Una classe dirigente per il Sud
Dal recente voto amministrativo, al di là dei freddi numeri che pure sono eloquenti, emergono due dati politici incontrovertibili: si placa l’onda lunga del centrodestra, il centrosinistra recupera fondamentali posizioni al Nord ma è ancora in difficoltà al Sud.
E’ evidente che è questo secondo dato quello che deve collocarsi al centro delle riflessioni nostre, dei partiti e, soprattutto, degli intellettuali.
Già nelle elezioni politiche, nel Piemonte e in qualche collegio del milanese, si era assistito ad un recupero dell’Ulivo che al Sud, invece, franava elettoralmente in Sicilia, Puglia e Calabria, resistendo, con non poche difficoltà, in Campania. E’ un fenomeno imbarazzante, se si vuole paradossale ma che non può, per questo, essere rimosso o sublimato. Pur non volendo cedere, infatti, ad un’ eccessiva radicalità di analisi, è certamente sorprendente che un così gran numero di cittadini meridionali abbiano concesso fiducia, alle regionali come alle politiche, ad una coalizione che, per composizione, ideologia ed uomini, è senz’altro la più antimeridionale che l’Italia repubblicana, ma forse l’Italia unitaria, abbia mai conosciuto.
Il centrosinistra ha retto in Basilicata e in Campania perché ha dato buone prove in fatti di amministrazione, perché dispone di alcuni esponenti di assoluto rilievo, capaci di coniugare prestigio nazionale e radicamento locale. Perché, infine, è riuscita, pur fra tante polemiche, a tenere sostanzialmente insieme una coalizione che si estende da Rifondazione comunista ai repubblicani.
Eppure, gli scricchiolii che si avvertono, anche in Campania, e il quadro generale del Mezzogiorno impongono, come si è detto, una riflessione molto attenta e severa. Innanzitutto, bisognerebbe riaprire la discussione sulla cosiddetta questione meridionale, frettolosamente accantonata per una perniciosa moda intellettualistico-giornalistica (il cosiddetto revisionismo) e per ben più solidi interessi economici e di potere rappresentati dalla Lega e da settori del mondo imprenditoriale.
Un’antica, pessimistica, analisi della composizione sociale e perfino dei caratteri etici delle “popolazioni meridionali” individua un Sud costantemente filogovernativo, pronto a barattare dignità e progresso con mance e prebende o mitiche promesse. C’è del vero in questa interpretazione, che risale addirittura a Giustino Fortunato il quale, pur nel suo pessimismo, non smise mai di difendere il suo Mezzogiorno. Ma non è tutta la verità. Nel Sud si scorge un nuovo ceto imprenditoriale attivo e talvolta originale. Un ceto professionale che in alcuni suoi settori incarna e invoca una civiltà di stampo europeo; una borghesia che teme di essere risucchiata nel plebeismo (almeno di tipo psicologico) e spera i contribuire con la sua peculiarità allo sviluppo dell’intero paese e dell’Europa.
Si tratta di comprendere meglio queste esigenze, di saperle rappresentare e, in certo qual modo, di difenderle in tutte le sedi possibili, nelle istituzioni culturali come nelle istituzioni politiche. Al Sud non servono ricette precostituite, neoliberiste o neointerventiste che siano. Ma la capacità di cogliere la specificità dei suoi problemi e delle sue potenzialità. E’ questo il compito che spetta alle classi dirigenti, che non devono venir meno al ruolo assegnato loro dalla storia: saper essere spregiudicate nelle analisi, capaci di mediare esigenze etiche e interessi economici in ambito politico.
Ernesto Paolozzi