(La Rivoluzione ingenerosa, Guida editore, Napoli 1996 di Ernesto Paolozzi)

                                     

   Nel 1989 Giulio Andreotti, il più longevo uomo politico italiano (alla ribalta sin dagli anni della Costituente), guida il governo con l’appoggio del suo partito, la Democrazia Cristiana, dei socialisti riformisti di Craxi, dei socialdemocratici, dei repubblicani e dei liberali. In quello stesso anno cade il Muro di Berlino, quasi a simboleggiare fisicamente la morte del comunismo. Si avvia, per ovvia necessità, il travaglio del più grande partito comunista dell’Occidente, il partito comunista italiano, che muterà nome e atteggiamenti politici per arginare la profonda crisi in cui versava ormai già da anni.

 

   Sul piano politico, culturale e morale, sembra che per la classe dirigente che ha governato il paese per un quarantennio, non possa che profilarsi un radioso avvenire. Il nemico più temibile è travolto, umiliato. Sulla destra (è doveroso ricordarlo) non vi è nulla o quasi: i moderati e i conservatori aderiscono e votano per i partiti di governo e il partito erede del fascismo sembra ricevere solo il consenso di pochi nostalgici, e di frange emarginate di giovani sbandati. Morto il suo ultimo leader storico, Giorgio Almirante, sembra destinato alla scomparsa.

 

   Qualche sintomo di crisi era apparso all’orizzonte: nel 1987 venivano eletti in parlamento un deputato e un senatore della Lega Nord, un movimento nato in Lombardia dai tratti ancora indecifrabili, ma da tutti (o quasi) considerato, con il suo reclamare la “separazione” della ricca regione dall’Italia, poco più che un movimento folcloristico.

 

   Il centro della politica italiana cresceva a dismisura. La lotta, come vedremo, ridotta ad una concorrenza di tipo personale fra leaders, gruppi, correnti e frazioni (anche agguerrite) ma sostanzialmente uniti in una comune visione del modo di intendere e praticare il Potere. Un democristiano conservatore, Mario Segni, propose un referendum –1991– per abrogare le preferenze multiple nel tentativo di limitare lo strapotere delle segreterie dei partiti organizzati. Fu una travolgente vittoria: favorevoli il 95% degli elettori. Un altro campanello d’allarme, ma molto fievole. Dove erano le forze organizzate in grado di mettere in discussione partiti e governi forti e sperimentati, che avevano brillantemente superato crisi di grande portata, come la rivolta studentesca ed operaia degli anni Sessanta, la crisi economica ed energetica degli anni Settanta, il terrorismo rosso e nero?

 

   E, invece, il sistema italiano somigliava ad un gigantesco telone di cartapesta. Bastava un po' di vento a farlo crollare. E il vento cominciò a levarsi il 17 febbraio del 1992, quando un oscuro pubblico ministero fece arrestare un altrettanto oscuro uomo politico aderente al partito socialista. Da allora, come in una reazione a catena, l’intera classe politica italiana crollò sotto i colpi di indagini giudiziarie.

 

   In due anni scompare la Democrazia cristiana e si frantuma il mito dell’unità politica dei cattolici; scompaiono i partiti di cultura risorgimentale, liberali e repubblicani, i partiti dell’Internazionale socialista.

 

   Un referendum popolare, promosso ancora da Segni, abroga il sistema elettorale proporzionale. L’Italia va al voto con un maggioritario spurio, in un clima rovente che ricorda quello del ‘48. Le inchieste continuano fra sospetti e ipocrisie; i mass-media soffiano sul fuoco e l’incendio divampa sempre più furioso. Il PDS (ex PCI), solo pochi mesi prima moribondo, sembra poter vincere le elezioni, ed ha già conquistato, con i suoi alleati di sinistra, nelle precedenti elezioni amministrative, grandi città come Torino, Roma, Napoli e Palermo. Cominciano a nascere sospetti sulle procedure seguite da alcuni magistrati che vengono accusati di svolgere un’azione politica al servizio delle sinistre. Ma la gente sembra essere con i giudici e prospera nel paese una sorta di caccia morale agli inquisiti, ai cosiddetti riciclati (erano così definiti tutti quelli che avevano svolto una qualche funzione pubblica salvo, naturalmente, alcuni unti dal Signore) e agli amici degli amici degli amici degli uomini politici in disgrazia.

 

   Un imprenditore, proprietario dell’unico polo televisivo privato concorrente di quello pubblico, nel passato legato al partito socialista, crea, in pochi giorni, un movimento politico dai tratti ideologici indecifrabili, ma estremamente visibile e chiaro nel messaggio elettorale. Rispolvera, in sostanza, l’antica paura del comunismo, rivendica il liberalismo ma, contemporaneamente, si allea con il Movimento Sociale Italiano, statalista ed erede del fascismo, che la nuova legge elettorale sembrava aver destinato alla scomparsa, e con la Lega. Le elezioni vengono vinte, sia pure di poco, dallo schieramento di destra. Il centro, formato dagli ex democristiani (il neonato Ppi) e dai referendari di Segni, viene travolto. La sinistra, egemonizzata dal PDS, si definisce di gran lunga l’unica forza in grado di resistere a di sconfiggere la destra. E da allora un susseguirsi di crisi, di ribaltoni, di scomporsi e comporsi in alleanze, in uno scontro senza precedenti fra  i Poteri dello Stato; di crescente disoccupazione, in un clima di persistente confusione.

 

   Ci fermiamo qui. Tocca ad altri e più autorevoli storici raccogliere documenti, collegare fatti e persone. Ma come appaiono inadeguate le categorie politiche e sociologiche con le quali ci ostiniamo ancora ad interpretare gli eventi! Sinistra, destra, centro. Luoghi geografici o punti geometrici? Strano caso quello di un Paese in cui gli excomunisti e gli exfascisti, solo pochi anni prima incamminati verso la scomparsa, si contendono, alle soglie del Duemila, il governo di una delle più grandi democrazie occidentali. Strano paese quello in cui molti meridionali hanno votato per una coalizione della quale era parte integrante un partito nato in funzione essenzialmente antimeridionale. Strano paese quello che, in pochi mesi, condanna tutta la sua storia, cinquant’anni di vita democratica.

 

   Qualcosa, anzi molto, sfugge ad una consueta interpretazione politologica degli avvenimenti. Come se, all’improvviso, scoperchiata la pentola, abbia disvelato la sua vera natura un popolo completamente diverso, incapace di governarsi secondo i principi di una moderna democrazia.

 

   Non  appaiono chiari quelli che un tempo si sarebbero chiamati interessi di classe, le tendenze etico-politiche dei neonati opposti schieramenti, e tanto meno degli elettori. Sembra che, caduti alcuni vincoli, il popolo si sia smarrito e segua comportamenti dettati unicamente da sentimenti elementari quali la simpatia e l’antipatia, l’affidabilità, la coerenza … .  Anche Hitler fu uomo coerente, anzi coerentissimo, e Stalin affidabile ed efficiente. Il paese, tenuto insieme per decenni dalla paura del comunismo sovietico e dalle clientele dei partiti di governo, è sembrato perdersi allorché una serie di avvenimenti casuali gli ha affidato per intero la responsabilità della propria libertà.

 

  Eppure, in attesa che la prospettiva storica ci rimetta in condizione, se sarà possibile, di “comprendere” i nessi e le ragioni della recente storia italiana, si può azzardare un’ipotesi: il nostro travaglio è figlio di una condizione generale di stampo metapolitico: è la crisi di una società cinica che si era mimetizzata e quasi accovacciata sotto il lieve peso di retoriche definizioni: società postmoderna, pragmatica, postideologica, e così via. Non riusciremo a intendere fino in fondo le nostre vicende se non troveremo il coraggio di leggere in noi stessi; non potremo mai costruire un futuro se continueremo a fingere di conoscere un passato che non esiste. La crisi italiana ha radici morali ben salde negli anni Ottanta. E’ la crisi di un modo di concepire la vita, di una cultura, di una civiltà che sembra essere stata sommersa e che potrà riemergere solo a patto che non si nasconda dietro le ipocrisie delle interpretazioni “scientifiche” della politologia.

