Il nucleo vero della crisi della scuola d’oggi è nel non riuscire a soddisfare più né le esigenze di formazione delle classi dirigenti del paese, né quelle del mondo del lavoro.
Da “Corriere economia” del 12 novembre 2001
Poche settimane fa, in questa stessa rubrica, ricordammo come la signora Moratti fosse partita, per così dire, col piede giusto nel cercare di affrontare i problemi della scuola e della formazione evitando il più possibile i temi puramente ideologici. Avvertimmo però che su un punto stava rischiando di cedere ad uno dei luoghi comuni più deleteri della cultura economicista degli ultimi anni, quello di considerare il lavoro degli insegnanti da un punto di vista puramente quantitativo. Dobbiamo dire, con molta chiarezza e franchezza che la Moratti ha avuto il grande merito di riconsiderare la questione una volta che sindacati e organizzazioni varie hanno posto con forza le loro obiezioni, in quel frangente valide.
In quell’occasione, elencammo una serie di problemi che ci apparivano prioritari, cercando di mettere a frutto una lunga esperienza in questo settore. Fra questi, sottolineavamo quello derivato, sin dagli ormai lontani anni Sessanta, dalla totale indistinzione fra le varie propensioni presenti nel variegato mondo dell’istruzione e della formazione. Ora sembra che il Ministero si appresti a varare una riforma che, per taluni aspetti, propone questa distinzione cercando, sin dal secondo anno delle medie inferiori di distinguere fra indirizzi, per così dire, umanistici e scientifici, e indirizzi professionali, legati alle esigenze del mondo del lavoro.
Il nucleo vero della crisi della scuola d’oggi è infatti nel non riuscire a soddisfare più né le esigenze di formazione delle classi dirigenti del paese, né quelle del mondo del lavoro, finendo col deludere le aspettative dei giovani che non acquisiscono nessun tipo di competenze spendibili ai vari livelli della società.
Immaginiamo che contro la posizione del Ministero si ergeranno barricate demagogiche di vario tipo. Si dirà, si è già detto, che si vuol riproporre una scuola classista, separando vite e destini dei giovani secondo l’appartenenza a gruppi sociali più o meno fortunati. E’ una falsità, a nostro avviso, perché oggi il basso livello raggiunto dal sistema educativo, dall’Università alle medie, svantaggia proprio i meno abbienti, dato che i figli dei “ricchi” possono permettersi di seguire percorsi educativi del tutto alternativi. Quando, negli anni Sessanta, si abolirono le cosiddette scuole di avviamento professionale, la condizione sociale e politica del paese era del tutto diversa. Forse, e dico forse, allora effettivamente quella separazione finiva con l’essere anche una separazione di classe, dal momento che una consistente fetta della popolazione scolastica aveva reali difficoltà economiche a proseguire gli studi oltre i pochi anni dell’istruzione elementare. A quei tempi non c’era nessun altro strumento di affermazione culturale e sociale se non la scuola, mentre oggi è evidente che le tante opportunità di formazione, anche civica e morale, rendono possibile quella scelta un tempo discriminatoria.
Si dovrebbe sperare che, nei confronti della nuova riforma dei cicli l’opposizione, la sinistra storica e politica, si mostri costruttiva e selettiva. Proponga cioè le sue modifiche, suggerisca le giuste correzioni che una lunga esperienza, radicata in una forte cultura, può e deve dare. Speriamo che non prevalga, invece, quella che potremmo definire “sinistra pedagogica”, per parafrasare Francesco Compagna che, negli anni Sessanta, parlò di una deleteria sinistra sociologica. Compagna intendeva con ciò identificare quel variegato mondo intellettuale, un po’ troppo salottiero, certamente confuso e troppo spesso ignaro dei problemi reali della società, delle classi meno abbienti che aspirava a rappresentare. Quella sinistra pedagogica che crede di contribuire alla lotta alla mafia con i disegni dei bambini delle elementari piuttosto che invocando e pretendendo un maggiore impegno delle forze di polizia e dello Stato in generale. Quella sinistra pedagogica che ha invaso e pervaso di retorica stucchevole una parte cospicua della cultura italiana la quale poi si è istituzionalizzata e rappresenta oggi interessi sedimentati, settoriali e burocratici ben attrezzati a difendere se stessi. Basti pensare, ad esempio, lo ripeteremo sino alla noia, all’equivoco della cosiddetta riforma dell’autonomia, nella quale l’autonomia è così burocraticamente disegnata dal trasformarsi in una sorta di gabbia in cui si rischia di veder messa a repentaglio persino la vecchia, buona libertà di insegnamento garantita dalla Costituzione.
Bisognerebbe, ci permettiamo di suggerire, porre mano anche alla questione della programmazione che è, o una mera finzione, un puro impaccio burocratico, oppure una forma, surrettizia e subdola, di ingabbiamento della libera espressività dell’insegnante. Non è questo il luogo di approfondire questo tema, ma non sarebbe male se ci si esercitasse su di esso con spirito libero e mente sgombra da pregiudizi.
Ernesto Paolozzi
Da “Corriere economia” del 12 novembre 2001