Ragionamento probatorio e accertamento della verità: il giudice e lo storico.

Lo stato del problema

Le tante polemiche suscitate oggi dalle grandi questioni della giustizia e della legalità rendono forse necessario tornare a riflettere sui fondamenti stessi del Diritto e, specificamente, sulla funzione del giudice, al di là delle contingenze e fuori da un dibattito che rischia, talvolta, di precipitare nel mero ideologismo.

La domanda di fondo che ci si pone è se il ragionamento probatorio, di per sé indispensabile e ineludibile da un punto di vista giuridico, sia fondato su quello che potremmo definire un ragionamento vero. Per vero qui intendiamo, com’è evidente, un ragionamento che non accerti la validità della prova, e nemmeno la sua plausibilità, ma la veridicità in senso proprio, in senso forte, si potrebbe dire in senso filosofico. Questa domanda radicale, nella sua cruda semplicità, rimanda, com’è naturale, ai quesiti che sono al fondamento della ricerca filosofica sin dal suo stesso nascere. Ci chiediamo, dal punto di vista del diritto, cosa sia la verità, se sia possibile conoscerla, se sia possibile comunicarla. O, almeno, se esista e quale sia una ragionevole approssimazione della inattingibile verità. In altre parole, se il giudice, nel suo alto e difficile compito di emettere giudizi possa contare sulla certezza del ragionamento probatorio. E, se così non fosse, su cosa dovrebbe fondare il suo giudizio perché questo non degeneri in mero arbitrio.

Uno sguardo alla storia

Abbiamo già accennato che la nascita della filosofia coincide con la ricerca della verità, a partire dai primi filosofi a noi conosciuti i quali si chiedevano quale fosse il principio unificante della molteplicità del reale, principio che assumeva le caratteristiche della certezza e, dunque, da questo punto di vista, della verità.

Ma la questione si presenta in tutta la sua forza nella polemica sofistica, nella meditazione socratica e platonica. Con sorprendente attualità, quei temi sembrano essere ancora i nostri temi di discussione. La ricerca della verità, infatti, coincide, o sempre si accompagna, alla ricerca del giusto, del bene. Questi filosofi ben sapevano, infatti, che senza conoscere la verità in generale, non si poteva conoscere il concetto di bene. Perché un concetto, quale che sia, per essere tale, deve essere vero.

Con la Sofistica, soprattutto con Gorgia, il concetto di verità è revocato in dubbio e il sofista sostiene che è possibile far diventare buono il discorso cattivo e cattivo il discorso buono con l’arte della dialettica, dell’oratoria, con quella che oggi alcuni filosofi definirebbero argomentazione o nuova retorica. E Socrate, e con lui e più di lui Platone, oppongono l’idea che alla doxa bisogna sostituire la episteme, ossia al puro discorso relativistico il discorso certo e vero del pensiero.

Per pura comodità espositiva, cercheremo di riassumere, in estrema sintesi, le tre posizioni fondamentali (ma è naturale che ogni filosofo ed ogni studioso ha rappresentato una irripetibile e originale posizione filosofica), tutt’ora in campo, relative alla nostra problematica. Esse sono: a) la posizione realista; b) la retorico-argomentativa; c) la storico-dialettica.

La posizione realista

Per posizione realista, intendiamo quella per la quale si ritiene che il pensiero, o il linguaggio, possa adeguare la realtà (la res) e, pertanto, giungere ad una verità oggettiva, la verità delle cose stesse. Questo atteggiamento filosofico è presente sia nel platonismo che nell’aristotelismo. Infatti l’aristotelico Tommaso D’Aquino pensava ad una possibile adeguatio intellectus et rei. Ma già in questi grandi filoni fondativi della filosofia la realtà non era, né poteva identificarsi, con ciò che noi, abitualmente e comunemente, definiamo realtà, giacché la realtà di una cosa, di un fatto, non era poi la cosa stessa o il fatto stesso, ma pur sempre l’idea o la rappresentazione, o l’emanazione, di altre realtà, quella dell’idea, del pensiero stesso o della divinità. Ma ciò che conta per noi è il principio fondamentale per cui secondo quelle filosofie rimaneva possibile attingere ad una qualche verità oggettiva e immutabile.