 

 

 

Gli anni del consenso

 

 

 

   Negli anni Ottanta la democrazia italiana sembrava aver raggiunto il culmine della sua maturazione; le idee liberali trionfavano; il livello complessivo della vita civile cresceva. Il terrorismo di destra e di sinistra (soprattutto di sinistra) che aveva annichilito gli italiani nel decennio precedente, era stato sconfitto. I partiti estremisti irrimediabilmente condannati ad un sterile ruolo di testimonianza, oppure rapidamente incamminati sulla via del riformismo. Ciò che sembrava una malattia tipica della politica italiana, il sotterraneo accordo fra governo e opposizioni, il cosiddetto consociativismo fra partito cattolico di governo e partito comunista all’opposizione, sembrava essersi esaurito dopo aver raggiunto l’acme con i governi di solidarietà nazionale nati con l’emergenza del terrorismo. L’inflazione, sul piano economico, in gran parte domata. La conflittualità sociale ristretta negli ambiti fisiologici: il capitalismo italiano, superata la crisi energetica, avviato sulla strada della ristrutturazione concordata con le grandi forze sindacali. Il governo politico, espressione di un diffuso moderatismo di centrosinistra (ciò che sembrava incarnare da sempre l’ideale tranquillo della maggioranza degli italiani) era rappresentativo delle tre grandi forze ideali e sociali della storia nazionale: i cattolici-popolari, i liberali, i socialisti riformisti o democratici. L’instabilità stessa, caratteristica dei governi italiani, sembrava attenuarsi e i governi, sostanzialmente, reggevano all’ urto di una consuetudinaria e mai traumatica lotta politica. Mai, come in quegli anni, il benessere materiale sembrava essersi ampiamente e stabilmente diffuso fra crescenti strati della popolazione, del Nord come del Sud.

 

   Non mancavano certo le lamentele e i mugugni, ma nulla pareva dover deviare dalla quieta e tranquilla gestione di una consolidata e affidabile democrazia avanzata. Finalmente l’Italia postfascista, contadina e povera, era entrata a pieno titolo nel consesso dei grandi paesi industrializzati, delle grandi e influenti democrazie occidentali.

 

   Il grande edificio costruito dalle generazioni postfasciste sembrava solido sulle fondamenta, anche se si avvertiva qua e là qualche soffocato scricchiolio. I servizi sociali non sempre si dimostravano all’altezza della situazione: ferrovie, poste e burocrazie lasciavano a desiderare. Ma qual è quel popolo, dall’antica Atene alle avveniristiche megalopoli americane, che non si lamenta, che non mugugna, che non chiede al re, all’imperatore, al Papa, al Presidente, allo Stato, maggiore impegno nell’assistenza, una migliore qualità dei servizi? E i grandi mali che affliggevano l’ambiente, dall’inquinamento alla devastazione architettonica delle grandi città, non erano forse un male universale, rovescio della medaglia del magnifico e inarrestabile progresso, male che sovrasta la responsabilità di una classe politica di un solo paese?

 

   Così, a tutti, sembrava. Le ideologie, si proclamava con soddisfazione, i rigidi steccati eticopolitici, morti e sepolti. Un sano e robusto pragmatismo subentrava, finalmente, alle risse ideali: non più marxisti e crociani, atei e cattolici. Gli italiani, cresciuti e maturati, come saggi dirigenti di piccole e prosperose aziende di provincia, pensavano a lavorare, ad accrescere il proprio patrimonio, a discutere anche e, se il caso, a litigare, ma limitatamente a piccole faccende di economia domestica. I giovani, eternamente rivoltosi e scioccamente idealisti, ora, nell’Italia matura e saggia, si dedicavano, come sembrava più giusto, allo studio, allo sport, al divertimento. I loro cortei sfilavano non più per chiedere giustizia e libertà, ma banchi nuovi e computers aggiornati.

 

   Gli intellettuali ufficiali, sempre dediti a secondare le mode e a servire i potenti, non erano più necessari. La loro mediazione essendo divenuta inutile, perché la gente era già convinta, aveva già aderito spontaneamente al nuovo ordine sociale. Erano gli anni del consenso; i partiti di opposizione e i sindacati, convertiti, costruttivi e sanamente pragmatici come l’intera società, non chiedevano altro che poter convivere con altre forze sociali, in un governo unico della prosperità.

 

   Gli intellettuali certificavano l’accaduto con l’ideologia della morte dei conflitti e delle idee. Il pensiero debole era il nuovo ideale della società postindustriale, secondo la definizione che i cugini francesi d’oltralpe davano della storia contemporanea.

 

   Ma come ha potuto un edificio così ben costruito, abitato da inquilini dotati di così gran buon senso, franare all’improvviso senza nessuna apparente causa esterna?  E’ che il pragmatismo è la foglia di fico che nasconde il cinismo e il cinismo, se è veramente tale, distrugge se stesso.

 

 

 

La società cinica

 

 

 

   Negli anni Ottanta la società pragmatica finì col rivelarsi (perché in realtà era) la società cinica. In una sorta di rinnovata guerra di tutti contro tutti si dipanò la vita civile della nostra Italia, in un’apparente serena tranquillità. Con mezzi e strumenti diversi e raffinati si ricostruiva una sorta di stato di natura, simile a quello che alcuni filosofi del Seicento ipotizzavano precedere lo stato civile. In realtà i due stati convivono in eterno conflitto e in equilibrio tanto precario da spezzarsi con estrema facilità.

 

   Irrisi gli ideali, considerati con fastidio una sorta di intralcio sulla via dello sviluppo della nazione, si lasciava libero il campo alla corsa all’esaudimento della felicità individuale nella totale dimenticanza che la felicità individuale può esplicarsi solo se le altre individualità glielo consentono, immerse come sono anch’esse nella realizzazione della propria felicità. E’ strano come il cinico dimentichi così facilmente che, prima o poi, diffusosi il verbo, il cinismo degli altri si ritorcerà contro di lui. Mai i detti biblici, “chi di spada ferisce di spada perisce” e l’altro, più profondo, “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, fra i più inascoltati dall’umanità, sono  stati tanto disattesi come negli anni Ottanta.

 

   E’ questo il filo rosso che unifica la nostra storia recente, il fenomeno profondo che, come un fiume carsico, si inabissa per poi ricomparire, fra la prima e la seconda repubblica, a cavallo della “rivoluzione” italiana.

 

   Le analisi politologiche, le statistiche, i ragionamenti geometrici, lasciano il tempo che trovano: appartengono semmai alla storia in quanto esprimono punti di vista particolari travestiti da ragionamenti scientifici, ma non sono essi la comprensione storica. La storiografia giudica, senza troppi moralismi, e cerca di comprendere i nessi che giustificano alcune connessioni storiche. Senza moralismi ma non senza passione. E la passione ci conduce a ripensare a quegli anni secondo la generale opinione che se ne ebbe, secondo i sentimenti reali che li agitarono.

 

   La crisi delle ideologie e degli ideali politici non poteva che partorire una generale povertà della politica. Mancando i punti di riferimento filosofici e storici, messe in soffitta le grandi visioni del mondo che avevano improntato di sé gli anni della “ricostruzione” seguita alla disfatta militare del regime fascista, lo scontro politico tendeva a ridursi sempre più a scontro fra gruppi dirigenti dei partiti, al di là delle appartenenze culturali e sociali. Non che prima, come sempre, la lotta politica non si riducesse spesso e volentieri a mera guerra fra i detentori dei vari poteri, economico, politico, giudiziario, e cosi via. Ma i protagonisti erano costretti malgrado se stessi, a muoversi in uno scenario ben delineato in un ambito certo di regole e consuetudini. Comunisti e fascisti, socialisti e liberali, cattolici e laici: opposizioni reali, oltre le quali non si poteva saltare con tranquilla indifferenza. Se a fronteggiarsi erano opposte visioni della vita, non era lecito accordarsi se non in casi eccezionali o per mediare interessi reali della società. Ma se la lotta politica diveniva, secondo il pragmatismo in voga, una lotta per la conquista del potere (dalla conquista del Governo alla guida del Sindacato, dal controllo dell’informazione al controllo del potere giudiziario) oppure una semplice questione di amministrazione dalla gestione delle risorse, perché mai non ci si sarebbe dovuti accordare sull’essenziale, ossia sulla difesa dei propri interessi, sulla salvaguardia della classe dirigente del paese?

