiamo fermato l’attenzione su cosa accade all’individualità in quel processo. E ciò che accade è che l’individualità stessa è penetrata a tal punto nel divenire storico che, come la tartaruga col suo guscio, morirebbe separata da esso. Il filo col quale l’individuo tesse la tela della storia cucendo insieme i lembi del passato e del futuro, passa per l’individuo stesso, lo lega e lo avvolge, e l’individuo non può, dunque, liberarsi, pena lo sfilarsi di tutta la trama, il dissiparsi di ogni significato. La dimensione dell’individualità è tutta interna al processo storico, al divenire. Porsi all’esterno significa automaticamente porsi al di fuori della storia, vale a dire in una prospettiva che ha già dimostrato di escludere ogni valore e funzione dell’individuo.
E’ come fare una foto davanti allo specchio: non si riesce a nascondere l’obiettivo, l’immagine che ci piaceva, necessariamente, si altera e il nostro viso scompare dietro la macchina. L’atto col quale abbiamo cercato di rendere oggettiva quella realtà, è definitivamente impresso in essa, è parte di essa, e i due momenti iniziali non sono più scindibili.
Questa posizione, che è andata maturando nel processo che va dalla logica hegeliana a quella crociana, e poi con l’accentuazione in senso prospettico che Raffaello Franchini ha dato del rapporto teoria-prassi, richiama un altro itinerario che, estraneo al mondo della riflessione strettamente filosofica, con questa va intersecandosi in sintesi che profilano esiti molto interessanti.
Lo sottolinea Giuseppe Gembillo in un intervento dal titolo significativo: Il giudizio prospettico e la fisica contemporanea, tenuto a Napoli nel 2000, in occasione del Seminario di Studi su Raffaello Franchini (5). Gembillo analizza i tre riferimenti essenziali sui quali si fonda l’itinerario filosofico del pensatore napoletano, ossia lo storicismo assoluto, la riflessione heideggeriana sul Soggetto inteso come essere immerso nella storicità e proiettato verso il futuro, e, infine, la metodologia scientifica andata elaborandosi da Plank a Heisenberg.
Nel riferirsi agli sviluppi della metodologia scientifica, Franchini seleziona alcuni punti salienti che connotano una svolta epistemologica decisiva per lo sviluppo della ricerca scientifica. Essi sono individuabili nel rifiuto del concetto di legge scientifica a favore di una concezione, per così dire, storica della natura, e nella convinzione che l’esperimento stesso, influenzato dallo scienziato, sia privo dell’assoluta oggettività, dell’ asetticità, per così dire, che la scienza classica attribuiva ad esso. Le leggi naturali perdono la loro assolutezza per aprirsi verso la probabilità del loro carattere nel momento in cui si scopre che anche la natura è storia, mentre, contemporaneamente, lo scienziato si fa consapevole dell’irripetibilità dell’esperimento e di non essere, dal canto suo, un puro e mero osservatore dei fenomeni che ha dinanzi ma di essere, con essi, in rapporto, di influenzarli ed alterarli.
Gembillo cita, a questo proposito, un’affermazione di Heisenberg che vogliamo riportare a testimonianza di una sostanziale convergenza fra gli sviluppi registrati dalla fisica contemporanea e le conclusioni alle quali la tradizione storicistica italiana era pervenuta: “..quando ormai ci riferiamo alla Natura non possiamo considerarla ‘in sé’, ma in quanto esposta ai nostri modi di osservarla. (…) Infatti, continua, proprio Heisenberg affermava in proposito che ‘le tradizionali suddivisioni del mondo in soggetto e oggetto, mondo interno e mondo esterno, anima e corpo non sono perciò adeguate e ingenerano difficoltà. Anche nella scienza oggetto della ricerca non è quindi più la natura in sé, ma la natura subordinata al modo umano di porre il problema. In questo senso l’uomo incontra anche qui solo se stesso'” (6)
La storia che consideriamo già scritta, dunque, è, come afferma Franchini, “problematica”, e ogni individuo la riscrive ad ogni istante già nel momento stesso in cui la assume come oggetto della propria indagine.
Il legame dell’individuo con il tutto si fa dunque ancora più stretto, ancora più intricato, ancora meno recidibile e qualsiasi riflessione si voglia condurre sull’argomento, deve tenere conto di ciò.
Ripartiamo dunque dalla posizione crociana, che abbiamo più volte provato a mettere a prova, dalla sintesi che ne fa Raffaello Franchini negando che via differenza fra “l’opera che si dice propria dell’individuo e l’opera della quale l’individuo è spinto a ritessere la storia, ché entrambe si riferiscono non già alla ‘vanità che par persona’, ma a quanto d’immortale e di universale, e perciò di appartenente a tutti gli altri uomini, l’individuo è in grado di creare”. Così Franchini: “Come si è visto Croce tocca continuamente i temi dell’universalità e dell’individualità, di volta in volta negandoli nella loro astrattezza e affermandoli nella loro concreta dialettica. L’universale storico in senso etico e in senso gnoseologico non si attua che nell’individuo e l’individuo non si attua che nell’opera, che perennemente lo sorpassa e conserva nel Tutto.” (7)