Da Cartesio in poi, con Kant e con tutta la filosofia moderna e contemporanea, l’idea che si potesse attingere alla verità fattuale, che si potesse accertare una precisa corrispondenza fra la cosa e l’idea della cosa, fra l’oggetto e il linguaggio che l’oggetto designa, e così via, è stata sostanzialmente abbandonata. Si fa strada, infatti, la concezione attiva (per non dire creativa) della conoscenza, per cui la verità è accettabile solo a partire dalla validità oggettiva delle categorie soggettive della conoscenza.

Nel nostro secolo, ad opera di alcuni epistemologi soprattutto di scuola austriaca e poi anglo-americana, vi è stato il tentativo di riproporre teorie realiste della verità, fondate o sul principio di verificazione o sulla analiticità degli enunciati del ragionamento puramente razionale o sulla combinazione dei due metodi. Questi tentativi non hanno dato risultati. La crisi del movimento fu interna al movimento stesso perché filosofi come Wittgenstein, Popper o storici della scienza come Kuhn, per non citare che i più noti, hanno dovuto riconoscere che non solo la filosofia ma la stessa scienza non possono fondare le loro certezze e le loro verità sulla prova empirica o sul puro ragionamento inferenziale. La rivincita, potremmo dire, nell’ambito dell’empirismo stesso, di quel geniale filosofo, David Hume, che pur provenendo dall’empirismo, aveva mostrato i limiti conoscitivi dell’empirismo stesso. D’altro canto, già all’inizio del secolo, con gli empiriocriticisti Mach e Avenarius, fino ad oggi con scienziati come Heisenberg o, ai nostro giorni, Prigogine, si è pervenuti ad una concezione diversa della scienza classica di tipo newtoniano: si è abbandonato il cosiddetto riduzionismo per approdare ad una idea complessa, creativa e attivistica della conoscenza.

Per tornare dunque al nostro discorso specifico, possiamo dire con una certa sicurezza che il ragionamento probatorio al quale il giudice deve attenersi per formarsi il libero convincimento ed approdare ad una ragionevole verifica del giudizio attraverso le prove, non può fondarsi sul metodo scientifico di tipo tradizionale. Ciò non significa, beninteso, che le prove non vadano verificate, che non ci sia un contributo specifico del procedimento scientifico. Ma si vuol dire che esso non ha i requisiti della certezza e della verità, che non può esaurirsi in esso il metodo del ragionamento probatorio.

La posizione retorico-argomentativa

La crisi del tentativo neopositivista di pervenire, come si è visto, a criteri oggettivi di verità e la contemporanea crisi delle grandi ideologie le quali, per altri aspetti non puramente gnoseologici indicavano certezze e verità da raggiungere almeno nell’orizzonte etico-politico, hanno spinto molti studiosi a recuperare la tradizione retorico-dialettica e la tradizione ermeneutica della filosofia antica e moderna. Perelman, ad esempio, teorizzando una “nuova retorica” ha cercato di opporre alla filosofia analitica anglo-americana e all’empirismo logico di scuola austriaca una teoria dell’argomentazione la quale trova la ragione della verità nella plausibilità ed efficacia dell’argomentazione stessa, al di là delle prove logiche delle verifiche empiriche. Salta agli occhi come questa, ed altre posizioni di cui qui non è possibile dar conto, sembrino riportare in auge l’antica sofistica, sia pure con connotazioni etiche positive, non puramente scettiche o relativistiche. La storiografia, la stessa filosofia, sono state ricondotte, pensiamo ad esempio a P. Ricoer, al recit, al racconto, alla pura narratologia. Questa mentalità, la quale ha riscosso un certo successo anche in alcuni settori del contemporaneo pensiero giuridico, conduce, inevitabilmente, ad una radicale soggettivazione del giudizio. Essa ha avuto una notevole importanza nel fronteggiare la crisi dell’epistemologia contemporanea ma non vi è dubbio che ha finito con l’accentuare, in modo forse eccessivo, l’aspetto creativo, soggettivo, in qualche caso intuizionistico, del giudizio di verità, in qualunque campo esso si eserciti.