 

   La classe politica e l’intera classe dirigente (dai dirigenti industriali agli intellettuali) si chiusero in se stesse, dando vita ad una forma di oligarchia che di giorno in giorno diveniva più opprimente e fastidiosa. Anche in Italia si sperimentava il male che sembra accomunare molti regimi democratici del mondo occidentale: la crisi della rappresentanza democratica fondata sulla mediazione della politica, sulla selezione della classe dirigente, sulla competizione di gruppi e associazioni alternative. Crisi che sfocia spesso, paradossalmente nell’eccesso di rappresentanza, nella richiesta plebiscitaria di un potere diretto da un non meglio definito popolo (la gente). I leaders dei partiti e dei sindacati, i dirigenti delle aziende e delle Università, tutti coloro che occupavano un incarico di responsabilità, tendevano infatti, sempre più, a difendere la rendita di posizione acquisita, così esaltando una vocazione strutturale della politica italiana, del carattere italiano che neanche il regime fascista aveva potuto sradicare.

 

   Morti degli ideali, assopita ogni passione, perché non dedicarsi alla mera conquista dei privilegi, perché non limitarsi alla ricerca del proprio, personale, tornaconto? Tanto più che perfino la più flebile condanna morale, che ogni società esercita nei confronti di se stessa, era caduta sotto i colpi del concretismo. L’ideologia pragmatista (perché anche il pragmatismo è un ideologia, una visione del mondo) che si era sostituita alle vecchie ideologie, liberava da ogni vincolo sociale, politico, civile. Le comunità si reggono soprattutto su regole di comportamento non scritte, su sentimenti condivisi, su idee generali che nessuno determina ma tutti accolgono sia pure trasgredendoli talvolta. Un tacito accordo, ad esempio, regola i comportamenti della buona educazione come del vivere in famiglia. Non vi è un principio morale o una legge codificata che imponga di salutare i vicini di casa, ma ciascuno avverte come naturale comportarsi educatamente. Se questo tacito accordo s’infrangesse, non c’è modo di porvi rimedio. E ciò che è veramente grave non è il fatto in sé e per sé: qualunque accordo si può, e talvolta si deve, infrangere. Si può infatti, ammirare un giovane che contesta le norme della buona educazione nel nome della lotta all’ipocrisia, spesso untuosa e fastidiosa, che regola i rapporti formali, ma è difficile giustificare chi infrange delle regole per mera pigrizia, per dabbenaggine, per gretta trascuratezza.

 

   Così, per uscir di metafora, le vecchie leggi non scritte della politica italiana furono gettate al macero e ad esse si sostituì un comune sentire che, per così dire, concesse a tutti di comportarsi secondo i più particolaristici ed egoistici sentimenti. Fu il capovolgimento totale dei valori e dei codici di comportamento: ma il metro di paragone non fu il nietzschiano superuomo o oltreuomo quanto, piuttosto, i meschini calcoli di infiniti ragionieri del benessere edonistico. I partiti i sindacati non più veicoli di idee o di interessi di gruppi e classi, divennero sempre più gli strumenti di conquista per improvvisati e fortunati oligarchi. La partitocrazia, male atavico delle democrazie europee, si impose come nuova regola non scritta della società italiana. La selezione delle classi dirigenti avveniva per mera cooptazione, con il criterio tipico delle oligarchie autogeneratesi: il criterio dell’affidabilità e del servilismo. La composizione del Parlamento e soprattutto dei Consigli comunali, provinciali e regionali risultava così sempre più scadente e mediocre.

 

   Alla classe dirigente che si era formata nella lotta al fascismo, nella temperie morale e politica della guerra e della ricostruzione, si andava lentamente sostituendo una classe dirigente fiacca e incolta, incapace, come vedremo, perfino di difendere se stessa nel momento del pericolo. La corruzione diffusa, per certi aspetti, è stata l’effetto più che la causa del crollo del sistema dei partiti italiani, il casus belli, la goccia che fa traboccare il vaso.

 

   La corruzione come norma, si potrebbe intitolare un paragrafo di un futuro libro di storia dedicato ai nostri avvenimenti. Soltanto, infatti, una massiccia dose di fariseismo può lasciar credere che la disonestà fosse prerogativa di questo o quel partito, di una parte o anche di tutta la classe politica. Lo svolgimento, sia pure parziale, delle grandi indagini giudiziarie che hanno sconvolto il paese dimostra come disonestà e corruzione fossero diventate il modus vivendi dell’intera nostra società. Il portato pratico, avrebbe detto Marx, della generale diffusione dell’idea-guida, dell’idea regolatrice degli anni Ottanta: la cinica ideologia pragmatistica che solo buontemponi della politologia possono confondere con il nobile ideale liberale. Certo, un’indagine storica strettamente scientifica deve mettere nel conto della crisi italiana tanti altri fattori non certo secondari. Non esiste mai un’unica causa che generi, determini, i fatti della storia; nessuno può essere tanto presuntuoso da voler cogliere l’essenza di un’ epoca. Ma ciò non significa che non si possano e non si debbano rintracciare elementi unificanti, che non sia lecito conferire un senso agli accidenti. Il contrario di ciò è teorizzare il caos, santificare la casualità, in ultima analisi condannarsi a tacere, liberarsi da ogni responsabilità morale ed intellettuale. Significa nascondersi dietro l’apparenza di una storiografia dotta e meditata, infarcita di cifre e dati, priva di giudizi di valutazione, una storiografia, avrebbe detto Droysen, da eunuchi.

 

   Dunque bisognerà mettere nel conto l’insorgere della crisi economica e dell’occupazione, mettere in luce i legami con la più generale depressione mondiale, lo stringente trattato diMaastricht, ripercorrere le tappe della degenerazione dello Stato sociale in Stato assistenziale e clientelare, considerare la profonda crisi della rappresentanza politica e tutto leggere e interpretare alla luce dei gravi avvenimenti della storia mondiale, come la caduta dei regimi comunisti dell’Est europeo. Lo storico di razza narrerà le vicende degli uomini in carne ed ossa, dei protagonisti, dei piccoli martiri e dei piccoli eroi del nostro tempo. Ma come non essere tentati dal voler scorgere i nessi e le continuità, come non individuare nella crisi dello Stato sociale, nel deprimersi dello sviluppo economico, nel prosperare della criminalità, nel recente disagio dei nuovi emigrati privi di ogni rappresentanza politica, la crisi profonda della democrazia e del liberalismo come valori fondamentali della nostra comunità?

 

   Vedremo come il caso italiano, con la sua irriducibile specificità, sia per tanta parte un caso paradigmatico; come tanti sentimenti e tante riflessioni che le nostre vicende propongono, siano comuni al destino dei grandi Paesi fondati su istituzioni democratiche.

 

   Ripercorriamo, ora, la svolta radicale impressa alle indagini giudiziarie che hanno sconvolto l’assetto politico italiano, che hanno bruscamente accelerato la decadenza del sistema, già scritta, d’altronde, nelle cose stesse, nella società cinica degli anni Ottanta.

 

 

 

La rivoluzione ingenerosa

 

 

 

   Anche la più tragica delle rivoluzioni possiede un’anima generosa. I rivoluzionari della Francia del 1789, pur macchiandosi di delitti terribili, sentivano di realizzare in terra degli ideali di umanità: la fratellanza, l’eguaglianza, la libertà. I fanatici e sanguinari russi seguaci di Lenin erano convinti di edificare il “regno della libertà”, ove non sarebbero esistiti mai più oppressi e oppressori ma la comunanza dei beni, il comunismo.

 

   Il tratto distintivo delle due grandi rivoluzioni contemporanee fu, dunque, la generosità, l’idealità morale dei fini che si volevano raggiungere.

 

   Nel nostro caso, sotto quale segno è nata la piccola rivoluzione italiana, se rivoluzione fu? Non temo, diciamolo subito, di usare la parola rivoluzione per indicare ciò che è accaduto e forse ancora sta accadendo nel nostro paese. Non lo temo perché intendo usarla in maniera molto generica anche se non per questo meno pregnante. Certamente bisognerebbe poter disporre di più precise connotazioni giuridico-istituzionali. Per esempio, trovarci al cospetto di un radicale mutamento del sistema delle istituzioni, come il passaggio dalla monarchia alla repubblica, dalla repubblica parlamentare ad una repubblica plebiscitaria.

 

   E’ mancato e manca il “progetto rivoluzionario”, l’idea guida che orienta un consapevole movimento rivoluzionario da lungo tempo preparato e meditato. Per dirla con Tocqueville, la crisi italiana si è rivelata essere più un tumulto che una vera e propria rivoluzione.

