A venticinque anni dalla morte di Raffaello Franchini, mi piace ricordarlo pubblicando la voce che ho redatto recentemente per il Dizionario del liberalismo diretto da Fabio Grassi Orsini.

Raffaello Franchini, nato a Napoli nel 1920 e deceduto nel 1990, perse il padre nella prima infanzia. La madre frequentava la casa di Benedetto Croce, dove il giovane F. si formò. Dopo un lungo periodo di insegnamento nei licei, undici anni nella prestigiosa accademia militare della Nunziatella, insegnò Logica e Filosofia teoretica all’Università di Messina, prima, e di Napoli, poi. Allievo dell’Istituto italiano per gli Studi storici, accompagnò il massimo dell’impegno accademico ad una altrettanto accanita polemica nei confronti della mentalità universitaria.

La sua fu una filosofia militante, da filosofo politico non monastico, per dirla con Vico. La filosofia militante di Franchini consiste, dunque, nell’impegno costante del filosofo nella ricerca della verità e nella difesa della libertà, compresa quella consistente nel diritto alla filosofia, nel diritto-dovere di esercitare lo spirito critico e di lavorare affinché siano garantite le condizioni perché quel diritto-dovere si possa esercitare liberamente.

Sin dalle prime prove, si confrontò con i grandi temi lasciati aperti dalla filosofia del suo tempo, affrontando, già nel 1948, quello del rapporto fra storicismo e relativismo per poi dedicarsi alla grande questione della vitalità proposta dall’ultimo Croce. Quella seconda scoperta dell’utile, come scrisse, con la quale il vecchio filosofo aveva aperto nuove prospettive ermeneutiche pur senza sconvolgere l’intera architettura del suo pensiero.

Ma, al di là delle interpretazioni, per così dire, interne alla tradizione crociana, l’importanza della speculazione filosofica di F. consiste nell’aver aggredito con spirito critico e originale tematiche di estrema attualità ed autori che venivano alla ribalta della cultura europea ed italiana. Così, accanto alle Note biografiche di Benedetto Croce, del 1953, e via via con i volumi dedicati alla Teoria della storia di Benedetto Croce o al Croce interprete di Hegel, compaiono volumi dedicati al tema della metafisica nel suo rapporto alla storia e a quello del progresso inteso come idea fondamentale, nel bene come nel male, della cultura occidentale. Il saggio del 1971, Il sofisma e la libertà, e quelli raccolti nell’ampio volume Il diritto alla filosofia testimoniano, come si desume sin dai titoli dei due volumi, un forte impegno nella difesa della libertà.

Poco incline al compromesso, combatté una ferma battaglia nei confronti della sua epoca, delle mode, dei luoghi comuni imperanti. Il che non giovò forse alla sua popolarità ma lo rende un testimone fondamentale della cultura italiana, e non solo italiana, del dopoguerra. Fu tra i primi della scuola crociana a porre la questione dello statuto logico delle scienze nel rapporto con la nuova epistemologia, sfatando il mito di un Croce nemico delle scienze giacché il filosofo fu, in realtà, nemico del positivismo e dello scientismo, che oggi definiremmo riduzionista.

In estrema sintesi si può affermare che il pensiero di Croce in questa nuova prospettiva è ulteriormente laicizzato, riferendoci con ciò, naturalmente, non a questioni religiose o attinenti la trascendenza ma all’impianto filosofico stesso, per cui lo storicismo di F. diviene sempre più uno storicismo metodologico e la sua filosofia una filosofia delle funzioni che è come dire una ulteriore e più radicale storicizzazione delle categorie.

Nel breve, densissimo saggio Le categorie della logica, del 1966, pubblicato nel volume La logica della filosofia, del 1971, F. affronta il nodo fondamentale della filosofia contemporanea e di quella di Croce in particolare, il problema consistente nel rischio che si potrebbe aprire un dualismo all’interno delle stesse filosofie immanentistiche e storicistiche che da Vico a Kant da Hegel a Marx hanno segnato la grande filosofia.

Nel saggio è citato un brano fondamentale della Logica di Croce nella quale si legge:

«La filosofia è la dottrina delle categorie, già da noi accettata quando, invece di assegnare alla sola Logica la determinazione delle categorie, l’abbiamo considerata come l’assunto proprio di tutta la filosofia. Nella quale Logica sta come Categoria della categoria o Filosofia della filosofia e sembra che sia al tempo stesso dentro e sopra la Filosofia, perché la compie superandola e la supera compiendola, benché veramente, al pari di ogni altra scienza filosofica, essa sia dentro e non fuori la Filosofia, così come (se ci si concede un’immagine) lo specchio d’acqua, che riflette il paesaggio, è esso stesso parte del paesaggio». Così Croce.

La bellissima immagine, sostiene F., non sembra risolvere del tutto la difficoltà perché, se il paesaggio cambia, muta con esso anche il riflesso dello specchio d’acqua, ossia la Logica la quale, a questo punto, sembra essere del tutto dentro il paesaggio oppure, se si dovesse sostenere che non muta, totalmente fuori di esso. Il che significa che, anche da questo punto di vista, si ripropone la questione generale di ogni filosofia storicistica (ma, si potrebbe anche dire, di ogni filosofia) del rapporto fra universale e particolare, fra eternità del pensiero e storicità del pensiero stesso.