Nell’ambito della nostra problematica, una teoria puramente argomentativa o puramente ermeneutica sottrae senso e significato al ragionamento probatorio, per cui è difficilissimo segnare i limiti fra soggettività dell’interpretazione e arbitrio.

La posizione storico-dialettica

La terza posizione, che di proposito abbiamo lasciato per ultima, non è, come potrebbe sembrare, semplicemente una mediazione o composizione delle due precedenti. Affonda le radici, a seconda dei paesi e delle culture, nello storicismo vichiano, nel Kant della Critica del giudizio (o facoltà di giudicare), nell’idealismo tedesco (da Fichte ad Hegel), in larghi settori del marxismo, nello storicismo italiano di Croce, non senza escursioni nel platonismo, nello stesso aristotelismo e nella filosofia italiana del Cinquecento e del Seicento (da Machiavelli a Giordano Bruno). E’ una tradizione che interseca, ora esplicitamente ora implicitamente, la tradizione ermeneutica, da Schleiermacher a Gadamer, dalla fenomenologia al cosiddetto “pensiero debole” e “della differenza” italiano e francese. Non pochi studiosi, infatti, hanno cercato e trovato punti di contatto con la teoria dell’argomentazione, con l’ermeneutica fenomenologica, con la moderna epistemologia della complessità.

In quanto filosofie che collocano come loro centro speculativo l’idea che alla conoscenza si pervenga attraverso la temporalità e la storicità, attraverso la fondazione soggettiva dell’oggettività del sapere, esse possono definirsi, con definizione necessariamente generica, filosofie del giudizio.

L’argomentazione, opposta all’analisi puramente logico-formale o empirica, se non vuole essere puro artificio linguistico, deve potersi ancorare al giudizio, inteso come congiunzione di universale e particolare, ossia alla concreta conoscenza di un evento, quale che sia (etico-politico, giuridico, estetico, economico), storico.

Nella nostra prospettiva ciò vale a dire che il giudizio del giudice è sempre, come tutti i giudizi, un giudizio storico. Il giudice soggiace alla legge ma la legge, in sé e per sé, è un’astrazione, una generalizzazione. La sua funzione è puramente economica, nel senso che serve, è funzionale all’azione giudiziaria vera e propria, un po’ come la grammatica sta al concreto e vivo linguaggio. Nel giudizio vero e proprio, nel processo, nel dibattimento, per così dire, irrompono elementi sempre nuovi e irripetibili, di ordine culturale, sociale, psicologico, esistenziale, e così via all’infinito. La ricerca della prova, il ragionamento probatorio, sono parte indispensabile, quindi, del processo, sia storico che giudiziario (non è un caso che la parola processo evochi la storicità e la temporalità), ma non sono il giudizio nella sua complessità.

Il giudizio, dunque, è incerto? E’, per sua stessa natura, indicibile e, dunque, nemmeno più un giudizio? No. Semmai il giudizio, così inteso è provvisorio, come tutto è provvisorio nella vita. E’ vero nella sua storicità, potremmo dire, finché è vero, fino a prova contraria. E questa, nella nostra prospettiva, non è una vuota tautologia o una pura petizione di principio. E’ l’idea della verità come processo storico.

Conclusioni

Per tutto ciò che si è detto, sarebbe contraddittorio, oltre che presuntuoso, proporre in una formula o in una definizione, per quanto articolata, un criterio di verità per il giudizio del giudice, se ci è concesso dire così. Tanto meno ci sentiamo di capovolgerci nel puro irrazionalismo e di dichiarare la bancarotta del pensiero, ossia della ricerca della verità e, con essa, la liquidazione del pensiero pratico, per dirla con Kant, del pensiero giudirico. Fra le due posizioni estreme del razionalismo e dell’intuizionismo, che sul piano giuridico diventerebbero quella di un giudizio completamente asservito alle regole ovvero quella di un giudizio completamente e totalmente arbitrario, ci sentiamo di sostenere una posizione prudente nel senso, ovviamente, della prudenza aristotelica, che è la ricerca del giusto mezzo, che è una prudenza del pensiero e non morale, che sconfinerebbe nella viltà. La prudenza, come la intendevano i greci, opposta alla tracotanza.