 

   E’ però indubitabile che in pochi mesi e in presenza di avvenimenti traumatici, il sistema politico italiano sia andato in frantumi, modi e stili di vita politici totalmente capovolti, antichi comportamenti sradicati.

 

   Il motivo scatenante è stata la cosiddetta questione morale o, meglio, la questione dell’onestà. Tutta la lotta politica, la varie campagne elettorali, i comizi, gli interventi giornalistici e televisivi, si condensavano nella rivolta degli onesti contro gli uomini politici corrotti. Un vero e proprio furore dell’onestà ha attraversato la nazione: non solo chi chiedeva la testa dei corrotti, ma anche quella dei loro congiunti, degli amici, dei conoscenti, e cosi via. Nelle elezioni amministrative di molte grandi città italiane, il confronto fra i candidati sindaci si svolgeva essenzialmente sul terreno della provata onestà degli uomini e delle donne in lizza. Nessun altro valore valeva quanto il valore dell’onestà o del  nuovo (connotazione in genere totalmente vuota ed astratta!), in quanto nuovo significava essenzialmente distanza dal vecchio sistema corrotto e disonesto.

 

   Ora, sarebbe una mancanza di buon senso rifiutare il valore dell’onestà così genericamente inteso. Non vi è seducente o sofisticato intellettualismo che possa contraddire ciò che tutti avvertiamo e sentiamo. Rubare è male ed è ancor più grave rubare alla res publica, allo Stato mentre ne si è i legittimi (perché eletti in democrazia) rappresentanti: significa rubare e tradire assieme. Ciò detto, non si può negare la necessità di analizzare da vicino il concetto di onestà, perché nel nome dell’onestà si può perdere la libertà, si può perfino morire: si giudicherà forse giusto e onesto chi per non lasciare il  posto di lavoro esita a salvare un uomo in pericolo di vita?

 

   L’onestà è un gran valore, una grande virtù (tanto più grande quanto più disattesa) se non si colloca in un assoluta gerarchia che penalizzi gli altri valori. In Italia si è corso il rischio di sacrificare la libertà in nome dell’onestà. La forte strumentalizzazione dell’onestà politica operata, naturalmente, da uomini politici, complice un popolo poco abituato, negli ultimi anni, a discernere e a distinguere, ha messo a repentaglio gli ordinamenti stessi della civiltà liberaldemocratica, ha travolto gli assetti politici nati dalle ceneri del fascismo, ha seminato un profondo quanto cieco odio sociale e una diffusa ipocrisia.

 

   Difendere l’onestà significa difendere anche le condizioni in cui l’onestà possa esercitarsi, e con essa il libero controllo pubblico della sua reale attuazione. Questa condizione altro non è che la libertà, l’unico valore al quale è lecito conferire una supremazia gerarchica perché, se ben si riflette, è la libertà il valore che consente agli altri valori di affermarsi. I valori, di per sé, non hanno senso: assumono significato solo nelle loro relazioni. Preso in astratto il valore è mera retorica, artificio, in ultima analisi un non-valore, se non un cattivo valore. Scrive Nicolai Hartmann nell’Etica del 1926:

 

  Ogni valore – una volta che abbia guadagnato potere su una persona – ha la tendenza ad erigersi a tiranno unico di tutto l’ethos umano, e ciò a spese di altri valori, anche di quelli che non gli sono diametralmente opposti.

 

 Hartmann scrive ancora:

 

  Tale tirannia dei valori si dimostra già chiaramente nei tipi unilaterali della morale vigente, nella nota intolleranza (anche da parte di persone altrimenti accondiscendenti) contro la morale sconosciuta; ancor più nell’attaccamento individuale di una persona ad un antico valore. Così esiste un fanatismo della giustizia (fiat justitia, pereat mundus), che offende non soltanto l’amore, per non parlare dell’amore del prossimo, ma addirittura tutti i valori superiori.*

 

   Ma il furore dell’onestà fu anche passione morale? Fu l’Italia dei Savonarola o l’Italia dei farisei? Molti indizi lasciano credere che i Savonarola furono pochi, molti di più i lapidatori dimentichi di non essere senza peccato.

 

   Il capo dei magistrati milanesi, iniziatori delle grandi inchieste giudiziarie, ha dovuto amaramente constatare quanto diffuso fosse nel nostro paese l’abito dell’illegalità, tanto da dover invocare, disperatamente quanto ingenuamente, l’intervento massiccio di professori e maestri per arginare la dilagante immoralità.

 

   Ma allora, chi erano i tanti sostenitori dell’azione giudiziaria, da chi era formata quella moltitudine che innalzava un pubblico ministero ad eroe nazionale, votava a larghissima maggioranza in favore di una legge elettorale nuova (di cui non comprendeva a fondo i meccanismi), col solo intento di rovesciare la vecchia e corrotta classe politica? La rivoluzione, il tumulto, la rivolta italiana, fu in realtà una rivolta ingenerosa.

 

   Il paese aveva conosciuto una parziale rivoluzione nei tardi anni Sessanta (il 1968). Una rivoluzione che si sostanziò soprattutto in un mutamento radicale dello stile di vita e del costume, senza troppo incidere sul terreno specificamente politico ed istituzionale. Ma quella rivoluzione, pur fra le tante astrusità, i pericolosi fanatismi che prepararono il terrorismo degli anni Settanta, fu generosa: fu combattuta anch’essa in nome di ideali umanitari, comunitari, internazionalisti. E produsse, come tutte le rivoluzioni generose, letteratura, musica, arte, filosofia. Produzione culturale spesso rozza o astratta, talvolta falsa e ipocrita, ma rappresentativa di stati d’animo largamente condivisi. I giovani, come sempre, furono gli ingenui e, diciamolo, irritanti protagonisti di quegli anni: con cupo e rigido moralismo sostennero, contraddittoriamente, ideali di liberazione collettiva: nell’economia come nel sesso, nei rapporti con lo Stato come in quello con i genitori.

 

   Chi è il Bob Dylan degli anni Novanta? Quali i movimenti di liberazione? Non i movimenti referendari, sbriciolatisi di fronte all’insipienza del progetto politico complessivo, non la Lega Nord, fenomeno in larga misura particolaristico ed egoistico, mosso da intenti rivendicazionisti nei confronti dello Stato e punitivo nei confronti dei concittadini meridionali, non il movimento messo su da Silvio Berlusconi, pregno di rivendicazioni egoistiche ed utilitaristiche malamente mascherate da liberalismo. Il popolo degli anni Novanta appare sempre più un popolo mosso esclusivamente da sete di vendetta nei confronti di una classe politica della quale era stato per anni connivente e che adesso azzannava perché ormai indebolita ed indifesa. La gente, decantata da una stampa degna dell’ironia del Candid di Voltaire o del Tartufo di Moliére, per rimanere in Francia, come un insieme di anime belle, intelligenti, mature, si è rilevata nei tanti appuntamenti elettorali sempre più confusa e incerta, contraddittoria e ingenerosa. Repentini cambiamenti da destra a sinistra e viceversa nel breve spazio di un mattino che solo una buona dose di ottimismo può ascrivere alla logica del maggioritario e dell’alternanza liberale. Il mutamento di opinione, infatti, avviene nei paesi di sperimentata democrazia dell’alternanza sulla base di valutazioni dei programmi e degli uomini e non, come in questi anni sulla base di sbalzi umorali, di irrazionali simpatie e antipatie. Anche l’ultima tornata elettorale dell’aprile del 1996, che per la prima volta ha portato al governo la sinistra democratica alleata con comparti del mondo cattolico e liberale, rappresenta l’urto, lo scontro fra due diverse civiltà, fra due lontane sensibilità ed è ancora presto per classificarla come un “naturale” evento tipico del sistema maggioritario. Lo dimostra tra l’altro la tenuta della Lega Nord e lo comprova il tentativo ancora in atto di scomporre attraverso la creazione di un nuovo grande centro, i due schieramenti faticosamente costruiti.