Ritornando al Croce della Storia come pensiero e come azione, F. ripropone la teoria del giudizio storico-prospettico, enunciata nel suo volume forse fondamentale, Teoria della previsione, del 1964, come possibile soluzione dell’intricato problema.

La filosofia come dilucidazione delle categorie, come metodologia della storia, e la Logica come parte di essa, sono storiche non perché si dissolvano nella pura temporalità, ma perché nella storia agiscono, operano, e in questo operare colgono o afferrano parte della realtà mentre sfugge loro l’azione, la prassi, l’irrazionale, il diverso, come scrive F. con terminologia platonica, che la stessa filosofia, che è sempre giudizio storico-prospettico, torna a qualificare, ossia a comprendere in un continuo, perpetuo, movimento dialettico. La filosofia mette sempre in prospettiva sia il passato che il presente, per cui tutto, afferma F., si offre come futuro. Ma il futuro stesso non è puro accadimento, puro destino o imprevedibile irrazionalità, perché nel mettere in prospettiva, il giudizio fa accadere il futuro o, per meglio dire, contribuisce a farlo accadere. È evidente che questa concezione della filosofia giustifica una concezione liberale della vita: la teoria e la prassi si condizionano vicendevolmente ma non si determinano meccanicamente. In questo scarto vi è l’assoluta libertà.

La nuova idea di progresso teorizzata da F. segna un’altra tappa importante del suo percorso filosofico. Egli polemizza, attraverso una sofisticata ricostruzione storica, con le tradizionali concezioni del progresso; rifiuta l’idea, di origine illuminista, della storia come continuo e inarrestabile sviluppo secondo un percorso rettilineo ma prende le distanze anche dalle teorie dialettiche di stampo hegelo-marxista, ivi compresi alcuni aspetti di quella di Croce che, con esse, presentano evidenti analogie. In questa nuova prospettiva il progresso è considerato esclusivamente dal punto di vista etico, ed è strettamente connesso al giudizio come strumento fondamentale della conoscenza ma anche, mediatamente, della prassi. Progresso è da intendersi, di volta in volta, come il superamento del negativo, il progredire della verità sul falso, del bene sul male, secondo l’interpretazione che via via si dà del momento storico. Non si tratta di una sequela di teorie e scoperte scientifico-filosofiche, ma si concretizza nella quotidiana lotta che l’uomo sostiene nel signoreggiare se stesso e la vita che lo circonda secondo una visione rigorosamente dialettica della storia. L’eterna lotta per la libertà.

L’altra grande questione affrontata da F., che si intreccia pienamente e coerentemente con il suo pensiero fondamentale, è quella della dialettica. Ne Le origini della dialettica, F. imbastisce un vero e proprio profilo storico dell’idea di dialettica intesa essenzialmente come logica del reale, del divenire, della contraddizione. Generalmente si attribuisce ad Hegel la primogenitura del pensiero dialettico. F., pur confermando che con il filosofo di Stoccarda si compie la prima, ampia sistemazione della logica dialettica, rinviene nei filosofi antichi, soprattutto nel Platone dei dialoghi maturi e nell’Aristotele della unificazione-distinzione fra materia e forma e fra contrari e contraddittori, i primi germi di quella rivoluzione epistemologica che si compirà con l’idealismo tedesco. Ma tappe importanti saranno segnate dalle faticose meditazioni di filosofi come Cusano, Vico e Kant.

La questione della dialettica e della logica della filosofia tornerà a occupare l’ultima fase del pensiero di F., a partire da una riconsiderazione del rapporto fra le scienze empiriche, la filosofia e il potere economico e politico. Nel volume Eutanasia dei principii logici, del 1989, ripercorre lo stesso itinerario filosofico condotto nella ricerca sulle origini della dialettica, da un punto di vista, per così dire, inverso, che è quello specifico della teoria del giudizio prospettico: il sorgere e lo svilupparsi del pensiero dialettico coincide, infatti, con l’eutanasia dei principii astratti della logica formalista. Al centro della questione si ripropone l’antico tema del principio di non contraddizione, revocato in dubbio e, addirittura, capovolto dalla logica dialettica o del concreto. F. recupera invece, il senso proprio del principio di non contraddizione nell’ambito del giudizio storico-prospettico. Nell’unificazione fra universale (predicato) e particolare (soggetto) si attua la vera conversione del fatto con il vero. Dei due termini, apparentemente opposti, particolare e universale. È il giudizio che unifica il diverso nella concreta dinamica della storia, superando il limite posto dal principio di identità e, perciò, sfuggendo alla tautologica assurdità di quel principio che enuncia sempre e solo se stesso.

