Maria Panetta, Guarire il disordine del mondo, Mucchi Editore, Modena, 2012.

Maria Panetta

 Maria Panetta , autrice di una preziosa ricerca ( fra altri rilevanti scritti) su Croce editore, ha raccolto in un volume, Guarire il disordine del mondo,  interventi e saggi su vari autori, critici, scrittori, filosofi, tutti prosatori che hanno operato tra  Ottocento e Novecento  incidendo profondamente sulla cultura italiana e non solo italiana. “ Ma, scrive Panetta, non è solo questo il filo rosso che li lega, e che – con un omaggio a Bufalino- si è cercato di far emergere nel titolo scelto per la monografia. Sono tutti autori accomunati dall’idea che la scrittura rappresenti, in qualche modo, un espediente per cerare di dare forma al Caos, un modo di fare ordine, di arginare l’entropia che governa  il mondo.”

Felice intuizione che trova riscontro nella filosofia più avvertita. L’arte e Il linguaggio ( inteso come metafora dell’espressione)  per loro stessa natura conferiscono ordine al caos , al flusso della coscienza il quale, se non fosse rappresentato e, dunque, conosciuto nemmeno esisterebbe. Rappresentato, il fluire caotico degli stati d’animo,  nei modi più fantasiosi, perfino bizzarri, ma sempre rappresentato.

Nel percorso di Maria Panetta questa formulazione generale  si connota storicamente, si innerva in una interpretazione di momenti significativi della sensibilità critica ed artistica della storia letteraria italiana. La studiosa sceglie,  come punto di vista privilegiato l’analisi di “prosatori italiani”  nel significato più ampio del termine perché, come si è accennato al di là della valutazione filosofica generale sulla natura dell’espressione, testimoniano una tendenza specifica della nostra cultura fra due secoli. “La scrittura, scrive, come phàrmacon, dunque, nella sua duplice accezione greca di <rimedio> e di <veleno>”.

Se è così, è significativa la scelta della studiosa di aprire la monografia con “ un dovuto omaggio a De Sanctis e al suo tentativo di tracciare delle linee, di evidenziare un percorso a tema nella storia letteraria italiana, di assegnare a ciascuno dei nostri autori classici un preciso ruolo nell’evoluzione della letteratura italiana e nella trasmissione dei suoi valori portanti”.

Panetta si chiede, nel saggio dedicato al grande critico irpino, se la Storia della letteratura italiana, sia da considerare un manuale ( ricorda che ciò doveva essere nelle intenzioni del grande critico) , un saggio o un romanzo.  Si , un romanzo, “ il più bel romanzo storico italiano dopo i Promessi sposi” secondo Vittore Branca.  Esamina con intelligenza le interpretazioni di Giacomo De Benedetti, di Giovanni Getto, di René Wellek il quale coglie felicemente il nesso ( crocianamente inscindibile) fra storico e critico della letteratura.. Ed io voglio ricordare che da molti studiosi De Sanctis, al di là del valore critico-estetico della sua opera, fu ritenuto, per certi aspetti, il maggior storico dell’Ottocento italiano.

Ma Maria Panetta non si lascia irretire in questa pur interessante discussione e tiene fermo il giudizio sull’opera in sé e per sé, letta nella sua irriducibilità, irripetibilità.  In conclusione giudica giustamente la   grande opera desanctisiana “un documento-monumento: modello basilare nella fondazione della nuova storiografia letteraria(e non solo) nazionale, nonché paradigma identitario risorgimentale, da inserirsi in quel filone, tipicamente ottocentesco, di ricostruzione e racconto delle identità archetipiche dei nuovi stati-nazione, che per altro caratterizza la storiografia europea del tempo. Senza, però, mai dimenticare che forse proprio la parzialità e il vivo senso di umanità che emergono dalle molteplici contraddizioni di quest’opera costituiscono, oggi, il maggior motivo di fascino per qualsivoglia lettore. De Sanctis avrebbe concluso: <ci senti l’uomo>”.

Il termine monumento  torna a proposito della caratterizzazione dell’antologia di scritti crociani  composta dallo stesso filosofo nel 1951 ad appena un anno dalla morte per i tipi di Ricciardi. E monumento, in questa prospettiva, non è da intendersi in senso negativo,  ironico nel caso di un filosofo, poi, che aveva fatto della lotta alla storia monumentale (alla quale contrappone la contemporaneità di ogni vera storia)   quasi un punto d’onore. Scrive, infatti, Maria Panetta: “Dall’analisi dei possibili criteri adottati da Croce nell’arduo compito di trascegliere, nello sterminato panorama delle proprie pubblicazioni, quelle da antologizzare come auto-monumento, a pochi anni dalla fine della dittatura e della Seconda Guerra Mondiale e in una fase ormai avanzata della propria vicenda esistenziale, sembra emergere una volontà, assimilabile proprio a quella che ne guidò le scelte nell’allestimento dell’antologia dei seicentisti, di documentare l’evoluzione del proprio pensiero filosofico, critico, storico e politico, e insieme di delineare un autoritratto da tramandare e da lasciare, fissato e ormai scolpito, alla valutazione e alla riflessione dei posteri”.

E’ proprio così.  Come se il filosofo avesse voluto da un lato tracciare un percorso ermeneutico il più possibile immune da fraintendimenti  (che invece ci furono e ancora imperversano), da l’altro offrire un così ampio materiale di discussione da lasciare spazio alle più ampie possibilità interpretative.  A partire dall’Indice del volume, dove la logica è collocata prima dell’estetica in palese differenza con la sistemazione originaria del pensiero crociano. Ma a ben vedere  si tratta di quella logica della filosofia, nuovo Organon,  logica del concreto non separabile dall’intero svolgimento della vita, logica  che comprende , perché presume e implica, l’arte.

Un guarire il disordine del mondo, dunque, che la filosofia assume come compito transitorio e necessario così come transitoria e necessaria è la distruzione dell’ordine costituito , qualunque ordine, pena la morte ( peraltro impossibile) della libertà. Ma l’esigenza di guarigione è una domanda esistenziale, tragica e assieme consolante, di cui l’arte si nutre, come la filosofia, come la nostra vita quotidiana anche nelle più banali espressioni. Maria Panetta, dunque, si confronta con i temi della morte e dell’angoscia, della solitudine e dello smarrimento, nell’analisi di autori come Bufalino e Buzzati, tanto diversi e tanto simili , entrambi figli del Novecento italiano. E dico italiano non a caso. Perché la cultura italiana, nel bene come nel male, rimane classica anche quando affronta i più contemporanei dei temi della postcontemporaneità, come potremmo dire con una qualche ironia  che il lettore attento potrà capire verso chi si indirizza. Così anche per la Panetta : classica la sua dimensione critica. Non solo perché filologicamente attenta e sorvegliata ma perché “rattenuta” per usare una felice espressione che Contini  coniò per caratterizzare la prosa di Croce. Che si tratti di Silvio Pellico o di Guido Morselli, Luigi Settembrini o Corrado Alvaro ( fra gli autori felicemente riletti dalla Panetta) il critico non si sovrappone all’autore, all’opera: si accompagna ad essi, semmai se ne distacca per comprenderli meglio , per un atto di responsabilità, come suggerisce Giuseppe Traina nella Prefazione al volume, per simpatizzare con loro nel senso etimologico del termine.

Ernesto Paolozzi
Dalla Rivista di Studi “Libro Aperto”, Numero 76, gennaio – marzo 2014