 

   Spesso la politologia sta alla politica come i commenti dei giornalisti sportivi stanno alle partite di calcio: non hanno alcun reale punto di contatto. E così dobbiamo rinnegare e quasi vergognarci (di quella vergogna che prende i bambini quando si scoprono ingenui) delle analisi e dei commenti scritti in questi anni. Non vi è nulla di più lontano dalla realtà, delle analisi degli opinionisti, delle geometrie disegnate dai professori di scienze politiche. La verità la percepiscono, alla pelle, le agenzie pubblicitarie le quali, se non avessero immediati e legittimi scopi pratici, potrebbero essere indicate come i veri, soli storici della rivoluzione italiana, dell’indecifrabile comportamento della gente di cui qui discorriamo timidamente.

 

   Profluvi di argomenti inutili, di previsioni errate: “il maggioritario comporta l’unificazione dei diversi e la divisione in blocchi; il collegio uninominale avvicina il cittadino agli eletti; il nuovo sistema politico indebolisce i gruppi dirigenti dei partiti e dei movimenti a favore della partecipazione democratica e cosi via”.

 

   In realtà i sentimenti dominanti sono stati un misto di utilitarismo egoistico e di inconsapevolezza dei propri interessi, un futile gioco di sentimenti elementari, quali la simpatia o antipatia personale dei vari leaders, l’irritazione per questo o quello slogan, la credenza in questa o in quella parola d’ordine. E, dunque, alle spalle del fantasma dell’opinione pubblica è apparso il volto vero della gente.

 

   Romano Prodi, l’uomo gettato nell’arena per battere Berlusconi, dichiarò in televisione: “Gli esperti mi hanno consigliato di fare ascoltare il mio discorso pubblico al mio nipotino di quindici anni, poi farmelo ripetere e quindi leggerlo agli elettori cosi emendato.” Il professore si disse, giustamente, sconcertato. Ma è tanto falsa l’intuizione degli esperti?

 

   Alle soglie del Duemila ci si è accorti che molti, troppi italiani credono alle Madonne che piangono sangue, che molti altri frequentano a pagamento maghi e fattucchiere. Non solo nel profondo Sud, ma nell’industriale Torino, patria italiana dei culti satanici. L’italiano medio: la mattina astuto evasore fiscale, il pomeriggio praticissimo maneggione di affari, la sera preda di un mago capellone e inanellato… Esagerazioni, forse caricature, ma di quale realtà?  

 

   Dove può condurci la volontà generale, il principio di maggioranza? Scopriamo in corpore vili, sulla nostra pelle, la tirannia della maggioranza, il dispotismo della democrazia.

 

 

 

La grande delusione

 

 

 

   Dopo ogni rivoluzione, è banale ricordarlo, segue sempre la delusione. Foga rivoluzionaria, gelida reazione, grande disillusione. Anche il piccolo sconvolgimento italiano non è sfuggito a questa “legge” della storia.

 

   Ma la particolarità del nostro caso sta, forse, nell’intrecciarsi e nel susseguirsi di speranze e delusioni, illusioni e disillusioni. O almeno così appare a chi è ancora totalmente immerso nel fluire degli avvenimenti che non sembrano ancora aver esaurito i loro effetti. Manca quella prospettiva che unifica i movimenti storici che ai protagonisti dovettero sembrare discontinui e contraddittori. E’ lo spettatore, e infatti, che conferisce unità alla commedia o alla tragedia della storia.

 

   La delusione comincia a stringere d’assedio i protagonisti grandi e piccoli della rivoluzione italiana.  Come in ogni stato rivoluzionario si mescolano grandi novità con vecchie liturgie, atti di coraggio con piccole meschinità. Bisognerebbe leggere e rileggere Gli dei hanno sete di Anatole France per comprendere cosa avvenne fra la gente al tempo della rivoluzione francese e paragonare quegli stati d’animo a quelli della nostra gente in momenti di grande e generalizzata confusione.

 

   Larghi settori della magistratura, che avevano vissuto il sogno di una giustizia trionfante e invincibile e che avevano conosciuto giorni di gloria, assistono al triste spettacolo della realtà: un paese corrotto in profondità; una nuova classe politica che tende a restaurare gli antichi privilegi ai confini della legalità costituzionale e di quella ordinaria; al sorgere, o al consolidarsi, di poteri economici tanto forti da porsi, di fatto, al di là o al di sopra della legge. Restano lunghi processi che non vedranno mai la fine e saranno svolti nel più assoluto e grigio anonimato. Vendette trasversali tormentano la vita della magistratura italiana divisa, pur essendo accerchiata.

 

   Cala il sipario anche su tanti piccoli protagonisti delle rivoluzioni referendarie. Su quella cosiddetta società civile che aveva creduto di potersi sostituire alla classe politica, con improvvisazione pari solo alla sua arroganza. Dilettanti allo sbaraglio, che avevano vissuto il sogno di poter spodestare i partiti e i movimenti approfittando di un clima generale nel quale tutte le regole della politica venivano sommariamente derise e disprezzate: la capacità di mediazione, l’intelligenza concreta delle cose, la capacità di coniugare la lungimiranza dei progetti con la necessità del momento, di sintetizzare l’ideale con la realtà. Cala il sipario sul protagonismo sfrenato di decine di donne ed uomini che, illusisi di riappropriarsi della politica e della democrazia, di fatto avevano costituito una sorta di permanente democrazia assembleare, nella quale l’ultimo venuto pretendeva di dettar legge e poi, novello Robespierre di provincia, dettare a tutti le regole dell’uguaglianza. Cala il sipario sullo sciapito giacobinismo egalitaristico dei primi anni Novanta.

 

   Sulle sue ceneri è sorta, una volta troncate di netto le radici della cultura politica italiana, una classe politica nel complesso, e salvo le dovute eccezioni, arrivista e velleitaria. Ma la delusione è calata, come una coltre di nebbia, sulle speranze degli irriducibili “popoli” di destra e di sinistra, ai quali non era sembrato vero che il grande partito che per cinquant’anni aveva di fatto governato il paese, sia pure alleandosi (compromettendole) con le opposizioni, fosse crollato verticalmente, di un sol colpo. Sconfitta la Democrazia Cristiana, e sconfitti i suoi alleati storici, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali, sia a destra che a sinistra gli intellettuali militanti, i nostalgici del fascismo e del comunismo hanno sperato di poter finalmente occupare la scena politica. A destra, soprattutto, cresceva la febbre della vittoria, tanto più alta quanto più duraturo e inflessibile era stato l’ostracismo inflittole dalla cultura ufficiale. Ritornavano nomi e spettri del passato e, finalmente, la nostalgia del fascismo poteva riemergere con orgoglio e arroganza insieme. Per molti, troppi anni, il sistema di potere creato dalla democrazia cristiana aveva come occultata una realtà profonda, che era sfuggita anche ai più attenti interpreti della società italiana: parte cospicua di essa era profondamente e radicalmente fascista. I valori, elementari e rozzi, che ispirarono e fecero la fortuna della dittatura mussoliniana ritornano prepotentemente in questi anni, condivisi da larghi strati della popolazione: il disprezzo per la complessità, per la diversità, per l’individualismo etico; l’esaltazione dell’individualismo egoistico, dell’etica del successo, dell’ordine gerarchico.

 

   Ma, giunta alle soglie del potere, la destra (come del resto la sinistra) ha dovuto rinnegare i suoi piccoli ideali, posta di fronte alla realtà effettuale, alla concreta anima della maggioranza del popolo italiano. Maggioranza moderata, come si dice in gergo politologico. Ma di quale moderazione: quella di cui dovrebbe sostanziarsi una moderna e civile democrazia liberale o quella che identifica nel quietismo, nella viltà, nella difesa particolaristica e ingenerosa dei propri interessi, il fine ultimo di uno Stato? Questo il dilemma italiano. Cosicché i gruppi dirigenti della cosiddetta destra, giunti fortuitamente e casualmente al potere hanno dovuto, come già da qualche tempo i gruppi dirigenti della sinistra, scendere a compromesso con questa maggioranza “moderata” tradendo le aspettative dei militanti. Da qui la favola degli ex fascisti e degli ex comunisti trasformatisi in neoliberali.

 

   Tutto ciò non poteva che generare delusione, creare frustrazione, alimentare diffidenza e scoramento. Messi a tacere i militanti dei due schieramenti, i gruppi dirigenti formatisi nelle sezioni del Movimento sociale (erede del fascismo) e del più grande partito comunista dell’Occidente, stentano a trovare la via maestra della liberaldemocrazia. La caduta del regime democristiano ha come scoperchiato il vaso di Pandora, ed il paese reale si è rivelato forse anche peggiore di quanto perfino i più pessimisti avevano temuto. Zoccoli duri di moralisti di destra e di sinistra e al centro una palude di interessi particolari e contrapposti, da cui emergono, di tanto in tanto, piccole isole di generosità.