Con Il potere e le ipotesi. Tappe di una filosofia delle funzioni, del 1989, si compie l’itinerario filosofico dello storicismo prospettico di F. È qui definitivamente affrontato il grande tema dell’epistemologia, del rapporto fra scienze e filosofia, fra ricerca scientifica e potere in tutte le sue accezioni. Per molti riguardi F. riconferma il carattere essenzialmente pratico-utilitario delle scienze nel solco, non solo della filosofia crociana, ma di tutta l’epistemologia contemporanea antipositivistica fino a Popper. Accentua, anzi, i toni della polemica antiscientista mostrando quanto influisca perfino sulla ricerca cosiddetta pura il potere e come essa sia generalmente inquinata e condizionata da fattori estrinseci. Ciò non pertanto, il pensatore napoletano cerca di superare una certa rigidità presente nelle distinzioni categoriali operate da Croce. Alle categorie si attribuisce una maggiore flessibilità delle funzioni attraverso le quali si esplica la concreta attività umana che nelle distinzioni è pur sempre unità.

Ma il confronto con Croce rimane comunque quello decisivo anche se non si può parlare di F. soltanto come di un sia pure illustre interprete o combattivo apologeta. In quello che forse è l’ultimo suo scritto edito, redatto in occasione di una conferenza tenuta il 22 ottobre 1989 e pubblicato l’anno successivo (in Il ritorno di Croce nella cultura italiana, Rusconi, Milano), F. traccia una sorta di consuntivo critico della filosofia crociana e della sua influenza nella cultura italiana e straniera. Giunto ai suoi settant’anni, lo studioso napoletano così concludeva, significativamente, il suo intervento:

«Come ogni grande pensatore, Croce è un mondo a parte e in certo senso un’istituzione o, se si vuole, un labirinto. Ma alla fine, quanti hanno coraggiosamente tentato l’impresa di penetrarvi, ne sono venuti fuori e in qualche caso hanno scoperto la strada per entrarvi di nuovo con la sicurezza di poterne uscire al momento opportuno».

In questa dichiarazione, che sembra essere quasi un riepilogo della propria, personale vicenda, si coglie, assieme, un senso di umiltà e di orgoglio. Certamente la constatazione, lucida e oggettiva, che la filosofia è perenne ricerca, ma quella speciale ricerca che nello stesso ricercare trova sempre qualcosa: il metodo liberale.

Con questo titolo, Il dissenso liberale, F. volle raccogliere una serie di scritti di varia occasione che testimoniavano, da un lato, il suo impegno politico in senso stretto e, dall’altro, la dimensione culturale del suo impegno di «dissidente» nei confronti di una cultura ufficiale essenzialmente illiberale, dominata dalla mentalità ormai decadente dei totalitarismi del primo Novecento.

Sin da giovanissimo collaborò variamente alla stampa liberale, soprattutto con «Il Giornale», pubblicato a Napoli nell’immediato dopoguerra. Ma la collaborazione più importante, svolta sul crinale fra l’impegno politico e quello culturale, fu quella con «Il Mondo» di Mario Pannunzio. Un’esperienza decisiva per l’itinerario filosofico franchiniano. L’idea, infatti, che l’intellettuale non dovesse, come una volta affermò Croce, intervenire quando la casa è in fiamme ma cercare di prevenire l’incendio, maturò proprio in quegli anni. Il giovane studioso liberale, infatti, accanto all’impegno teoretico e a quello accademico non abbandonò mai quello che lui definiva dell’organizzazione della cultura, quello per il quale bisognava sempre lavorare perché ci fossero le condizioni materiali per la libera iniziativa culturale. Non a caso nel 1964 F. collaborò attivamente con Alfredo Parente alla fondazione della «Rivista di studi crociani» e, fino al 1984 non mancò mai di offrire il suo fondamentale contributo. La rivista rappresentò un luogo fondamentale per la formazione di giovani studiosi e per l’approfondimento delle più urgenti tematiche della filosofia contemporanea dal punto di vista dello storicismo. Ma rappresentò anche una palestra per molti giovani liberali che accompagnarono l’attività di studiosi con quella dell’impegno politico. Collaborò con la rivista «Nord e Sud», diretta da Francesco Compagna, che rappresentò una sorta di crocevia della cultura liberaldemocratica di varia ispirazione. Negli ultimi anni della sua vita rifondò la rivista «Criterio», prestigiosa testata fondata da Carlo Ludovico Ragghianti.

Furono anni di particolare fervore. Il settimanale pannunziano, di chiara ispirazione crociana ma ampiamente rappresentativo dell’intera cultura liberale e riformista dell’Europa del tempo (ai primi numeri collaborarono lo stesso Croce e Thomas Mann, fra altri grandi intellettuali), pur incarnando, per certi aspetti, una visione minoritaria della società, per altri rappresentò uno dei versanti più originali e creativi della cultura italiana. Coerente con la sua impostazione, soprattutto negli anni della maturità volle impegnarsi direttamente nella vita politica attiva, assumendo cariche direttive nel Partito liberale e partecipando attivamente alle campagne elettorali. Collaborò con Guido Cortese nella fase della ricostruzione del Pli dopo il fascismo e via via con Giovanni Malagodi (al quale fu particolarmente legato, come alla rivista «Libro Aperto»), Valerio Zanone e Antonio Patuelli non solo sul terreno dell’organizzazione culturale ma anche su quello strettamente politico.

Raffaello Franchini

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