La circolarità individuo-storia
Ci sembra doveroso, dunque, accogliere le suggestioni che ci vengono offerte da questo ragionamento nell’orizzonte del nostro problema e porre allora l’accento sul rapporto di universale, ossia la storia, e individuale, ossia ogni uomo, senza più porre la questione dal punto di vista di uno solo dei due momenti, in sé astratti e dunque irreali, di una sintesi inscindibile.
Ma quale legge regola il rapporto universale-individuale, del quale, pure, abbiamo in tutte queste pagine discusso? Certamente il luogo di tale rapporto è, come si è visto, il circolo teoria-prassi. Ma un’ultima riflessione va dedicata all’idea di circolo, giacché è in essa che si può individuare il metodo che consente di trovare un fondamento a quei concetti che, come quello di liberta e di responsabilità, conferiscono, in ultima analisi, senso e valore alla vita degli individui.
Si è molto dibattuto, fra i critici, sul carattere sistematico della filosofia crociana. Si è “imputata” a Croce una eccessiva sistematicità, quasi a voler alludere ad un’antiquata caratteristica della sua filosofia rispetto all’incamminarsi del pensiero contemporaneo verso atteggiamenti più aperti, come si diceva in senso positivo, deboli, ossia non dogmatici o addirittura, metafisici. Non pochi sono stati gli studiosi che hanno dichiarato di preferire al primo il secondo Croce, meno scolasticamente sistematico, più moderno. E certamente è vero che i primi libri, ossia quelli della “Filosofia dello spirito”, nell’espressione linguistica e nell’ordine quasi schematico nel quale sono scritti, sembrano appartenere ad un mondo ormai passato.
Ma gli studiosi più attenti del pensiero crociano ben sanno che, malgrado esso sia andato maturando e dunque mutando in molti aspetti, ripudiando perfino, in alcuni casi, se stesso, esso ha mantenuto una intrinseca, sostanziale sistematicità che non è astratta ed estrinseca costruzione, posticcia impalcatura. E’ piuttosto la caratteristica peculiare di un pensiero organico nel quale ogni concetto si definisce sempre e solo in relazione (di unità-distinzione) agli altri, è in relazione ed in equilibrio con tutti gli altri, implicando gli altri, senza predominare su nessuno di essi. Se si legge infatti la filosofia crociana attraverso la sua opposizione al panlogismo hegeliano, al materialismo economicista di Marx, all’intuizionismo bergsoniano, al misticismo di Giovanni Gentile e al metodologismo positivista, se ne rileva un dato fondamentale, ossia la sua avversione verso qualunque tentativo di turbare l’equilibrio che parti della logica, come della realtà, hanno con l’insieme. Insieme che è, come è stato detto (9), “organismo e non meccanismo”, retto da una logica circolare e non riduzionista.
Tale logica non può concepire l’esaltazione della storia a discapito dell’individualità, come non può concepire un’individualità avulsa dal commino e dal destino dell’umanità intera. E se ogni individuo nasce in un preciso contesto, è frutto di quel contesto, la sua azione si riversa poi su quel contesto stesso contribuendo a modificarlo, facendo di quel contesto un frutto della propria azione. Se si volesse privilegiare l’individuo, la storia sfumerebbe e, con essa, il senso e il valore della condizione umana. Se privilegiassimo il divenire storico, il suo corso finirebbe col fagocitare l’individualità, la negherebbe e il mondo e la storia si rivelerebbero come un atroce meccanismo deterministico. Le due posizioni, negandosi a vicenda, finiscono con lo svalutare se stesse, mentre una logica non binaria, una logica della circolarità, una logica complessa, o una logica della complementarietà, riesce a dare ragione delle esigenze che ciascuna di esse esprime col tenere presente un punto di vista che sia comprensivo e non escludente.
Separare la storia dagli individui significa operare sulla realtà un procedimento arbitrario che, smembrando la realtà e la vita, riduce a brandelli, a frammenti ciò che è organico e unitario. La realtà non deve essere smembrata nelle sue componenti costitutive, che sono fra loro in una relazione che forma, secondo le parole di Morin, che qui ci possono aiutare ad esprimere il concetto crociano di circolarità, “un tessuto interdipendente, interattivo e inter-retroattivo fra le parti e il tutto e fra il tutto e le parti”. (10)
Tutti i concetti che abbiamo esaminato, dunque, quello di libertà, di responsabilità, di autonomia, e tutti gli altri connessi alla problematica dell’individualità, trovano la loro dimensione in un orizzonte relazionale o dialettico, cioè concreto. Non è possibile, in altre parole, pensare alla assoluta libertà o all’assoluta illibertà così come non esiste un individuo che non sia un individuo che vive nella storia, ossia nell’universalità. Ognuno di questi concetti si definisce in rapporto col suo opposto e di questo si nutre e si accresce, così come nella realtà etico politica un atto di libertà si spiega a partire dalla condizione asfissiante patita che esso vuole e contribuisce a modificare. Sul piano simbolico, con un circolo che parte dalla condizione e ad essa torna, infine, mutandola.
Bene individua la cifra della posizione di Croce Giuseppe Cacciatore, che ha attraversato l’esperienza crociana provenendo dall’altra decisiva esperienza dello storicismo tedesco e dei suoi primi antecedenti: ” La teoria della circolarità dello spirito, l’identificazione dello Spirito con l’universalità della vita storica e delle sue individuazioni, la teoria del nesso dei distinti, testimoniano di un passaggio evidente da una concezione statica e definitiva della storia ad una dinamica e progressiva. Le forme spirituali, – continua Giuseppe Cacciatore, – vanno intese nella loro storicità e circolarità e non nella loro riduzione agli schematismi della sintesi dialettica degli opposti. Sono proprio quegli elementi di dissonanza da una posizione rigidamente idealistica e coerentemente basata sulla identità di realtà e razionalità, che condurranno Croce, l’ultimo Croce, anche alla luce dei drammatici eventi della storia europea, a problematizzare, nel libro sulla storia del 1938, la necessità della relazione tra pensiero e azione” (11)
D’altro canto scrive Croce: ” Può sembrare una disputa su inezie e anche di poco buon gusto, questo: se la vita dello Spirito sia da considerare sotto il simbolo della cuspide o sotto quello del circolo; e non dimeno chiude in sé problemi e soluzioni di molta gravità, ed errori e verità di molta conseguenza.” (10) Poco più avanti, riaffermando, contro le obiezioni, la circolarità dello spirito, afferma: ” Nella realtà, la storia non comincia e non finisce: noi ci troviamo sempre con lei, e siamo lei stessa, con le sue eterne categorie, col suo processo dialettico, coi suoi ritorni di dolore e di gioia; ed essa è dramma che non si sottomette al tempo, ma che foggia e adopera il tempo a proprio servigio come uno schematizzamento per orientarsi in mezzo al fiume della realtà che ci trascina, ossia della nostra incessante attività.” E conclude: “La qual cosa importa che noi non dobbiamo aspettare dall’avvenire o da un’altra vita il congiungimento con l’infinito e l’eterno, perché lo mettiamo in atto nel nostro presente, né possiamo possederlo altrimenti. In ogni istante ci è aperta la via a farci degni di ascendere al cielo.” (12)