 

   Pur timorosi di creare tristi equivoci, bisogna riconoscere che il destino della questione italiana non può essere affidato alla cosiddetta opinione pubblica, alla “gente”: un economista democristiano, come Mario Deaglio, ha parlato di cittadino (politicamente) analfabeta. Tocca, ancora una volta, alle élites e agli intellettuali farsi carico di interpretare coraggiosamente e spregiudicatamente la realtà, di prospettare il futuro e, perché no, di porsi alla guida di un moto rivoluzionario forte, ma non violento il cui segno, la cui vera anima, sia la generosità e non l’arido cinismo di questi ultimi anni. Alla rivoluzione ingenerosa, figlia della società cinica, e alla grande delusione, succederà un lungo Termidoro, ossia una lunga fase di stanca, di totale distacco e sfiducia nei confronti della vita politica e civile, o nuova lava ribolle sotto un’apparente calma?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’Italia al bivio

 

 

 

   Per la prima volta, la giovane democrazia italiana si è trovata a vivere esperienze simili alla stagionata democrazia americana. Saprà cogliere i vantaggi di quella mentalità o, riuscirà solo a esasperare i difetti? Alcune novità sostanziali si sono forse radicate nel tessuto vitale della nazione, alcuni fenomeni, apparentemente transitori, potrebbero giovare sia pure in presenza di un decadimento morale che va ben oltre le vicende della politica quotidiana.

 

   Alle prime appartiene senz’altro l’idea liberale dell’alternanza al potere fra forze politiche alternative. Una concezione della politica estranea fino ad ora alla cultura di un popolo incline al compromesso e al falso ma comodo ecumenismo, abituato a percepire il pluralismo dei partiti e la diversificazione dei governi come un attentato all’ordine ed alla convivenza civile. L’alternanza tipica delle democrazie liberali come principio regolativo dell’azione politica si è fatta comunque strada sulla scia dei referendum elettorali almeno fra i gruppi dirigenti e negli ambienti più avanzati. Ai secondi si può ascrivere il momentaneo arretramento del clientelismo come sistema organizzato di raccolta del consenso elettorale e orientamento di larghi strati dell’opinione pubblica.

 

   Ma altre novità sostanziali vanno modificando in profondità la vita politica italiana. La scomparsa, ad esempio, della cosiddetta unità politica dei cattolici rappresentati, nell’ultimo cinquantennio, da un solo partito. Anomalia italiana che aveva, assieme al costituirsi del più forte partito comunista dell’Occidente (anch’esso scioltosi), condizionato dalle fondamenta la nascita della Repubblica. L’insorgere del movimento federalista che, se ben inteso, potrebbe recare un contributo fondamentale, in un sistema che cerca di ricostruire un giusto equilibrio fra i diversi poteri, in termini di garanzie e libertà.

 

   Ancora, il relativo ridimensionamento della cosiddetta partitocrazia intesa come predominio assoluto degli apparati burocratici condizionanti la vita sociale e civile nella sua interezza, dalle scelte di politica estera alla gestione del più piccolo teatro di provincia, del più insignificante comitato.

 

   Ma le opportunità, capovolgendo la nota intuizione vichiana, possono diventare traversie. Luci ed ombre si sovrappongono e si confondono nell’incerto scenario italiano. La debolezza dei partiti, il loro dissolversi in flessibili movimenti e la crescente personalizzazione della lotta politica potrebbero favorire com’è ovvio, i cosiddetti poteri forti, contribuendo ad una sostanziale sottrazione di democrazia. E’ evidente, ad esempio, che un uomo potente per mezzi e condizioni può schiacciare un semplice candidato non più sorretto da partiti e organizzazioni ideologiche. E’ presumibile che gruppi di pressione compatti, formati da industriali, professionisti specializzati o organizzazioni ai limiti della legalità, eserciteranno, in futuro, un potere politico diretto, mentre prima dovevano limitarsi ad influenzare la complessa e articolata vita dei partiti. Sindacati, magistratura, corpi separati dello Stato, potranno giovarsi della debolezza della politica, nel bene come nel male.

 

   La fragilità dei nuovi partiti, la mancanza di carisma del nuovo ceto politico genereranno disaffezione nei confronti della democrazia oppure, come accade in altri paesi, favoriranno la crescita di una società autonoma e libera da vincoli di ogni genere?

 

   Sapremo raccogliere la sfida lanciata da questa nuova forma di lotta politica? Saprà sostenere, il Paese, un confronto politico nel quale fattori quali l’aspetto fisico del candidato, la simpatia di sua moglie, la capacità di apparire in televisione, diventeranno componenti essenziali della lotta politica a discapito dei programmi e delle idee? Negli Stati Uniti questi comportamenti hanno creato non poche preoccupazioni. Ricchi senatori inamovibili hanno ingombrato la scena, opulenti ciarlatani  sono riusciti a condizionare grandi masse di elettori.

 

   Anche l’ Italia si appresta ad affrontare la politica fondata sui sondaggi d’opinione: accoglieremo l’idea di abbandonare i tossicodipendenti o gli anziani soli se i sondaggi indicheranno che la maggioranza dei cittadini preferisce impiegare in altro modo le risorse economiche destinate a migliorare la loro condizione?

 

   L’America accoglie in sé culture le più diverse e lontane, varie e potenti comunità religiose (basti pensare alla forte minoranza cattolica fra la maggioranza protestante) , razze ed etnie le più disparate. Se esse sembrano creare disordine e perfino spezzare il vincolo della comunità, garantiscono un alto tasso di libertà ed impongono, non sembri paradossale, la tolleranza e, con essa, la frantumazione del conformismo. Presidenzialismo, federalismo, autonomia del Parlamento accanto ad un’antica e sperimentata tradizione fanno da antidoti indispensabili a quel vero e proprio cancro della democrazia americana che Tocqueville definì la tirannia della maggioranza. Saprà anche l’Italia resistere alla tentazione di regolare lo sconto politico esclusivamente sulla strumentalizzazione delle più stupide e feroci mode, sui più banali o cupi sentimenti che di tanto in tanto attraversano e pervadono di sé l’opinione pubblica? E’ vero, come dicono alcuni economisti, che si sta formando una nuova borghesia fondata esclusivamente sul capitale umano (la capacità di usare la tecnologia) pronta a distruggere tutto ciò che si oppone alla sua espansione e, se sì, sul piano etico politico trionferà un nuovo “ideale” egoistico fondato esclusivamente sulla competizione intesa non più come strumento ma come fine?

 

   Siamo senza dubbio ad un bivio. Assistiamo ad un mutamento ancora indecifrabile della mentalità italiana. L’eccitazione forcaiola e giustizialista, ad esempio, ha dialetticamente generato una maggiore attenzione per i problemi delle garanzie individuali. Sentimento quasi sconosciuto agli italiani. Non c’è romanzo, film, commedia in Italia (salvo eccezioni rarissime) che ponga al centro dell’interesse le garanzie dell’individuo rispetto all’organizzazione giudiziaria, alla Chiesa, alla maggioranza, allo Stato, e così via. Al contrario, anche il più banale telefilm americano è sempre anche una denuncia contro la violazione della privacy o della dignità del sia pure più strambo cittadino.

 

   Si farà strada anche in Italia l’idea cristiana e liberale della sacralità della persona umana? O bisognerà affidarsi al solo e sempre meno sentito solidarismo?