Sul piano specifico, sentiamo ancora attuale e molto vicina a noi la riflessione di Piero Calamandrei che, nel 1939, in un noto saggio, paragonò l’attività del giudice a quella dello storico e, potremmo aggiungere, a quella del critico, quale che sia l’ambito del suo interesse. Come lo storico, il giudice cerca le fonti, come lo storico indaga su un avvenimento avvenuto nella temporalità, come lo storico ha il dovere morale della imparzialità, ma come lo storico non è neutrale perché porta con sé la sua vita, le sue esperienze, la sua psicologia, in una parola, la sua irripetibile individualità. Il giudice dunque non può, non deve, presumere di conoscere la verità in senso tradizionale: in senso realista, razionalistico o della rivelazione. Ma ciò non conduce, necessariamente, all’arbitrio, perché il giudice può contare sulla verità storica del giudizio che non è solamente e puramente retorico-argomentativa. Egli coglie una verità in movimento, come si dice, perciò il giudice che tenga conto del giudizio, del senso comune, dei risultati a cui è giunta la comunità scientifica (che si rivelino falsi non è problema del giudice), e intenda applicare le leggi, può fondare la sua sentenza sul ragionamento probatorio. Ben sapendo che ogni ragionamento è per sua natura fallibile, ed è vero, come si è detto, finché è vero.

In ciò consiste, come a volte si dimentica, il valore morale del compito del magistrato. Se, infatti, non vi fosse la possibilità dell’errore, se non ci fosse la libertà del giudizio, ma tutto già fosse determinato da un assoluto criterio di verità che al giudice spetterebbe solo di applicare meccanicamente, come fosse una macchina, in che cosa consisterebbe l’esercizio del comprendere e del giudicare? E, in fondo, come si valuterebbe il caso di un giudice in mala fede? Quello della giustizia perfetta è un sogno, un sogno per tanti aspetti nobile perché implica una tensione morale altissima, ma, tradotto nella pratica si capovolge nell’incubo del più cupo totalitarismo razionalistico. La responsabilità del giudice, infatti, risiede proprio nella possibilità di sbagliare, che coincide, in questo caso, con la sua libertà.

Per questi motivi non è lecito, a nostro avviso, prendere posizioni nette rispetto alla questione del garantismo. E’ facile comprendere che, quando il sistema giudiziario si trova sottoposto al potere politico ed economico, oppure attraversa un momento di decadenza morale e di corruttela, il garantista invochi regole certe, il più possibile oggettive, per limitare l’arbitrio del giudice a garanzia di tutti i cittadini. Ma è altrettanto vero che, in situazioni storiche diverse, nelle quali è necessario difendere l’autonomia e la libertà acquisite dalla magistratura da un potere politico invadente o da tentativi di condizionamento, il garantista deve invocare e difendere quella libertà e quella autonomia da qualsiasi regola “oggettiva” che tenda a limitare l’azione giudiziaria.

Per questi motivi, come altre volte abbiamo scritto, abbiamo in qualche sospetto le continue richieste di efficienza, specializzazione, rapidità, nell’ambito dell’amministrazione della giustizia. E’ vero che “giustizia ritardata è giustizia negata” ma è ragionevole pretendere che l’accertamento della verità giudiziaria sia attento, meticoloso, rigoroso. E continuiamo a credere che la forma migliore di garanzia sia la pluralità dei gradi di giudizio, il libero confronto fra i giudici, il massimo di pubblicità del loro operato.

il giudice e lo storico

Ernesto Paolozzi

Da “Libro Aperto”, gennaio-marzo 2002