Note
1. Mario Corsi, analizzando i Frammenti di etica, rinviene in un sentimento di umiltà la propensione di Croce a moderare quella che oggi definiremmo un’espansione dell’ego. In questo senso, oltre che per imotivi teorici che conosciamo, Croce ritiene l’individuo sempre in larga misura condizionato dalla storia, dal suo tempo. Si confronti M. Corsi, La condizione umana nei Frammenti di etica di Benedetto Croce, Scuola Superiore di Sant’Anna, Pisa, 1998
2. R. Franchini, La teoria della storia di Benedetto Croce, a cura di Renata Viti Cavaliere, ESI, Napoli, 1995 (1966), p. 63. Si confroti inoltre il volume di G. Furnari Luvarà, Tra arte e filosofia: la teoria della storia in Benedetto Croce, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001.
3. Ibidem
4. Ivi, pp. 63-64
5. Il saggio è adesso leggibile in AA.VV., Il diritto alla filosofia, a cura di G. Cotroneo e R. Viti Cavaliere, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002, pp. 119-137.
6. Ivi, p. 129
7. R. Franchini, La teoria della storia di Benedetto Croce, cit., p. 139. Rimandiamo alla lettura dell’intero saggio, Lo storicismo assoluto, dal quale il brano è stato tolto.
8. G. Gembillo, Benedetto Croce filosofo della complessità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006, p. 47
9. G. Gembillo, op. cit.
10. E. Morin, La testa ben fatta, Cortina, Milano, 2000, p. 6
11. Giuseppe Cacciatore, Filosofia pratica e filosofia civile nel pensiero di Benedetto Croce, Rubbettino, Soveria Mannelli,2005
12. B. Croce, Filosofia e storiografia, Laterza, Bari, 1969 (1940), p. 27
13. ivi, p.30

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INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO I – L’individuo oltre il tempo e le relazioni

CAPITOLI II – L’individuo fra universalità e particolarità
a)L’individuo in Hegel: dalla coscienza infelice all’eroe cosmico
b)Una cattiva difesa dell’individuo

CAPITOLO III – L’individuo in Croce

CAPITOLO IV – La logica della circolarità e l’individuo
a)Logica, verità e storia
b)Le categorie come forme della realtà
c)Realtà e verità
d)Idealità della distinzione e unità del reale: dalla dialettica degli opposti al circolo dei distinti
e)Il giudizio e la storia
f)Lo storicismo assoluto:dalla temporalità alla storicità
g)L’individuo e l’unità della storia

CAPITOLO V – L’apologia dell’individuo in Carlo Antoni
a)La natura dell’individuo
b)La questione dell’Illuminismo
c)La restaurazione del Diritto di natura

CAPITOLO VI – L’individuo dalla metafisica alla storia
a)L’accadimento e l’azione
b)L’individuo come parte in causa
c) La circolarità individuo-storia

Bibliografia