 

   Segnali contrastanti, dunque, che frastornano anche il più attento osservatore. L’entusiasmo dell’impegno politico, tipico dei momenti di crisi rivoluzionaria come quelli vissuti negli anni Novanta sembra affievolirsi fino quasi a scomparire. La “morte delle ideologie” già annunciata sul finire degli anni Settanta si coniuga con la scomparsa traumatica dei partiti storici e con la trasformazione forzata dei partiti di opposizione. La mediazione della politica rappresentava un elemento di civiltà. L’organizzazione capillare di partiti e sindacati, se da un lato generava la partitocrazia, consentiva dall’altro a migliaia di persone di apprendere meccanismi e metodi altrimenti incomprensibili. Forniva una naturale e spontanea palestra nella quale si veniva “educati” alla politica, si esprimevano esigenze e si moderavano richieste di vario genere e di varia natura; si acquistava il senso della partecipazione ad organismi più ampi e complessi rispetto alla ristretta e troppo spesso egoistica comunità di appartenenza: paradossalmente si acquistava un crescente senso dello Stato e, comunque,  una maggiore sensibilità per la complessità dei problemi e delle questioni. Il movimento di cui si era nutrita parte cospicua della battaglia politica degli anni Sessanta e Settanta, dal movimento studentesco al movimento femminista, capace di incanalare, sia pure in maniera discutibile, sofferenze, speranze e illusioni diffuse, sembra essersi dileguato, e lo stesso movimento referendario, che sembrava aver coinvolto milioni di cittadini, non è durato, come si è detto, che il breve spazio di un mattino.

 

   E’, forse, la morte della politica nel paese di Machiavelli? Essendo la politica una categoria dello spirito, una condizione eterna della vita, non muore e non rinasce, ma muta, trova nuovi ed imprevedibili modi di essere, occupa la scena con mille, diverse, rappresentazioni. Assistiamo molto probabilmente, solo al travagliato ritirarsi della politica della quale siamo stati a vario titolo spettatori e attori negli anni della cosiddetta Prima Repubblica e al sorgere di nuove forme di organizzazione, di nuovi comportamenti non ancora del tutto decifrabili.

 

   Alle preoccupazioni e alle speranze tipicamente italiane si affiancano le più generali incertezze della vita culturale ed etica del mondo intero. Si ha sempre più la sensazione (che, in realtà, è un’amara constatazione) di assistere ad una progressiva riduzione delle sovranità delle varie nazioni, dei singoli Stati. Questo crescente disagio, forse, genera i movimenti separatisti, alimenta i tanti particolarismi che in un misto di egoismo e di rivendicazionismo della propria identità sorgono o rinascono un po' dovunque. Dal dilagante integralismo musulmano alle rinascenti rivendicazioni dei negri americani, dai nazionalismi slavi agli odi etnici nel dissolto impero sovietico che sembra trasformarsi in una terra di conquista di nuove tribù, ai separatismi invocati dalle comunità ricche che non intendono condividere con altri i propri privilegi, come nel caso della Lega Lombarda e del Qebéc in Canada. Questa spasmodica e, per tanti aspetti, ingenua ricerca dell’ identità perduta sembra inseguire un sogno difficilmente realizzabile in un mondo sempre più unificato e omologato dai progressi della tecnica, soprattutto nel settore delle telecomunicazioni, in un mondo ferreamente governato da “leggi” economiche strettamente correlate che sfuggono al controllo razionale degli uomini. Solo pochi anni fa un uomo della steppa, un contadino del Piemonte, un pescatore del Mar del Nord e un cittadino di Parigi non avrebbero potuto lontanamente immaginare che il loro tenore di vita, la loro stessa sopravvivenza fisica, potevano dipendere dalle scelte politiche ed economiche di un paese lontano. Perfino il destino ecologico del nostro universo sembra concentrarsi nelle mani di pochi o, peggio, seguire inevitabilmente il destino del progresso che sfugge al controllo di qualsivoglia organizzazione e cresce motu proprio come una mostruosa, imperscrutabile entità. Eppure ogni uomo avverte i crescenti benefici che anche nella più minuta vita quotidiana quella impassibile entità, il progresso, che si vorrebbe limitare dispensa, consentendo all’uomo della steppa come al cittadino di Parigi un livello di vita quale mai prima era stato conosciuto. Un sempre crescente numero di uomini e donne si giova dei progressi della tecnica, soprattutto nella medicina. Ma il progresso della tecnica influenza anche quella che, con un sorriso sulle labbra, si chiama vita spirituale. La tecnica svolge, infatti, una funzione profondamente e sostanzialmente democratica, estendendo a tutti benefici e privilegi prima appannaggio di pochi fortunati, come già intravide Adam Smith agli albori della rivoluzione tecnologica. Quegli stessi meccanismi che potenzialmente potrebbero favorire un nuovo, terribile totalitarismo tecnocratico (si pensi alla potenza dei computers per il controllo della  privacy o dell’inquietante ingegneria genetica che propone una vera folla di dilemmi etici) sono quegli stessi che diffondono la cultura e le conoscenze, che permettono a migliaia di uomini, a piccoli gruppi e a svariate associazioni, di dotarsi di strumenti di controllo e di garanzia e di influire così sulle grandi scelte più di quanto non si creda, e di creare reti di comunicazione difficilmente intercettabili da nuovi e vecchi poteri illiberali.

 

   Sugli immaginari fili delle fibre ottiche, insomma, può viaggiare la libertà. La tecnica non è di per sé liberale o illiberale, perché essa è sottoposta alla scelta, al giudizio, che è sempre giudizio morale, è sempre scelta etico-politica. Il cosiddetto progresso insomma, sembra offrire gli strumenti di cui l’uomo può disporre per determinare il suo futuro.

 

   Grandi questioni internazionali e piccole questioni locali si profilano all’orizzonte in una connessione storica che presenta, dopo anni di relativa stasi, improvvise accelerazioni dagli esiti imprevedibili. Movimenti come quelli della Lega Nord, per tornare al nostro paese, finiranno col promuovere un maturo federalismo di stampo liberale o trascineranno l’Italia nel baratro del più gretto e ottuso particolarismo? Reclamano un più moderno svolgimento della vita politica e democratica, o preparano, sia pure inconsapevolmente, una terribile frattura, una profonda cesura della storia civile italiana nata con il Risorgimento, il quale non fu soltanto l’unificazione economica e giuridica di alcune regioni, ma rappresentò l’emancipazione in senso liberale e democratico di milioni di uomini e donne? La grande cultura italiana riemergerà secondando la sua vocazione europea, o si inabisserà nel melmoso mare delle lotte accademiche e nel fluire impazzito dei torrenti dell’industria culturale?

 

   L’ansia di costruire un nuovo patto sociale, nuove regole della convivenza politica, è il segno di una rinnovata consapevolezza liberale o è solo il sintomo di una grave malattia: la voglia di mettere la sordina  ai conflitti, alle legittime aspirazioni dei diversamente pensanti? Ritroveranno espressione politica i tanti bisogni dimenticati, quelli degli svantaggiati e degli sfortunati, o occuperanno la scena solo le esigenze dei gruppi forti, determinati ad estendere i loro privilegi? Il Sud d’Italia si rinchiuderà nella sua marginalità o potrà svolgere il ruolo che la storia sembrava assegnargli nella comunità nazionale ed internazionale?

 

                                *                                   *                                  *

 

   Il quadro appena tratteggiato in chiaro scuro, non può autorizzare ottimismi o pessimismi: stati d’animo legittimi ma poco adatti a giudicare la storia. L’ottimismo, però, è in certo qual modo necessario per l’azione. Se non si è ottimisti, se non si crede e si spera che il nostro progetto di vita si realizzerà in qualche misura, perché agire? Ottimismo, dunque, a patto che si comprenda che l’ottimismo della volontà è sempre anche ottimismo della ragione, di quella ragione concreta che orienta e accompagna l’azione, di quella ragione che ha messo giudizio, che giudica nella concretezza della storia e non secondo astratte utopie. Solo in questo senso, dunque, anche giudicare è in qualche modo sperare. Disegnare un’utopia operante, possibile, un dover-essere (Sollen) che deve orientare l’essere (Sein): è questo il compito che attende le nuove generazioni.

 

   Abbiamo imparato che la storia è sempre storia di conflitti, che il dramma è l’anima della storia. Abbiamo imparato a diffidare di quelle teorie (per nobili che siano) tendenti a imprigionare la storia: rincorrendo il passato, immaginato molto migliore di quanto sia, o inseguendo un futuro che è solo il frutto delle nostre speranze. In entrambi i casi si perde di vista la realtà, il fluire delle cose, la vita stessa. L’errore teorico degli utopisti reazionari e degli utopisti progressisti si tramuta presto in tragedia morale, in nome delle utopie si sacrifica e opprime la libertà, segnando il destino di milioni di uomini e donne.

 

   Così, armati di queste poche certezze, dobbiamo indicare una strada, provare a ritrovare una ragionevole speranza. La rivoluzione ingenerosa che ha attraversato l’Italia in questi ultimi anni reclama un futuro impegno nel segno della ritrovata fiducia nella umana capacità di autogovernarsi. Dalla dialettica delle cose stesse può emergere una nuova, civile visione della vita. Sta alle élites, intese come comunità etiche, prefigurare il futuro per orientare l’azione, saper trasformare vichianamente le traversie in opportunità.

 

   La perdita di riferimenti certi che tanto spaventa filosofi e uomini comuni, può tramutarsi nella costruzione di una polis, di una città politica pluralista nella quale la diversità è un valore positivo e non un elemento di mera disgregazione.

 

   La crisi del lavoro tradizionalmente inteso non va necessariamente interpretata come una sciagura di portata biblica ma semmai come il superamento della biblica maledizione: “tu uomo lavorerai con gran sudore”. Il progresso scientifico consente all’uomo di liberarsi dal lavoro percepito come fatica fisica, come alienazione psicologica, come svilimento della più grande proprietà di cui si dispone: la propria capacità. Pigrizia mentale, moralismo (il lavoro deve coincidere con la sofferenza, come strumento di espiazione), incapacità di lasciarsi alle spalle antiche abitudini, impediscono all’uomo contemporaneo di cogliere questa immensa opportunità: a parità di ricchezza prodotta, aumentare il tempo libero, in senso quantitativo quanto qualitativo.

 

   Negli ultimi anni, in Italia come nel resto del mondo occidentale (anche se il paese che più degli altri ha sperimentato la crudezza di un certo modo di intendere il capitalismo è il Giappone) l’umanità si è come dilaniata e quasi spossata, inseguendo miti e utopie negative. Da più parti si avverte la stanchezza e l’avvilimento di chi ha creduto di poter vivere sotto il segno dell’ingenerosità.

 

   Tornare, ma è un tornare che significa andare avanti, alle antiche “virtù” cristiane e liberali di cui tanto si è nutrito al suo sorgere il liberalismo democratico, cresciute e fortificatesi attorno al fondamentale concetto del rispetto della dignità e della libertà dell’individuo, è il nostro imperativo morale, la nostra unica via di salvezza pratica.

 

   La sfiducia mostrata in queste poche pagine nelle cosiddette masse, nel popolo, nella gente, nell’onnipotenza pubblica, non deve lasciar credere che l’alternativa auspicata sia l’ottuso totalitarismo, sia esso contrassegnato dal tono forte della destra o dal più mite tono del paternalismo assistenzialista. L’alternativa, oggi come sempre, è l’ampliamento della libertà che non sempre coincide con l’ampliamento quantitativo di alcuni particolari diritti, isolati dal più generale contesto nel quale si organizza la convivenza di milioni e milioni di uomini e donne.

 

   Presto ideali quali l’europeismo, inteso come centro unificante dei valori occidentali, la solidarietà, intesa come rispetto non meramente pietistico, la creatività concepita come originale espansione dell’etica, da ideali freddi o retorici potrebbero tornare ad essere utopie concrete, nuove frontiere da conquistare e superare. Perché ciò accada e non rimanga scritto in uno sterile libro dei sogni, perché questo esercizio dell’immaginazione e questa individuale speranza diventino reale pratica politica, si deve avere il coraggio di guardare con spregiudicatezza alla grave condizione morale e politica del nostro paese e saper cogliere le opportunità offerte dalla storia. Segnali positivi si delineano all’orizzonte. Dopo gli anni del riflusso, della chiusura egoistica, sembra di scorgere nelle cose stesse, in mille indizi, la possibilità di ricostruire un patto non scritto fra cittadini di buona volontà. Non vi sarà vittoria definitiva: ma per lo stesso motivo non vi è sconfitta definitiva. Sconfitta e vittoria sono concetti di origine psicologica, validi per l’individuo transeunte, per i mortali, non per la storia nel suo insieme.

 

   Cosa precisamente accadrà non ci è consentito sapere. Se lo sapessimo, per altro, non avremo altro da fare che aspettare che il sole sorga. Per tutti, in fin dei conti, deve valere il vecchio adagio: fai quel che devi, accada quel che può. E il nostro dovere, pur scontando il pessimismo di cui si è data tanta prova, è quello di lavorare per trasformare la rivoluzione ingenerosa in impegno per conservare e ampliare gli spazi di libertà, per far rinascere fra i gruppi dirigenti il sentimento della libertà. Scrive Tocqueville:

 

    Chi cerca nella libertà altra cosa che la libertà stessa è fatto per servire. (…) Non mi chiedete di sottoporre ad analisi questo desiderio sublime: occorre provarlo. Esso penetra spontaneamente nei saldi cuori che Dio ha creato per ospitarlo, esso li riempie, li infiamma. Bisogna infatti rinunciare a farlo comprendere agli animi mediocri, che mai non l’hanno sentito.

 

   L’auspicio è che nella nuova Italia le condizioni generate dalle tumultuose vicende degli ultimi anni, preparino tempi migliori per l’affermarsi di una matura e consapevole coscienza del valore profondo della libertà, modernamente intesa come vedremo nei capitoli successivi. Non è nostro compito indicare concreti programmi politici ma è, forse, nostro dovere contribuire a chiarire i termini delle questioni in gioco per consentire di orientarsi nell’azione con maggiore consapevolezza.

 

   La vittoria sia pure labile alle elezioni dell’Aprile del 1996 da parte di uno schieramento politico del tutto inedito, composto da postcomunisti, socialisti, cattolici democratici e liberaldemocratici nei confronti di una nuova destra che sembrava incarnare decisamente “l’ideale” della ingenerosità che ha caratterizzato la vita politica italiana degli ultimi tempi, è sembrata un buon auspicio. Ma esso diventerà una tangibile realtà solo se si saprà sviluppare una politica di profonda e radicale innovazione capace di creare le condizioni di un grande movimento democratico in grado di coniugare equità ed efficienza, libertà e solidarietà. Per far ciò occorre, ci sembra, porre le fondamenta di una forza politica unitaria (pur nella ricchezza delle diversità culturali delle sue componenti) che prima ancora dei programmi e delle iniziative politiche, sappia fissare dei principi, degli ideali forti e chiari.

 

   A cominciare da una attenta riconsiderazione dell’idea stessa di democrazia intesa come forma politica organizzata delle libertà fondamentali e non come surrogato di grandi e piccoli totalitarismi, di paternalismi acquiescenti. La grande sfida che attende i liberaldemocratici e la sinistra di ispirazione europea consiste nel superare, non più solo a parole le rispettive antiche incrostazioni ideologiche le quali sembrano frenare lo sviluppo del movimento e rendere, per motivi diversi, statiche le posizioni in campo. Non rinnegare le tradizioni ma saperle far rivivere nel nuovo contesto storico. Il liberalismo deve decisamente superare una certa visione economicistica dell’uomo e il socialismo l’idea che il progresso si individui solo in determinati gruppi o classi.

 

   L’impegno può diventare comune sul terreno dei così detti diritti di cittadinanza (modo di dire in verità un po' scialbo) soprattutto di quelli dei cittadini più deboli e svantaggiati che non sono solo quelli economicamente svantaggiati. La nuova “classe” da difendere, la nuova “classe” che può porsi come fondamento di un nuovo assetto sociale e politico è quella composta dai tanti individui che non trovano nell’attuale modello di sviluppo la possibilità di esercitare la propria creatività, i propri diritti. L’individuo da porre al centro dell’interesse dei neoliberali non è l’individuo egoistico in grado  di mobilitarsi solo per difendere privilegi acquisiti ma l’individuo etico, l’uomo intero posto nelle condizioni di poter estrinsecare nella comunità la sua stessa individualità. Non assolvere a questo compito significa dare spazio ad una nuova destra che contraddittoriamente vellica gli istinti peggiori in nome di una presunta difesa della libertà creatrice. La sinistra democratica e i liberaldemocratici troveranno (o forse ritroveranno) la capacita di interpretare,  dal governo o dall’opposizione, il progresso laicamente inteso, nella costruzione comune di una visione del mondo generosa (che è qualcosa di più che solidale) sia pure nei limiti di un pensiero che non si nutre di facili illusioni, che non pretende di imporre agli altri la propria idea di felicità che non crede in vittorie definitive ma che sa riconoscere l’eterno valore dell’incessante lotta per la libertà.

 

 

 


*  Nicolai Hartmann, Ethik, 1926, p. 524 e segg.